Conservare significa investire
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Le cattedrali possono sorgere nel deserto e portare inquinamento, lavoro salariato mal retribuito, chilometri di strada da percorrere giorno o notte – a seconda dei turni imposti dalla fabbrica – per raggiungere impianti nati dal clientelismo democristiano e dalla malsana idea di trasformare tutta l’talia in un Paese industriale (dalle acciaierie alla catena di montaggio dell’automotive), estendendo il triangolo Milano/Torino/Genova all’intero stivale, indipendentemente dalla conformazione geografica, dalla matrice storica e culturale, dalle potenzialità del territorio, dei saperi e dei prodotti locali, dall’ambiente e dalla vegetazione, dalle aspirazioni delle popolazioni. Dagli anni 60 in avanti l’Italia si sarebbe dovuta trasformare in un’uniforme Pianura Padana e, guardando il cielo offuscato dallo smog e dall’inquinamento appena si lasci l’Umbria per entrare in Lazio, e poi in Campania fino al Cilento, e a est in Basilicata compreso l’intero Potentino, ci si rende conto che l’idea di mondo incarnata da Melfi si è estesa ben aldilà di uno stabilimento per ammorbare territori senza restituire almeno un autentico benessere generalizzato. Quel Bil, costituito da scuole e ospedali efficienti, un agroalimentare di qualità (senza il rischio che la mozzarella di bufala contenga le sostanze nocive delle discariche abusive), una rete ferroviaria all’avanguardia e ben ramificata, piani regolatori per impedire abusi e scempi edilizi o l’affastellarsi caotico di abitazioni le une sulle altre in un coacervo antiestetico e antigienico (vista anche la mancanza di marciapiedi e piste ciclabili), lungimiranti progetti culturali, una qualità di vita, in breve, che vada aldilà della pubblicità della Costiera Amalfitana – ormai solo da cartolina e viaggio organizzato per statunitensi in cerca di emozioni anni 50.
In tutto questo scempio, che abbiamo trovato in un fine giugno canicolare (con il Sinni già in secca), si salva Matera, con la sua provincia, che da territorio poverissimo è riuscita – anche grazie ai fondi piovuti, dal 2014 al 2019, dopo la designazione a Capitale della Cultura Europea – a inventarsi un core business di turismo culturale grazie alla valorizzazione della sua cosiddetta povertà.
I due celebri Sassi, Barisano e Caveoso, sono antichi aggregati di case scavate nella calcarenite, sgomberati nel 1952 dal miope ma forse ben intenzionato governo democristiano e, nel 1993, dichiarati Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. I Sassi, a ridosso della rupe, sotto la quale scorre il Gravina, sono circondati dai quartieri della città vecchia. A separare le due valli, la rupe della Civita con la sua svettante Cattedrale romanica. Ai piedi della Civita e al margine superiore dei Sassi, il Piano – il centro storico post-medievale.
Sul versante opposto del torrente Gravina, si estende l’altopiano delle Murge, con chiese rupestri, architetture ipogee, masserie e grotte naturali che fanno parte del Parco Regionale della Murgia Materana, scavati nel tufo delle gravine (ossia, nelle incisioni erosive delle colline circostanti che rimandano ai canyon, sebbene meno imponenti).
Nonostante oggi i quartieri della città vecchia e le abitazioni scavate nei Sassi siano stati, in parte, trasformati in Spa e hotel di lusso, ristoranti e cocktail bar, negozi di cianfrusaglie e gelaterie, si è riusciti a preservare il complesso urbanistico e a restaurare senza fare scempi. Molti tra i suoi musei privati e laboratori artigianali, li abbiamo trovati chiusi. Vuoi perché domenica, vuoi perché nei giorni concomitanti con la Festa della Bruna (Santa alla quale è dedicata anche la Cattedrale), che ha attirato frotte di devoti, tra luminarie deturpanti e pacchiane e musica house e techno che rimbombava aliena tra le mura medievali. La città vecchia, però, riesce a mantenere un certo distacco da quella nata su progetto democristiano, conservandosi appartata e felice portatrice di tempi forse più poveri ma sicuramente più umani.
E, mentre la lasciamo, risuonano stranamente contingenti le parole di Carlo Levi: «Ma già il treno mi portava lontano, attraverso le campagne matematiche di Romagna, verso i vigneti del Piemonte, e quel futuro misterioso di esili, di guerre e di morti, che allora mi appariva appena, come una nuvola incerta nel cielo sterminato» (Cristo si è fermato Eboli, Firenze, dicembre 1943 – luglio 1944).
venerdì, 1° marzo 2024
In copertina e nel pezzo: Foto di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione).