Da: I racconti di Rinascita
di Simona Maria Frigerio
Era sempre la stessa storia che si ripeteva: per quanto volasse sulle sue scarpette, non riusciva mai ad andare in rete perché per lui non era la porta, la meta, bensì calpestare erba fina – come per Rimbaud. Ma come glielo spieghi ai tuoi compagni di squadra, e di classe, che il pallone non fa per te? Come glielo spieghi a tuo padre, muratore in canotta bianca esattamente come nei film spazzatura che lo fanno tanto ridere – che le domeniche sono sacre perché finalmente stappi una birra dietro l’altra e, come lo stereotipo del maschio di quegli anni, ti stravacchi sulla poltrona a guardare quel tempo di una partita di serie A che mamma Rai ti concede e, per 45 minuti, finalmente ti senti come dio, o come Maradona, mentre ascolti Nando Martellini o Bruno Pizzul – come glielo spieghi a quello lì, che a te del Napoli te ne frega meno di zero e il tuo piacere sta nel correre?
Leggero come i tuoi 13 anni e quel peso Mosca che non raggiungerai mai, con le scarpette che ti ha regalato la prof di lettere – che vorrebbe che continuassi a studiare i tuoi poeti maledetti ma sa che l’anno prossimo finirai in un cantiere a lavorare con tuo padre, in nero perché troppo giovane, e allora ti ha regalato almeno quelle scarpette per farti sognare un giorno, uno solo: quello della Stramilano. Perché tu quest’anno parteciperai, costi quel che costi: non ti sei fatto centinaia di giri di pista, sul retro della scuola, sotto il sole cocente di giugno e la pioggia ottobrina e gli ultimi fiocchi di un gennaio tagliente, per nulla. Tu quest’anno hai le scarpette e correrai leggero, svuotando la mente da tuo padre e da lui.
Da lui che ti osserva a bordo campo, lui che finge di sorridere alla sua ragazza – l’ultima canotta perennemente umida appiccicata a quelle tette che paiono arance – che si è preso come paravento per quel suo di lui padre – quello così colto da aver capito tutto e così ipocrita da non accettare niente. E allora lui, con la sua zazzera nera e gli occhi blu dalle lunghe ciglia ricurve, ti sorride da dietro il dente scheggiato, che tu gli hai scheggiato spingendolo contro la consapevolezza del tuo corpo, e intanto si fa pregare per entrare in campo, sapendo che quando entrerà avrà già vinto la partita perché lui non corre, lui immagina tutte le infinite variazioni di traiettorie e, infilandosi tra le spalle degli avversari, lui sì va in porta con l’abilità di un Platini – perché nemmeno in quello ti si apparenta.
Tu che vieni dalla periferia e a quella scuola sei arrivato perché era la più vicina a casa; lui che viene dal centro e quella scuola l’ha scelta il padre perché faceva ‘di sinistra’. Tu che vieni da un sud di maniera che a volte pensi che non è vero che esiste, è solo l’ultima tragica commedia di Eduardo, dove il dialetto scivola sulla lingua e ogni strada è un palcoscenico; lui che arriva da una città che non si riconosce nemmeno italiana e dove la gente rigurgita un aborto di dialetto che suona come sferza al tuo orecchio musicale. Tu che sai dove sarai tra una anno: su un’impalcatura a passare la malta a tuo padre mentre vorresti correre, insegnando – sempre a tuo padre – che la “qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione” (anche se Murakami lo scriverà vent’anni dopo e tu lo leggerai solo quando avrai appeso le scarpette al chiodo per sempre); lui, che sa che sarà dietro a un banco per imparare a fare apparecchi e dentiere – che così si fanno i soldi, gli ripete il padre che ha già deciso tutto – e intanto si stringe nella tasca i pezzetti di carta della convocazione dell’Inter che sempre il padre, che sa tutto e non capisce niente, ha strappato e gli ha gettato in faccia.
E in mezzo a voi ci sono io, che vi osservo da lontano e adesso, dopo secoli di silenzio, sento nuovamente le vostre voci concitate dal gioco, che non era mai solamente un gioco, e ti rivedo portare in classe quella statuina e mostrarla alla prof di lettere e dirle che deve tenerla lei, che tuo padre non la vuole in casa, che se no ti vengono i grilli in testa e che un uomo non corre, va in porta. E allora tu hai bisogno che qualcuno la conservi, quella statuetta, per potere, di tanto in tanto, andare a vederla e rassicurarti che sì, per una volta, hai vinto tu: sei arrivato 57° su migliaia di corridori, a soli 13 anni e nessuno mai, nemmeno tuo padre, potrà imbiancare quel ricordo. Basta che la prof la tenga con sé, quella statuetta, nell’armadio in classe e magari tornerai a scuola, qualche volta, e mentre te la liscerai tra le mani le racconterai dell’ultimo libro che hai letto, prima di cascare dal sonno coi muscoli a pezzi o mordendo un panino con la carne, come solo tua madre sa fare. Ma lei no, non può promettertelo perché forse non ci sarà più nemmeno lei in quella scuola, l’anno prossimo, e allora te la tiene lui: viene avanti e l’afferra e ti sorride da dietro il suo dente scheggiato. E tu già sai che non andrai mai a vederla da lui. Ma fai cenno di sì, accetti, perché lui avrà per sempre qualcosa di te.
E poi vedo lui, che non arriverà mai a fare i soldi riparando dentiere e non infilerà al dito di una ragazza il cerchietto d’oro per la lacrimuccia della mamma, ma che un giorno deciderà che solo il suo dente scheggiato – che si accarezza con la lingua – ha un senso ed è vero, e che non ha più voglia di mentire e mentirsi, e la metropolitana passa tutti i giorni e non occorre aver letto Anna Karenina né Madame Bovary e scadere nel sentimentale, basta scegliere l’orario giusto così non avrai sulla coscienza lo studente che deve fare l’esame o il lavoratore che rischia di essere licenziato se arriva anche oggi in ritardo.
E mi guardo indietro un attimo e, no, non fui io ad arrivare quel giorno in ritardo.
I racconti precedenti per chi se li fosse persi:
(Il prossimo racconto, venerdì 2 febbraio 2024. © Simona Maria Frigerio, 2023, tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche solo parziale)
venerdì, 26 gennaio 2024
In copertina: Foto di 愚木混株 Cdd20 da Pixabay