I sindacati perdono potere di contrattazione e i salari potere di acquisto
di Emiliano Gentili e Federico Giusti
Stando ai dati Ocse, con l’odierna legislazione chi è entrato da poco nel mercato del lavoro andrà in pensione a 71 anni di età. L’estensione dell’anzianità lavorativa necessaria per il pensionamento, inoltre, con le regole attuali diventa anche una necessità per poter maturare un assegno previdenziale che non sia da fame.
Da alcune ricerche pubblicate a metà gennaio (dal centro studi di Confindustria alla Confcommercio, dal rapporto Istat a quello Inapp e altre ancora, che troverete nelle note finali) si evince il grave ritardo dell’economia italiana rispetto ad altri Paesi a capitalismo avanzato. Un ritardo che ha prodotto la riduzione del potere di acquisto della forza lavoro da quarant’anni a oggi e il progressivo smantellamento del sistema di welfare, ormai inadeguato ai reali bisogni.
Basti pensare che una delle proposte più gettonate, fra quelle al momento in circolazione, parla esplicitamente di ridurre le risorse destinate al sistema previdenziale pubblico per rafforzare la previdenza integrativa, non al fine di rafforzare la tutela degli ex-lavoratori anziani ma di sgravare il bilancio dell’INPS. La previdenza integrativa, del resto, ai lavoratori costa di più, visto che per avere in cambio una pensioncina da aggiungere al magro assegno previdenziale pubblico debbono rinunciare a quote dei loro salari e, un domani, anche al TFR.
In Italia il reddito familiare netto – che è la somma delle entrate del nucleo familiare al netto delle imposte, ossia il denaro a disposizione – è al di sotto della media Ocse di quasi 3.000 Euro.
Solamente il 58% della popolazione in età lavorativa, cioè quella tra i 15 e i 64 anni, ha un lavoro retribuito, e anche in questo siamo al di sotto della media OCSE di almeno 8 punti percentuali.
La disoccupazione raggiunge quasi il 5%, rispetto a una media Ocse che oscilla attorno all’1,3%. Il reddito da lavoro medio annuo, invece, è pari a 37.769 USD, quando la media OCSE arriva a 49.165 USD.
Sempre nel nostro Paese, in caso di disoccupazione, i lavoratori vanno incontro a una sensibile perdita di salario, maggiore rispetto a quanto accade in altri Paesi UE: se, ad esempio, in Spagna hanno accresciuto la platea dei beneficiari dell’indennità di disoccupazione e l’importo dell’assegno percepito, in Italia hanno distrutto il Reddito di Cittadinanza, sostituendolo con nuove misure che determinano una forte riduzione sia dell’importo del sussidio che della platea dei beneficiari.
Se vogliamo rispondere a una domanda reiterata nel tempo, ossia fornire spiegazioni sulla consueta e persistente arrendevolezza dei sindacati maggiormente rappresentativi, non sbaglieremmo a dire che la mancata difesa di sanità e previdenza pubblica è spiegabile non solo per via della natura subalterna e concertativa di queste sigle, ma anche per la presenza di interessi nella co-gestione di sanità e previdenza integrativa.
Per quanto concerne il tasso di occupazione, infine, una considerazione preliminare: con il termine ‘occupati’ ci si riferisce a «persone che, durante la settimana di riferimento, hanno lavorato per almeno un’ora a fini di retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti». Quando si dice che aumenta l’occupazione, perciò, si prende in esame un dato veramente discutibile: avere un lavoro, oggi, non significa poter emergere dalla condizione di precarietà e di miseria, in assenza di un reddito stabile che vada ben oltre la soglia di povertà relativa. Il Governo, poi, non spiega che l’occupazione è cresciuta maggiormente nei settori caratterizzati da ‘lavoro povero’, quindi dove minore è il valore aggiunto (ad esempio alcuni ambiti del terziario e della logistica, i servizi di cura, le pulizie).
Resta il fatto che la produttività dell’industria italiana nel 2022 è calata dello 0,7%, nonostante un leggero aumento delle ore lavorate dopo anni di flessione. Di conseguenza, la crisi del nostro Paese potrebbe essere anche rappresentata dal fatto che peggiorano le condizioni retributive e di vita della popolazione, pur lavorando, questa, di più.
La manovra di Bilancio, in discussione in Parlamento, vede rinnovati il taglio al cuneo fiscale (del quale beneficeranno soprattutto le imprese) e la riduzione ai minimi termini delle tasse sui premi di produttività dentro la contrattazione di secondo livello. Queste erano richieste storiche delle associazioni datoriali per accrescere i salari solo con il ricorso ai finanziamenti statali e per indebolire il contratto nazionale conquistando, a livello aziendale, incrementi della produttività a costo zero. Confindustria non è pienamente soddisfatta dei risultati ottenuti e chiede al Governo di accordare maggiori aiuti alle imprese e alla crescita, giudicando la ripresa salariale del tutto insufficiente per incrementare la domanda e favorire la ripresa dell’economia.
Quanto poi al mondo della scuola, è evidente che si stia costruendo una pubblica istruzione sempre più vicina alle finalità capitalistiche, che eroga un sapere funzionale al mondo delle imprese, organizzato (e misurato!) sulla base di competenze predefinite e inadeguate, privilegiando lo sviluppo di un pensiero convergente e logico-deduttivo, a scapito dell’intuizione, della percezione globale degli argomenti didattici e della realtà in cui viviamo, della divergenza e del pensiero critico, della trasversalità disciplinare e quindi, infine, anche di quello spessore umanistico che per decenni è stato il vanto di un’Italia che si consolava così per le proprie insufficienze sul piano dei diritti economici e sociali.
Fra l’altro, solo il 63% degli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha completato gli studi secondari superiori: percentuale inferiore alla media OCSE del 79%. Il numero dei diplomati e laureati in Italia continua a essere assai basso, se confrontato con il resto d’Europa. L’abbandono scolastico nelle scuole superiori e l’abbandono dell’Università prima del completamento del corso di laurea sono, in fondo, anche e soprattutto il risultato dei disinvestimenti degli ultimi anni, del caro-vita e dell’impossibilità per molte famiglie di mantenere i figli all’Università (soprattutto se fuori sede), nonché dell’abbassamento della qualità dell’istruzione e della crescente delegittimazione della scuola pubblica e degli insegnanti. Siamo certi che le continue controriforme dei programmi e dei percorsi di studio universitari (ad esempio il 3+2) o il numero chiuso per l’accesso a innumerevoli facoltà siano stati utili a far uscire studenti più preparati? E al contempo, il numero chiuso causa la carenza di laureati in determinate discipline e da qui il ricorso, ad esempio, nella sanità, a interinali e cooperative di servizi.
Ora che abbiamo velocemente tracciato un quadro d’insieme, ecco alcune, parziali, considerazioni conclusive.
Vista la situazione dell’istruzione pubblica e l’approccio aziendalista che vi alberga, se oggi siamo davanti a una sorta di processo culturale involutivo – spesso esemplificato col fenomeno del cosiddetto ‘analfabetismo di ritorno’ – forse non è soltanto per via di un generale decadimento culturale della società, spesso dato per scontato. Eppure ci si lamenta di programmi scolastici e universitari che intercettano poco le richieste di competenze espresse dalle imprese (o, meglio, le competenze di cui le imprese sperano di aver bisogno in futuro, qualora si riescano a fare quei determinati investimenti infrastrutturali e tecnico-produttivi loro necessari per diventare più competitive) e si punta sull’alternanza scuola-lavoro e sull’apprendistato, per avere una forza lavoro da impiegare subito dopo il diploma a costi irrisori.
Negli ultimi quarant’anni la quota di ricchezza indirizzata ai salari è stata in continua diminuzione, mentre al contempo si è allargata la forbice salariale e sociale. Le famiglie italiane risultano sempre più indebitate e con un potere di acquisto in continua erosione, i salari italiani sono i soli nei Paesi OCSE ad avere subito un deciso arretramento da quarant’anni a oggi. Da quest’anno le multinazionali hanno una tassazione irrisoria (in genere del 15%) sui ricavi. La riflessione, dunque, è che le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche siano il frutto di quattro decenni di politiche neoliberiste, da cui alcune economie – come quella italiana – sono uscite a pezzi (anche per avere puntato tutto sulle delocalizzazioni, sul contenimento del costo del lavoro, sulle politiche fiscali a favore delle imprese), non essendo state in grado di modernizzare i propri processi produttivi. Nonostante ciò, lo Stato continua a essere a uso e consumo delle imprese, e i contraccolpi sono stati negativi sui salari come sullo stato sociale (e, nello specifico, sui percorsi di studio).
Minor salario per ora lavorata e flessibilità contrattuale sono caratteristiche del sistema del lavoro italiano, così come lo è una certa tendenza all’efficientamento produttivo, come in ogni economia avanzata. Di conseguenza lo è anche la riduzione degli orari e delle ore lavorate (soprattutto a causa del diffondersi di contratti precari a tempo parziale), assieme all’aumento della produttività e dei ritmi di lavoro. Per questioni di tempo non possiamo affrontare la riduzione della settimana lavorativa (ad esempio il contratto di secondo livello in Luxottica e il CCNL bancari), ma basti ricordare che una riduzione oraria viene compensata da un grande incremento di produttività e flessibilità e, con ciò, dallo sviluppo di un’organizzazione aziendale del lavoro più efficiente. Non vorremmo scoprire un giorno come la storica rivendicazione operaia della riduzione oraria a parità di salario si sia trasformata in una sorta di riorganizzazione dei tempi di lavoro, accordando la settimana corta con riduzione dei costi e incremento della produttività. Sarebbe infine opportuno ricordare come il ricorso allo straordinario, per molti/e, sia divenuto un vero e proprio obbligo: sia per via di imposizioni aziendali, sia per norme contrattuali che permettono ai datori di esigere un certo numero di ore supplementari nell’arco dell’anno. Lo straordinario è uno strumento che serve fondamentalmente a non assumere nuovi lavoratori e fa leva sul fatto che per quelli già impiegati possa essere una sorta di strumento obbligato per accrescere i propri redditi, altrimenti irrimediabilmente troppo bassi.
il rapporto INAPP: https://www.inapp.gov.it/pubblicazioni/rapporto/edizioni-pubblicate/rapporto-inapp-2023
https://formatresearch.com/wp-content/uploads/2023/12/Testo-int.-PAG2023-ITA-ING.pdf
https://www.istat.it/it/archivio/292096
https://www.lindipendenteonline/2023/05/04/istat-margini-di-profitto-delle-imprese-italiane-mai-cosi-alti-grazie-ai-salari-bassi/
venerdì, 5 gennaio 2024
In copertina: Foto di Darko Djurin da Pixabay