Madeleine per dimenticare
di Simona Maria Frigerio (e Luciano Uggè)
Una casa bifamiliare a Vercelli, dieci sconosciuti a tavola, una Compagnia australiana e la scoperta dell’insostenibile pesantezza dell’essere.
Dove inizia e dove finisce il teatro? Cosa significa re-citare? Qual è il confine tra realtà e finzione? Può l’attore rac-contare la propria vicenda personale o deve solamente prestare il proprio corpo e la propria voce alle storie immaginate dall’Autore – con la A maiuscola? Quale il ruolo dello spettatore: passivo al di là della quarta parete o attivamente chiamato a specchiare il proprio nel vissuto dell’altro? Padronanza del testo o sudditanza alle emozioni? E fino a che punto permettere la partecipazione del pubblico senza rischiare di trasformare uno spettacolo in una seduta psicanalitica?
Quante domande si affastellano nella mente dei pochi – non più di dieci persone a sera – che possono partecipare – nel senso più autentico del termine – allo spettacolo di Cuocolo-Bosetti, The Secret Room, in questi giorni a Vercelli. Impossibile e infelice sarebbe descrivere la perfomance di Roberta Bosetti perché toglierebbe allo spettatore il gusto di sperimentarla. E allora che fare? Come riempire una recensione di contenuti senza svelare che “l’assassino è il maggiordomo”?
Facciamo un passo indietro e, senza alcuna ambizione di raccontare il vissuto, vi invitiamo a seguirci in questa esperienza – agita da noi e da altri, solo ieri sera, in una casa come tante, in una cittadina di provincia come Vercelli.
Dieci (ieri, per l’esattezza, undici) persone, più o meno estranee fra loro (quasi esclusivamente coppie, alcuni si conoscono di vista) arrivano alla spicciolata in via Ariosto 85. Casetta a due piani, forse anni 50, niente di speciale. Si suona il citofono, si sorride un po’ imbarazzati, sconcertati di fronte all’ignoto, incuriositi per uno spettacolo che promette di essere altro: convito forse (si cenerà insieme intorno a un fratino di legno), teatro d’improvvisazione, magari (ma il testo è scritto, le sue tappe rivelate una a una. Nemmeno per un momento Roberta Bosetti mente allo spettatore: reciterà sì, ma se stessa), performance di tendenza spera qualcun altro (la Compagnia Cuocolo-Bosetti non ha lavorato per anni a Melbourne, dirigendo l’IRAA Theatre? Mietendo successi in Australia e in giro per il mondo?).
Ci si stringe la mano un po’ perplessi, come a un party al quale ci si chieda perché mai si sia deciso di partecipare. Uscire con questo freddo sfidando la nebbia piemontese per ritrovarsi in una specie di taverna con i muri imbiancati a calce e solo dieci piatti: l’undicesimo arriverà subito ma gli astanti si guardano perplessi (“Farà parte dello spettacolo?”, “L’undicesimo piccolo indiano è l’assassino?”). Ci si scambia il nome, qualche dato anagrafico senza importanza, giusto per rompere il ghiaccio. Poi la bottiglia di vino passa di mano in mano e la convivialità che ci è tipica, dal Manzanar al Reno (o dall’Alpi alle Piramidi?), prende il sopravvento, si chiacchiera, Roberta (ci si dà del tu) re-cita una preghiera che è un invito iniziatico a seguirla, a stare al gioco – se di questo si tratta – a com-partecipare allo spettacolo – se così si può definire.
Le tappe dello stesso sono scandite con precisione: a ogni mansione – i luoghi deputati del teatro medievale – Roberta re-cita poche righe di questa sua autobiografia – rielaborata drammaturgicamente. I convitati mangiano e, se interpellati, rispondono regalando un pezzo di sé. Qualcuno tende a restare sul generico – non fidandosi, incerto forse del proprio ruolo: spettatore o complice, vittima o celebrante?
Poi, d’un tratto, il passo cambia: si sale una scala, si entra in una stanza da letto. La scenografia non esiste: questa è la camera di Roberta ragazza. Le sue foto in bianco e nero un po’ sgualcite, i diari (dai quali è tratto lo spettacolo?), i quaderni delle elementari, l’abito della prima comunione perfettamente conservato, con borsetta e cuffia riposte in una scatola argentata. Il passato ritorna con quell’odore tipico di muffa misto a lacrime salate, carta fotografica ingrassata dalle dita che hanno guardato per un attimo e presto dimenticato, forme sbiadite che riescono a ferirci sebbene fantasmi di un immaginario privato e insieme comune – a tante, a troppe donne.
Roberta è Bosetti: attrice che re-cita guardando nello specchio se stessa e noi, altrettanti riflessi che, per una sera, siamo chiamati a testimoniare: in parte imbarazzati, a tratti colpiti, qualcuno incredulo, altri scettici di fronte alla sofferenza – perché è sempre più facile credere a quella di un bambino straziato dalla bomba giocattolo che gli abbiamo regalato noi – inconsapevoli carnefici di un Occidente che non sa più cosa sia la guerra – piuttosto che quella silenziosa della figlia della vicina, della compagna di scuola, dell’amica che sorride alzando le spalle.
Poi tutto finisce. Maldestramente com’era cominciata, la serata si chiude: ci si affretta a ritirare i cappotti, si saluta impacciati. Si potrà chiedere qualcosa a Roberta? Sarà vero quanto ci ha raccontato? Ma a teatro si applaude o si fischia, non si domanda. C’è chi vorrebbe conoscere il regista – ma lui è dietro le quinte, o forse sarebbe meglio scrivere in cucina, o chissà: al bar con gli amici. Chi può saperlo?
E ci si ritrova in strada: ci si guarda l’un l’altro e, invece di scappare ognuno a casa propria, d’un tratto scatta un meccanismo che fa di un’esibizione, teatro. Gli spettatori-ospiti si guardano in faccia ed è evidente il bisogno di tutti e di ognuno di confrontarsi, davanti a un Irish coffee, una cioccolata con panna, un bicchiere di cognac o una birra gelata: «Parliamone», «Tu che ne pensi?», «Ma è una storia vera?», «Non può essere: mica si può esporre il proprio dolore privato in pubblico!», «Tutta finzione! Si sentiva che stava recitando…», le donne in particolare faticano a capacitarsi: «Se una vivesse una cosa simile, non te lo racconterebbe mai!» e «Ho capito subito che stava mentendo. Non mi ha preso per il naso nemmeno per un attimo». Ma c’è anche chi è talmente commosso da non riuscire a parlare, chi non riesce a capacitarsi del perché alcuni rifiutino di credere a ciò che si è visto.
E d’un tratto ci accorgiamo che è bello ritrovarsi lì, seduti a quei tavolini, e viene in mente, senza soluzione di continuità, Carmelo Bene e il paragone, rileggendo alcune tra le sue elucubrazioni più riuscite, sconvolge: “Il pubblico non va a teatro perché cerca la propria crisi. Non si presterebbe mai a una perversione virtuale. A un gioco di specchi con la scena. Sarebbe catastrofico. L’indomani non andrebbe più a lavorare. Mezz’ora dopo si suiciderebbe. Un teatro che non fa morti, che non sollecita crimini, delitti, sabotaggi, non può essere teatro, è spettacolo. Piccola fiera della vanità”.
Lo spettacolo si è svolto:
Casa Cuocolo/Bosetti
via Alfieri, 85 – Vercelli
IRAA Theatre presenta:
The Secret Room
regia Renato Cuocolo
con Roberta Bosetti
Consigli di lettura (per saperne di più, dopo aver visto lo spettacolo):
Cuocolo – Bosetti
The secret Room
Le Ariette – Libri
Teatro delle Ariette, 2006
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto
Vita di Carmelo Bene
1998/2010 RCS Libri S.p.A., Milano
IV edizione, Tascabili Bompiani, settembre 2010
venerdì, 23 febbraio 2024 (la recensione riguarda lo spettacolo andato in scena il 15 novembre 2011, in originale in Anche i critici nel loro piccolo…)
In copertina: Il logo della Compagnia