Chi è il malato d’Europa?
di Luciano Uggè (ricerche statistiche di Simona M. Frigerio)
Da alcuni anni è molto difficile leggere i dati macroeconomici in quanto si fa sempre il raffronto con il medesimo periodo dell’anno precedente. Ma veniamo da ben tre anni di crisi profonda – prima a causa delle misure di contenimento della pandemia da Covid-19, che sono andate a grave detrimento (oltre che delle libertà personali) dell’economia, e poi dello shock per lo scoppio della guerra in Donbass (o, per essere più precisi, dello ‘scoppio’ letterale del Nord Stream e della scellerata idea di fare a meno del gas russo optando per quello di scisto statunitense).
I risultati, a livello di costi energetici, sono rilevabili dal grafico che pubblichiamo (fonte: ISPI) ma a livello economico e di commercio con l’estero quanto hanno inciso sul nostro Paese? E sul cosiddetto ‘motore d’Europa’, ossia la Germania?
Mentre il Governo Meloni decide di ritirarsi dalla Nuova Via della Seta, considerando solamente che la nostra bilancia commerciale con la Cina è rimasta comunque negativa (nonostante, nel primo semestre 2023, le nostre esportazioni si siano triplicate e già nel 2021 e 2022 erano in crescita sia rispetto al periodo pandemico sia all’anno che aveva registrato la migliore performance, il 2018), ciò che occorrerà chiedersi è chi si accollerà il debito pubblico italiano nei prossimi mesi e anni. La Cina sta dimostrando di essere sempre meno interessata a investire in Europa (forse anche a causa della minaccia delle sanzioni unilaterali?), mentre gli investitori occidentali migrano nei comparti più innovativi degli States (1). Se la BCE non continuasse la campagna acquisti, chi si farà carico (con le famiglie italiane sempre più impoverite da salari bassi e inflazione) di rifinanziare il maggior debito pubblico nell’Eurozona – tra il 142% e il 143,5% del Pil (a seconda delle stime)?
Ora, se in termini assoluti, la Germania, nel primo trimestre del 2023 vedeva un aumento del debito pubblico fino a 2.406,6 miliardi di euro, il nostro debito viaggia ‘allegramente’ verso i 2.856 miliardi di euro (stime Mazziero Research) e se lo stesso, in Germania, corrispondeva al 66,3% del Pil (nel 2022), in Italia abbiamo visto che il rapporto debito/Pil supera il 140%. Un ultimo dato riguarda il famoso 3% di disavanzo nominale: l’indebitamento netto programmatico per il 2023 dovrebbe attestarsi, in Italia, al 4,5% del Pil e ridursi al 3,7% nel 2024 «grazie al previsto venire meno delle misure adottate dal Governo per contrastare gli effetti dell’aumento dei prezzi energetici» (fonte IlSole24Ore). Il che significa che se i costi dell’energia continueranno a essere elevati, ricadranno in pieno su aziende e famiglie – come stiamo già notando.
Come l’inflazione ‘trucca’ il Pil
Come mai, ci si potrebbe chiedere, nonostante da molte parti si parli di de-industrializzazione il debito pubblico sta calando?
Un buon segnale? Certamente se la Banca Centrale Europea non continuasse ad alzare i tassi d’interesse potrebbe – almeno nel breve periodo – esserlo, ma la congiuntura è più complicata di quanto sembri.
La semplificheremo al massimo. Se le ‘spese correnti’ dello Stato (dalla pubblica amministrazione a una serie di servizi fino al famoso 2% del Pil in armamenti) non riescono a essere coperte dalla tassazione (diretta e indiretta) di privati e aziende e dalle accise, il debito pubblico aumenta e il disavanzo va finanziato con l’emissione di titoli da parte del Tesoro (o con la vendita di asset di proprietà degli italiani).
Ora, quando si registra un aumento dell’inflazione, alcune forme di tassazioni (quali l’Iva) aumentano nominalmente. Ma anche l’Irpef visto che stipendi e pensioni, pur non aumentando quanto l’inflazione (e solo nominalmente), forniranno un gettito più elevato. Per non dire che stipendi e salari ‘realmente’ più bassi possono finire perfino in scaglioni di reddito superiore (con un ulteriore impoverimento della popolazione) – attuandosi il cosiddetto fiscal drag (2).
Lo stesso accade per il Pil (ossia il prodotto interno lordo), che può aumentare in termini di valore ma non di volume (e su questo fatto torneremo). Nel contempo, gli interessi sui titoli a medio e lungo termine – i quali non sono indicizzati che in piccolissima parte – continueranno a pagare interessi bassi (in quanto emessi prima del rialzo dell’inflazione). Di conseguenza ci pare che il debito pregresso incida meno sul Pil. Questo finché il tasso d’interesse (in aumento costante nell’Eurozona grazie alle scelte della BCE) non cominci a essere applicato anche ai nuovi titoli in emissione che potranno schizzare da un 1% a, magari, un 4% – e che dovranno essere corrisposti dallo Stato anche negli anni a seguire (magari per 10 anni) e persino nel caso l’inflazione crolli.
Di conseguenza, alla lunga la diminuzione del rapporto debito/Pil può essere solo una lucciola… scambiata per lanterna!
L’industria in crisi e la bilancia commerciale
Proprio perché veniamo da tre anni di crisi, i media e l’Istat – che continuano a fare raffronti tra mesi e trimestri del 2023 e del 2022 – sono decisamente poco istruttivi.
Il confronto dovremmo farlo con l’ultimo anno pre-pandemia, ossia il 2019, quando l’Italia toccò un massimo storico con un surplus della bilancia commerciale che mostrava un avanzo di 52,94 miliardi di euro – grazie alla crescita delle esportazioni (+2,3%, ma in flessione rispetto al 2018) e un calo delle importazioni dello 0,7%. Nel 2019, tale surplus fu il settimo più alto al mondo – dietro a Cina, Germania, Russia, Arabia Saudita, Paesi Bassi e Irlanda.
Ora l’Istat ci informa che, nei primi sei mesi del 2023, il saldo commerciale è positivo per 18,3 miliardi. Se si confermasse questa tendenza, a fine anno toccheremmo i 36 miliardi di euro, ossia un terzo in meno di quattro anni fa, ma addirittura meno in valore reale se tenessimo conto del discorso inflattivo già fatto.
In effetti, la produzione italiana è calata del 2,1% su base annua e questo dato conferma che, sebbene il saldo commerciale sia ancora positivo, vi sono segnali chiari di de-industrializzazione e perdita di competitività sui mercati internazionali. Se ci può consolare, i dati tedeschi sono simili, ossia si registra una diminuzione della produzione industriale su base annua del 2,1% (dati a luglio 2023). E il Governo tedesco non è riuscito a far approvare la Legge finanziaria per il 2024, a causa del buco di bilancio di 17 miliardi ma, immaginiamo, anche per la crescente opposizione interna alle sue politiche. Il che si traduce in uno stop di nuovi finanziamenti militari all’Ucraina visto che, a seguito di questo ritardo o bocciatura, vi sarà un congelamento di qualsiasi spesa federale tranne quelle essenziali, come le pensioni.
Tornando al cosiddetto Bel Paese, i dati ufficiali dell’Istat (che persevera coi raffronti col 2022, anno non significativo) dicono altresì che: “nel primo quadrimestre del 2023 l’Italia ha esportato beni per 207,1 miliardi di euro”, il che equivale a un aumento del 5,9% in termini monetari – rispetto all’anno precedente – ma a fronte di un calo del 2,9% in termini di volume. E quindi, la realtà è persino peggiore di quanto ventilavamo facendo i dovuti raffronti con il 2019. Se non bastasse, sempre l’Istat stima, nel secondo trimestre del 2023, “una flessione congiunturale delle esportazioni per tutte le ripartizioni territoriali, a eccezione del Nord-ovest che risulta stazionario. La riduzione è molto ampia per il Centro (-15,7%), più contenuta per il Nord-est (-2,6%) e per il Sud e Isole (-2,4%)”.
Mal comune…?
In queste settimane si è molto discusso, sulla stampa di settore, della cosiddetta ‘finanza creativa’ tedesca. Come riporta anche IlSole24Ore: “Nel mirino della magistratura contabile tedesca ci sono i veicoli finanziari con cui si sostengono le spese straordinarie. L’effetto è che il deficit reale balza da 17 a 86 miliardi”. Questo ‘scivolone’ del Governo di Olaf Scholz, che “avrebbe nascosto le reali condizioni finanziarie del Paese trasferendo impegni finanziari pluriennali in veicoli finanziari speciali (Sondervermoegen), ossia all’interno di società create con il preciso scopo di redistribuire una massa di crediti tra un’ampia gamma di investitori” potrebbe esserci utile? Contabilizzati – come da regole europee – nelle finanze pubbliche, questi 86 miliardi porterebbero il rapporto deficit/Pil dallo 0,4% al 2,4% (comunque al di sotto del 3%). Mentre il rapporto debito/Pil viaggerebbe intorno al 68% (ma, forse, potrebbe lievitare a causa della denuncia della Corte dei Conti tedesca).
Se la Germania si trovasse un po’ in ‘imbarazzo’, questo potrebbe aiutare l’Italia nel breve periodo, visto che i parametri del 3% tra deficit e PIL e del 60% tra debito pubblico e PIL resteranno irraggiungibili per il nostro Paese per anni a venire – ma anche la Germania si discosterebbe almeno dal secondo parametro. Per non aggiungere nulla sul fatto che la de-industrializzazione tedesca e l’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato colpirà anche le casse teutoniche.
La palla ora passa all’Europa e alla volontà della UE e degli States di far cadere la nostra pedina in questa partita a scacchi – che Biden sta giocando non con, ma contro l’Unione. Di certo l’incontro tra Von der Leyen, Charles Michel e Xi Jinping non ha sortito grandi risultati, mentre l’uscita dell’Italia dalla Via della Seta, annunciata praticamente in concomitanza, è uno sgarbo diplomatico che i cinesi non dimenticheranno.
Ci attende un anno tutto in salita!
(1) https://www.inthenet.eu/2023/09/15/da-centro-di-potere-a-periferia-dellimpero/
(2) https://www.treccani.it/enciclopedia/fiscal-drag/
venerdì, 29 dicembre 2023
In copertina: ‘Stretta creditizia’, foto di Steve Buissinne da Pixabay