Patto di stabilità: la flessibilità salvaguardia gli investimenti per il riarmo
di La Redazione di InTheNet
Dal 2024 si torna, in Europa, al cosiddetto Patto di stabilità – ovvero, laddove gli States lasciano lievitare il debito federale per finanziare la spesa pubblica, e far crescere l’economia favorendo le classi privilegiate o, in alternativa, l’intera popolazione con investimenti nel welfare state [(come spiega Stephanie Kelton in Il mito del deficit. La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo (1)]; l’Eurozona torna all’austerity, per evitare di finanziare con il debito pubblico lo stato sociale e rafforzare una moneta, l’Euro, che non avrà mai l’appeal del Dollaro (mentre, a causa della politica delle sanzioni unilaterali, il rischio è di perdere anche di appeal per quanto riguarda gli investimenti esteri nel nostro debito).
I Paesi come l’Italia, con un rapporto debito/Pil superiore al 90% (siamo intorno al 143%), dovranno ridurre ogni anno il rapporto dell’1% – insieme a Belgio, Francia, Grecia (quella che, teoricamente, doveva salvare la Troika già nel lontano 2010), Portogallo e Spagna. E dovremo anche ridurre il deficit per rientrare nel famoso 3% – a ‘scelta’ si potrà optare per un taglio dello 0,4% annuo in 4 anni o unodello 0,25% spalmato su sette. In cifre, il Governo Meloni farà 20 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica, ogni anno, fino al 2027. Dal 2028, i tagli dovrebbero toccare i 100 miliardi di euro l’anno computando anche gli interessi sul debito acceso con il PNRR. In tutto questo occorre tenere anche conto che, grazie all’innalzamento dei tassi di interesse voluto dalla Bce ufficialmente per contenere l’inflazione (in realtà, per continuare a retribuire adeguatamente le rendite), saremo costretti a far fronte a più alti interessi sul debito pubblico. L’Unione Europea si dimostrerà ancora una volta, quindi, come la vera arma nelle mani del pensiero neoliberista, imponendo contenimento degli stipendi e delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione, tagli dello stato sociale (sanità, istruzione e assistenza) e, probabilmente, la svendita degli ultimi gioielli di Stato – da Fincanteri a Leonardo passando per quel che resta, nelle mani dello Stato, di Eni o Enel.
Se qualcuno credesse ancora alla favoletta che le privatizzazioni sono almeno un buon mezzo per far funzionare in maniera più efficiente le aziende, assicurare migliori servizi ai cittadini e aumentare i posti di lavoro, basti pensare al caso Telecom Italia S.p.A. (2) che, come racconta il Sindacato Unitario di Base, “dall’alto del suo monopolio ha continuato a rinnovarsi e ad evolversi fino a diventare il sesto operatore al mondo di telecomunicazione” e, nell’ottobre del 1997, “quando scatta quella che fu definita ‘la madre di tutte le privatizzazioni’, con al governo Romano Prodi, era la quarta impresa in Italia per fatturato: l’equivalente di 23,2 miliardi di euro, e una elevata redditività. Non aveva debiti netti, contava una trentina di partecipazioni internazionali, un patrimonio immobiliare pari a oltre 10 miliardi di euro e 120.345 dipendenti”. 23 anni dopo il fatturato era sceso “a 15,8 miliardi” e il debito aveva raggiunto, al contrario, i 23,3 miliardi. A ottobre 2021 il titolo precipitava “al minimo storico: 0,28 euro” e, a novembre 2023, l’attuale Tim (che avrebbe dovuto essere un asset strategico del Paese, in quanto si tratta di telefonia e telecomunicazioni) finiva nelle mani di un Fondo straniero, Kkr, per 22 miliardi di euro. Ora ci si chiede se seguirà la sorte della Marelli (3).
Sanità, istruzione, ricerca e sviluppo e spese militari: come sarà ripartito il Pil
Se la copertina si restringe, dove finiranno la ricchezza prodotta e le tasse degli italiani?
Iniziamo dalla sanità che, secondo le previsioni, quest’anno si vedrà assegnati 132,946 miliardi di euro (pari al 6,2% del Pil); nel 2025, 136,701miliardi (che significherà sempre il 6,2%); e nel 2026, 138,972 miliardi (addirittura in calo al 6,1%). La media europea? Il 7,9%. Al contrario, l’Istat ha rilevato che, nel 2021, la spesa sanitaria a carico delle famiglie italiane ha raggiunto i 36,5 miliardi, con un aumento (in media annua) dell’1,7% tra il 2012 e il 2021. Non sorprende che, nel 2022, ben 4 milioni di italiani abbiano semplicemente rinunciato a curarsi.
Per quanto riguarda l’istruzione superiore, nel 2022, solo il 27,4% delle persone tra i 30 e i 34 anni erano laureate a fronte di un 29,2% tra i 25 e i 34 anni. L’obiettivo medio europeo, stabilito dall’ennesimo programma con titolo altisonante (ma povero di contenuto), ossia Strategia Europa2020, era di toccare quota 40% tra le persone della fascia 30/34 anni. La nuova mission impossible europea, per il 2030, è di raggiungere – per i giovani tra i 25 e i 34 anni – un tondo 45% di laureati. Miraggio. Soprattutto se si tiene conto che nel 2021, in Italia, la spesa pubblica per l’istruzione è stata pari solamente al 4,1% del Pil. Per fare un raffronto, la Russia ha la più alta percentuale di laureati al mondo, con poco più della metà della popolazione in possesso di un diploma di laurea o superiore. Seguono Canada, Israele e Giappone. Gli Stati Uniti sono solo al XII° posto con meno del 40% della popolazione in possesso di diploma o laurea di qualsiasi grado. Ancora più interessante scoprire che la ‘locomotiva’ del mondo capitalistico vede quasi il 70% dei diplomati inscriversi all’università, ma meno della metà laurearsi. Mentre oltre il 25% degli studenti universitari richiedono corsi di recupero in lettura, scrittura e matematica.
Passiamo a Ricerca & Sviluppo – senza le quali è difficile pavoneggiarsi al G7 affermando di possedere tecnologie che il cosiddetto terzo mondo non può permettersi e che dobbiamo ‘proteggere’ per continuare a ‘egemonizzarlo’. Dai dati de IlSole24Ore risulta che nel 2021 l’Unione Europea ha speso 328 miliardi di euro in R&S, il che corrisponderebbe a un ottimistico +6% rispetto al 2020. Dove sta il baco in questa mela? Nel fatto che l’incidenza della voce R&S in percentuale del Pil è diminuita dal 2,31% nel 2020 al 2,27% nel 2021. Se qualcuno obiettasse che è subentrata la Covid-19, leggiamo un altro dato. Rispetto al 2019, “l’intensità di R&S è aumentata di 0,04 punti percentuali (pp) nel 2021, mentre rispetto ai 10 anni precedenti è aumentata di 0,25 pp. E quindi non lo è”. In breve: si sta spendendo sempre di meno, tenendo anche conto dell’inflazione. In Italia solamente l’1,45% del Pil è speso in Ricerca e Sviluppo a fronte di una media europea intorno al 2,3% e al picco svedese del 3,35%.
L’ultimo capitolo di spesa che vogliamo analizzare è quello per il quale Bruxelles ha lasciato ampia flessibilità agli Stati, anche a causa delle richieste francesi di continuare a finanziare la guerra degli ucraini contro le popolazioni del Donbass (pardon: finanziare l’Ucraina contro la Russia per un regime change utile a disgregare la Federazione russa affinché l’Europa possa appropriarsi delle sue risorse energetiche e minerarie. Pardon: esiste una terza narrazione?).
Come denuncia GreenPeace nel Report Arming Europe, al quale vi rimandiamo (4): “la spesa per le armi nei Paesi Nato della Ue è cresciuta quattordici volte più del loro Pil complessivo. In Italia la spesa per i nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi di euro a 5,9 miliardi”. Nel rapporto si evidenza altresì “il minor effetto moltiplicatore delle spese militari rispetto a quello degli investimenti su ambiente, istruzione e sanità” (il che, tradotto, significa che se lo Stato investe 1 in spese militari non ottiene, in servizi, posti di lavoro e Pil tanto quanto se li investisse in altri settori). Ma non solo. Ben prima della crisi in Donbass, si dimostra come nel “decennio 2013-2023 in Europa le spese militari hanno registrato un aumento record (+46% nei Paesi Nato-Ue; +26% in Italia) trainato dall’acquisto di nuove armi (+168% nei Paesi Nato-Ue; +132% in Italia). Un balzo che contrasta con la stagnazione del Pil (+12% nei Paesi Nato-Ue; +9% in Italia) e dell’occupazione in questi Paesi (+9% nei Paesi Nato-Ue; +4% in Italia)”.
Confrontando i dati su spesa militare, sanitaria, per l’istruzione e per la protezione dell’ambiente, emerge che, tra il 2013 e il 2023, “la spesa militare in Italia è aumentata del 30%”. La sanità ha registrato un +11%, l’istruzione un +3% e la spesa per la protezione ambientale un +6%.
Quando gli italiani per fare un intervento di cataratta dovranno attende tre anni (invece dell’uno o due attuali) o spendere mille euro al mese se vogliono mandare i figli all’università o si vedranno i pochi figli laureati migrare verso Russia o Repubblica Popolare Cinese per trovare lavoro nel settore ricerca (o anche solo per trovare lavoro), sapranno a cosa sono servite le loro tasse: a foraggiare l’industria degli armamenti
(1) https://www.inthenet.eu/2021/10/15/la-sovranita-monetaria-e-di-sinistra/
(3) https://forbes.it/2023/11/08/kkr-miliardari-dietro-fondo-comprato-rete-tim/
(4) https://www.greenpeace.org/italy/rapporto/19382/leuropa-si-arma/
venerdì, 19 gennaio 2024
In copertina: Foto di NakNakNak da Pixabay