Ripartiamo dalle parole di Ahmed Tobasi
di La Redazione di InTheNet (traduzione di Simona M. Frigerio)
Martedì 16 gennaio a mezzogiorno (ora italiana), torneremo a collegarci via Zoom con artisti, attivisti e operatori culturali palestinesi per raccontare quanto accaduto nell’ultimo mese e continuare quel percorso che stiamo costruendo con gli artisti dello Stato di Palestina.
Durante l’ultimo incontro del 5 dicembre – organizzato da AREA – abbiamo conosciuto Ahmed Tobasi, Direttore del Freedom Theatre, situato nel Campo Profughi di Jenin: un chilometro quadrato di territorio nel quale devono sopravvivere 20.000 persone (per intenderci, in Lombardia, la regione più densamente popolata d’Italia, il rapporto è di 418 abitanti per chilometro quadrato).
Poco più di una settimana da quel primo collegamento, la mattina del 13 dicembre, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno attaccato il Freedom Theatre, distruggendo gli uffici e abbattendo anche un muro, dopodiché si sono recate a casa di Tobasi e del produttore Mustafa Sheta, li hanno bendati, ammanettati e portati via. La stessa sera, alcuni militari hanno anche arrestato, dopo averlo picchiato, Jamal Abu Joas, poeta e attore diplomato presso il Freedom Theatre.
Tobasi è stato rilasciato la sera del 14 dicembre (1), mentre Joas è rimasto in prigione fino al 21. Mustafa Sheta, purtroppo, è tuttora in stato di detenzione amministrativa – una misura che lo Stato ‘democratico’ di Israele applica, senza alcun processo, solo sulla base di accuse generiche – che il detenuto non può conoscere né controbattere per vie legali.
Tobasi, nello scorso incontro online aveva toccato molti nervi scoperti e ricordato come nella sua vita abbia già visto la prima e la seconda Intifada e adesso si trovi di fronte alla terza. Dal suo discorso dovremo ripartire il 16 gennaio e, per coloro che non lo avessero potuto seguire, ne riportiamo alcune parti qui di seguito:
“…per 75 anni abbiamo chiesto, abbiamo raccontato al mondo cosa stava accadendo ogni giorno in Palestina, a Gaza, a Jenin”.
“È molto importante che voi europei capiate che non state aiutando i palestinesi […]. Sebbene abbiate una parte, e una parte importante. Siete voi che supportate Israele economicamente” e con le armi. “I soldati richiamati in servizio, vivono in Europa, vi trascorrono le vacanze, hanno la doppia nazionalità. Ogni volta che sono richiamati, tornano. La maggior parte degli israeliani ha una seconda nazionalità europea o statunitense”.
“Come palestinesi siamo esperti di colonizzazione e occupazione. Se gli israeliani ci stermineranno […], sappiamo che l’occupazione procederà verso nuovi territori, altre popolazioni o minoranze. Questa è la colonizzazione e così ha sempre agito l’Occidente. Non siamo l’ultimo gradino. Ora è Gaza, poi toccherà alla Cisgiordania, e infine all’intero territorio [assegnato dall’Onu nel] 1948. Questo è stato sempre il piano, fin dal primo giorno […]”.
“Abbiamo fatto tutti i tentativi possibili: usato la diplomazia attraverso l’Europa e gli Stati Uniti, la non-violenza, l’arte, [la difesa dei] diritti umani… E cosa sta accadendo? A Gaza, in Palestina, a Jenin, i bambini sono uccisi. Gli artisti sono uccisi. I giornalisti sono uccisi. I dottori sono uccisi. Tutto ciò significa che non è questione solo di Hamas, o dei ‘terroristi’, o della violenza. Bensì che i palestinesi non sono considerati esseri umani dai soldati israeliani. Questa è la ragione per la quale possono ucciderci così facilmente, sapendo che nessuno al mondo chiederà loro” ragione di quanto hanno fatto.
Esistono le prove di decenni di massacri, denunciati dai “report dell’UNESCO delle associazioni per i diritti umani, dell’Unione Europea”, e non sono serviti a “niente”.
“[…] Per quanto mi riguarda, l’unica cosa buona è che adesso i palestinesi sanno che solo loro possono fare la differenza e devono combattere per se stessi”.
“[…] Facciamo arte, facciamo teatro perché lottiamo per umanizzare nuovamente i palestinesi, dando modo al mondo di vedere che in Palestina vivono degli esseri umani laddove gli israeliani fanno di tutto per disumanizzarci. Noi crediamo che fare arte, fare teatro, fare cultura equivalga a lottare attraverso queste forme: non stiamo semplicemente abbandonando la violenza in favore della non-violenza. No, no, no. Stiamo lottando perché crediamo che ognuno debba lottare” con i mezzi che ha. “Abbiamo bisogno di creare una cultura della resistenza: ognuno lotterà nel modo, coi metodi e con gli strumenti che possiede. La resistenza non si esplica in una sola forma, come l’Occidente e gli israeliani intendono: armi e terrorismo. Sono stati loro a creare una simile propaganda […]. Noi siamo artisti e siamo combattenti, e su questo punto dovremmo focalizzarci: l’arte non dovrebbe allontanarsi dalla resistenza e dalla lotta […]”.
“Il nostro progetto The Revolution Promise, riguarda quegli artisti palestinesi che si confrontano con tali problemi e lottano contro l’esercito israeliano a causa della propria arte”. Attraverso tale progetto “vogliamo creare una comunità internazionale di artisti, un potere, un movimento che può realmente decidere, avendo un impatto sui politici e supportando anche gli altri artisti”.
“[…] Non amo la parola ‘speranza’, io parlo di ‘azione’. Speranza deve significare ‘azione ora’. Speranza [deve significare] fare qualcosa, non restarsene semplicemente seduti e aspettare per vedere cosa accade. Dobbiamo agire adesso. Per me, il primo passo è raccogliere artisti da tutto il mondo per parlare apertamente e partecipare al movimento. Iniziare a discutere, a condividere, a fare pressione. Possiamo riuscirci se ognuno partirà dalla propria posizione, e sono sicuro che avremo un impatto e porteremo a un cambiamento, per quanto piccolo possa essere”.
“[…] Nel Campo Profughi di Jenin, in Palestina, crediamo nella cultura e continueremo a farlo. The Freedom Theatre prosegue con le proprie attività nonostante gli attacchi e l’uccisione dei nostri bambini. Ogni volta che i soldati israeliani passano dalla nostra sede, vedono un cartello che recita: The Freedom Theatre. Per me [quel cartello] dice agli israeliani che siamo artisti e che fare teatro è resistere, perché tutto ciò che ci circonda vuole che noi si chiuda, si smetta di essere artisti, e si diventi animali… Questa è la ragione per la quale voi non state lottando solamente per noi come palestinesi, ma lo fate per voi stessi” [come esseri umani].
Da questo invito a partecipare attivamente, ripartiamo il 16 gennaio alle ore 12.00 con Iain Chambers, professore di Studi del Mediterraneo e Post-coloniali all’Orientale di Napoli; Benoit Challand, professore associato di Sociologia della new School for Social Research a New York; Mike Van Graan, autore sudafricano; Maria Elena Delia della Fondazione Vittorio Arrigoni; Jehad Othman, mediatore culturale e filmmaker, oltre che attivista, palestinese; la filmmaker e artista intermediale Grazia Dentoni; e molti altri.
Il link per collegarsi è questo:
Vi aspettiamo numerosi.
La testimonianza di Ahmed Tobasi dopo il rilascio:
https://www.instagram.com/p/C1HHSjyNpI0/?igsh=MTc4MmM1YmI2Ng==
venerdì, 12 gennaio 2024
In copertina: Il rilascio di Ahmed Tobasi