L’importanza di nuove storie d’amore contro la violenza di genere
di Myriam Martufi
È una domenica pomeriggio di metà novembre e fuori soffia un vento gelido, forse il primo dell’anno. Ho appuntamento al cinema del paese con un’amica: abbiamo disdetto tutti gli altri impegni per essere lì, e per esserci insieme. L’eco del successo del film – che vede per la prima volta alla regia Paola Cortellesi – era passata attraverso internet ed era giunta a noi prima che avessimo potuto vederne la locandina esibita al centro del paese. Da lontano scorgo il suo cappellino e la vedo avanzare verso di me, distaccandosi dallo sfondo di folla che solo ora comincio a notare. Non ho mai visto tante persone in fila di fronte al cinema come stasera. Ci sono donne, uomini e anche bambini e bambine, imbacuccati contro il vento, che aspettano la fine dello spettacolo precedente per poter entrare. Ci guardiamo tra noi un po’ emozionati, come se stessimo partecipando a un rito collettivo.
Finalmente entrati, ci accomodiamo alle poltrone. La platea è brulicante al punto che qualcuno sta sistemando nuove sedie negli spazi laterali. Gli unici posti rimasti liberi sono quelli accanto a me. Superstiti. E mentre la sala si è fatta ormai buia, un uomo e una donna arrivano trafelati. Il compagno mi si siede a fianco, ha il telefono in mano e le cuffie bianche alle orecchie. Lo schermo del suo iphone è l’unica fonte luminosa rimasta. Non posso fare a meno di sbirciare, così scopro che sta guardando una partita. Mi sembra chiaro che sia venuto al cinema controvoglia e che vedrà il film distrattamente tra un goal e un altro.
Intanto le prime scene scorrono sul maxischermo, e appare Delia (interpretata da Paola Cortellesi), madre e moglie in bianco e nero che dà il buongiorno al marito (interpretato da Valerio Mastandrea), il quale risponde con una sberla in pieno volto. Il pubblico ride, mentre di sottofondo la canzone di Franca Raimondi (“aprite le finestre ai nuovi sogni, bambine belle e innamorate, e forse il più bel sogno che sognate sarà domani la felicità”) cinguetta l’aria di primavera, che imposta il tono ironico e leggero del film. O almeno così sembra. Si aprono le finestre sulla famiglia di Delia, donna del dopoguerra romano che accudisce la casa in cui vivono il marito Ivano, la figlia grande Marcella e altri due bambini, insieme allo scontroso suocero. Tutto fa pensare alla classica commedia all’italiana, in cui le dinamiche familiari vengono esposte al pubblico ludibrio. Eppure stavolta la trama è diversa, e si concentrerà non solo sul percorso di emancipazione di Delia, che da moglie sacrificata e abusata diventerà donna e cittadina consapevole, ma anche sul suo rapporto con la figlia più grande. Marcella, infatti, coltiva il sogno di sposare un giovanotto apparentemente per bene per tentare la scalata sociale, e soprattutto per evitare di fare la fine di sua madre, che osserva sacrificarsi tra un’esplosione di rabbia del marito e un’altra.
La violenza è parte integrante della routine quotidiana di Delia, che incassa ma imperterrita lavora, cucina, stira e si permette ogni tanto una sigaretta e qualche risata al mercato con l’amica Marisa (interpretata da Emanuela Fanelli). Non fa caso alle botte, come se il giorno del matrimonio avesse giurato davanti al prete non solo di essere fedele eternamente, ma anche di essere pronta a subire gli schiaffi e i calci del marito ogni qualvolta lui avesse voglia di alzare le mani. E le occasioni per farlo non mancano di certo. La prima si verifica quando Delia, uscendo per andare al mercato, incontra per strada un soldato americano che le regala una tavoletta di cioccolata. Dopo averla portata a casa per farla assaggiare ai figli, il marito si arrabbia, credendo che Delia abbia fatto qualcosa di sconveniente per meritare quel dono. E così, spediti i bambini nelle camere da letto, inizia la scena di violenza che sarà il vero innesco del film.
Il braccio di Ivano è fermo, pronto a scagliarsi su Delia. In sala gli spettatori hanno i volti sospesi, ma anche convinti di sapere ciò che sta per succedere e che hanno già visto centinaia di volte, sia nella realtà che sullo schermo. Sembrerebbero già pronti a contare i lividi. Per curiosità, do un’occhiata al mio vicino di posto: anche lui sta aspettando. La tensione della scena gli ha fatto distogliere per la prima volta lo sguardo dallo schermo. Si avvicina lentamente alla sua compagna e sussurra: “ora il marito la DEVE picchiare”. Ma da quell’imperativo tutto cambia, e improvvisamente Delia e Ivano iniziano a volteggiare insieme a ritmo di musica.
La scelta di raccontare la violenza subita da Delia e perpetuata dal marito come se fosse un ballo tra i due coniugi, non solo ne rappresenta l’atrocità senza bisogno di scadere nella pornografia del dolore, che indugia nei dettagli più macabri della sofferenza altrui, ma fa anche qualcosa di più. Attraverso un romanticismo volutamente dissonante, quel ballo ridicolizza la normalizzazione della violenza nelle storie d’amore a cui ci siamo abituati. Chi guarda sa che in quel momento c’è qualcosa di sbagliato, qualcosa che stona come un iphone illuminato in un cinema buio.
Del resto, gli spettatori sanno riconoscere una storia d’amore quando ne vedono una. E lo sanno perché le storie d’amore (soprattutto quelle di maggiore successo, si pensi a Twilight, o alla saga di 50 sfumature di grigio, entrambi record al botteghino) soffrono del maggiore conservatorismo possibile, ossia vengono raccontate seguendo schemi ben prestabiliti. Siamo stati infarciti di narrazioni in cui la donna è vittima, ingenua, succube, mentre l’uomo è predatore, geloso, possessivo. Rabbia e desiderio si intrecciano in una spirale inesorabile e l’esercizio della forza, anche all’interno della relazione di coppia, viene dipinto come se fosse il termometro dell’intensità del sentimento. L’amore raccontato nella sua forma mainstream è una mescolanza di controllo e dipendenza, gelosia e sottomissione. Con la conseguenza che generazioni di madri e figlie (e dunque di padri e figli) continuano a considerare l’amore così come glielo hanno raccontato. E tutto ciò influisce sull’immaginario, perché se le storie, da anni, ci mostrano l’amore intrecciato alla violenza, allora sarà molto difficile credere che l’amore possa esistere senza la stessa.
Le storie sono il cuore pulsante del nostro immaginario. Sono il pane di cui ci nutriamo fin da quando siamo bambini, affilando gli strumenti che useremo da adulti per muoverci nel mondo. Questo intendeva la poeta americana Muriel Rukeyser quando diceva che “Il mondo è fatto di storie, non di atomi”. Ed è per questo che non solo abbiamo bisogno di nuove storie, ma abbiamo anche bisogno che abbiano un grandissimo successo. Storie in cui l’amore di una madre per la figlia la faccia uscire dall’inerzia per prendere in mano le redini della sua vita; in cui le donne non sperano nell’arrivo di un uomo che le salvi, ma si organizzano insieme ad altre donne per salvarsi da sole. Storie in cui la violenza venga sgonfiata e la sua retorica sentimentalista mostrata per la macchietta che è; in cui un uomo che picchia una donna e dopo dice di amarla sia solo ridicolo e non romantico. Storie in cui le relazioni di coppia possano trovare un nuovo meccanismo di funzionamento che non sia il potere. Storie in cui l’obiettivo di una ragazza non sia trovare l’amore della vita, ma raggiungere l’indipendenza, anche economica. Perché le storie diventano il luogo in cui ci immaginiamo di poter abitare. E allora la storia di Delia disegna un mondo in cui l’amore è visto dagli occhi delle donne, che il mondo lo hanno fatto, anche a bocca chiusa.
C’è ancora domani
regia Paola Cortellesi
con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli, Romana Maggiora Vergano, Giorgio Colangeli, Vinicio Marchioni
sceneggiatura Furio Andreotti, Giulia Calenda e Paola Cortellesi
fotografia Davide Leone
montaggio Valentina Mariani
scenografia Paola Comencini
costumi Alberto Moretti
musiche Lele Marchitelli
durata 118’
Italia, 2023
venerdì, 8 dicembre 2023
In copertina: La Locandina del film, C’è ancora domani