Da: I racconti di Rinascita
di Simona Maria Frigerio
Esistono individui che sono come pozzi: se ci finisci dentro, ti fagocitano e non rivedrai mai più la luce, persa a te stessa. Esistono persone che sono come stelle e che, nella notte più buia, se le segui, ti indicheranno la direzione verso te stessa – ma non sarà mai quella di casa. Eppure con loro saprai sempre dove sei.
Quando il pozzo è tua madre, il pozzo è profondo come quell’utero in cui se potesse ti risucchierebbe legandoti con quel cordone ombelicale che qualcuno ha scisso per te – ma non per lei. E tu passi gli anni a scappare dall’immagine di chi rivendica di averti generata ma che non ti riflette, non ti rappresenta, è sbiadita imago di uno stereotipo biblico che non ha mai radicato né fruttificato in te.
E poi viene il tempo di seguire la tua stella e sai che non ti riporterà a casa, ma lontano, su strade impervie e nuove, che non avevi ancora immaginato e, in fondo alle acque del Lete, dimenticherai da dove provieni: chiuderai i conti con il passato semplicemente perché non saranno mai al netto del dolore e nessuno mai ti ridarà l’infanzia perduta né l’adolescenza spesa a nasconderti o quei primi anni di maturità in cui lei ancora esercitava la sua attrazione nefasta verso il vuoto, il diniego di te stessa perché lei si sentisse viva mentre ti vedeva morire.
Esistono madri drago che ti brucerebbero le carni con un accendino per una dose, e madri padrone che sono schiave della loro dipendenza – da carne o da polvere – e devono rifarsi su di te, madri invidiose che non sono mai state figlie amate e come potrebbero guardarti spiccare il volo senza tentare di tarparti le ali od oscurarti la vista come falco tenuto al guinzaglio?, e madri talmente aride che ti chiedi se abbiano mai partorito o tu stessa sia un aborto.
Finché arriva il tempo di fuggire e, secoli dopo, di tornare.
Ti chiamano una notte, mentre sei in una città anonima, di quelle uguali a tutte le altre e a nessuna in particolare: grattacieli di archistar che svettano nel buio come fallici totem del capitalismo, e luci elettriche che abbagliano lingue di strada percorse da auto feroci che rombano nella notte cercando di raggiungere una meta sempre sfuggente, e prostitute che imbrattano angoli sporchi con le loro labbra rosse gonfiate come canotti sui quali galleggiano vecchi e giovani stranieri, persi in una bolla di esotismo e trasgressione a buon mercato, una finta canna di camomilla che li fa sentire uomini e il dubbio di non esserlo mai stati. E tu guardi fuori da quella finestra di hotel, come un pesce dalla boccia di vetro, e li vedi liquidi come apparenze fluttuanti che non potranno mai toccarti perché non appartengono al tuo universo mondo. È un telefono quello che squilla. Lontano il suono ti fa trasalire come se fosse voce umana e non segnale elettrico che si insinua nel buio fino a farti tremare. Una voce lontana, come una mano si appoggia sulla tua spalla e la accarezza ma poi stringe fino a costringerti sulle ginocchia e, carponi per terra, fetale, accetti di tornare – da lei, che non c’è già più.
E mentre prendi al volo un aereo che ti è costato più di tutti i tuoi viaggi messi assieme, ti chiedi perché lo stai facendo. Perché tornare a un corpo ormai svuotato da quella coscienza che la rendeva pozzo e drago.
Entri nella stanza da letto dove giace come banchetto su tavola imbandita, impacchettata nell’abito della festa e con le gote rosee come ciliegie, circondata di gigli bianchi e ceri rossi, con un vago sentore di incenso sparso a mezz’aria soffocato dall’odore greve di rosa canina e patchouli, di cui sono intrisi stecchini di legno che qualche anima pia ha distribuito in diffusori, sparsi sul termosifone e le mensole.
Ti guardi intorno in cerca della tua stella ma le stelle non possono essere costrette tra quattro mura appesantite dal mobilio di legno massello, carico di abiti stantii e libri intonsi ma che fanno scena, nei quali si riflettono stancamente piastrelle lucidate con la dedizione del chela che strofina la sua statua del Buddha. Hai rinunciato alla tua stella per compiacere la madre pozzo e drago e adesso ti chiedi, guardandola, come facesse a farti sentire in colpa. Come facesse a incuterti tanto timore di essere te stessa ora che in quegli occhi non puoi più leggere il suo (pre)giudizio che ti impediva persino di respirare. Quel corpo così piccolo e fragile nella morte torna carne senza colpa, con la quale può la tua stessa carne forse riconciliarsi.
La morte asettica degli ospedali non ci permette di vivere la veglia, l’addio al corpo che, inerme, ci riconsegna la nostra stessa fragilità umana, la nostra caducità – raggio nel cerchio dell’eterno ritorno che consegna la vita alla morte e incamera la morte come frammento di vita, che tutti prima o poi lacera e separa. Negli ospedali è il tanfo del disinfettante a sovrastare quello della carne putrescente e tutto pare ricondursi nei sicuri confini della nostra modernità che non ammette che il consumatore plastificato da bisogni indotti possa scoprirsi semplicemente carne mortale – un tot al chilo come rivendica l’ebreo shakespeariano. Il letto lindo in quella stanza fredda e funzionale, con le luci a celare l’indicibile, il corpo avvolto da un lenzuolo magari liso ma bianco di bucato – mai sudario di sangue e muco e piscio e paura – ha inaridito la nostra consapevolezza.
La pandemia, per un breve istante, ha sospeso il nostro mondo fatto di certezze da spot, riportandoci all’orrore della peste, dove il padre era diviso dal figlio e gettato in una fossa comune, senza più la rassicurante schematizzazione dell’esistenza della camera asettica, ma senza neppure regalarci la consapevolezza della morte della carne perché la carne ci era preclusa alla vista, al tatto, all’olfatto.
E ora tu osservi tutto con distacco e partecipazione perché la sua è anche la tua, di morte. La sua è anche la tua di carne. Qui su questo letto ingrigito dal tempo tra lenzuola che sanno di nottate di sudore e paura e spasmodica attesa, a occhi spalancati eppure chiusi di fronte all’abisso di una fede cieca che non redime, e non consola, ma che lei temeva più della stessa vita dalla quale voleva tu ti sottraessi per farla sentire meno fallita.
La veglia, l’accompagna il cibo, portato da chi visita o offerto da te, che ospiti: e mentre quegli estranei familiari fagocitano pane e vino, è come se fagocitassero il corpo della e nella morte e la morte stessa. L’antico rituale si compie nell’atto di un’eucarestia laica che adombra la comune radice umana, che si ciba di un immaginario collettivo molto più antico della matrice giudaico-cristiana.
E tu ti guardi intorno e partecipi sapendo che questa notte darai per sempre addio alla madre pozzo e drago e tornerai a vagare, finalmente libera di seguire la tua stella.
(Il prossimo racconto, venerdì 19 gennaio 2024. © Simona Maria Frigerio, 2023, tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche solo parziale)
venerdì, 12 gennaio 2024
In copertina: Foto di Achim Scholty da Pixabay