«La gestione pandemica è stata la dimostrazione della bancarotta culturale delle nostre classi dirigenti»
di Simona Maria Frigerio
L’etica, la letteratura, la memoria ma anche la retorica sono strumenti indispensabili per decifrare il mondo che viviamo. L’uomo liquido, prodotto di una società altrettanto liquida (come da definizione di Zygmunt Bauman) è, in realtà, un uomo che si definisce sempre più attraverso le restrizioni ‘esatte’ del potere, che ne stabiliscono la forma e ne restringendo i confini. Come tornare a un centro – solido – ma che sia emanazione di una precisa volontà etica e di una altrettanto precisa visione politica, insieme individuali e collettive?
Sicuramente occorre ripartire dalla scuola, dall’università, da una sana critica all’esistente. Per questo abbiamo contattato una tra le penne più lucide, sagaci e argute di questi anni bui, quella di Andrea Zohk – filosofo e accademico italiano, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano, autore di Critica della Ragione Liberale, ove indaga proprio quella logica liberale che nutre i processi capitalistici, o del più recente Lo stato di emergenza. Riflessioni critiche sulla pandemia, in cui denuncia i metodi delle post-democrazie e il pericolo di un “collasso dei principi democratici di dialogo, mediazione e inclusione”.
L’Università, dopo la Riforma Berlinguer – che ha moltiplicato i percorsi di studio e le cattedre – non ha perso in profondità, contenuti, saperi?
Andrea Zohk: «Credo che il processo di dequalificazione dei percorsi di studio abbia radici lontane e che la Riforma Berlinguer abbia contribuito a questo processo di dequalificazione semplicemente perché ha ‘modernizzato’ l’impianto formativo adeguandosi agli ordinamenti prevalenti nel mondo anglosassone. In sostanza si è trattato di un’operazione di ammodernamento esteriore, come quasi tutti quelli che hanno coinvolto il mondo della formazione negli ultimi decenni, dietro a cui non c’era alcuna idea salvo quella di somigliare il più possibile a modelli stranieri – modelli che, a ben vedere, non è che avessero dato così eccellente prova di sé. Il ‘3+2’, come molte altre iniziative succedutesi in questi anni, ha semplicemente prodotto un rilevante numero di problemi organizzativi supplementari in un sistema che soffriva già di tutt’altri problemi».
Mi arrivano, da docenti delle scuole superiori, lamentele per la cosiddetta scuola/azienda, nella quale si trovano a operare. Questo si verifica anche in Università?
A. Z.: «Tra università e scuola c’è una differenza fondamentale: la scuola, inclusa la secondaria superiore, è essenzialmente formazione generale del cittadino. Fanno parziale eccezione gli ultimi anni delle scuole con un indirizzo professionale, ma comunque l’idea formativa di fondo è di portare alla luce un soggetto consapevole, prima che un professionista competente. In ambito universitario, con la parziale eccezione di alcuni settori umanistici (filosofia in primis), il focus non è sulla formazione generale ma sulla specializzazione in vista del lavoro. Dunque di per sé contatti con il mondo del lavoro non sono estranei alla natura degli studi universitari. Di ‘aziendalizzazione’ in ambito accademico si può parlare in un altro senso rispetto, ad esempio, al tema della ‘scuola-lavoro’. Si trova un processo di aziendalizzazione nella tendenza, diffusasi negli ultimi decenni, a concepire l’intero sistema scolastico secondo parametri di produzione industriale. L’ubiquità della misurazione quantitativa della ‘produzione’, la frenesia della valutazione, del ‘riesame’, della presunta ‘attenzione alla qualità del prodotto’ sono elementi importati di peso da ambiti industriali in un ambito dove non c’entrano nulla. Questa tendenza invece di migliorare la qualità della formazione, che ne sarebbe sulla carta l’intento, genera un grande dispendio di risorse in attività estranee alla didattica e alla ricerca».
In un suo intervento denuncia come la letteratura per ragazzi si sia impoverita con “la sostituzione integrale dello spazio fantastico di tipo storico con uno spazio fantastico di tipo Fantasy/Sci-Fi, e la semplificazione della prosa in paratassi breve”. Se la letteratura si adatta ai social, come imparerà un giovane, prima ancora che a scrivere, a pensare?
A. Z.: «Questa involuzione della letteratura per ragazzi viene naturalmente incontro ad un impoverimento del linguaggio e della prospettiva storica che è già nelle cose, che è già da tempo un elemento sia ideologico sia pratico del mondo contemporaneo. La paratassi è il linguaggio dei social giovanili. L’abbandono della prospettiva storica trionfa oramai anche in giornali, riviste, trasmissioni televisive, film, che o mancano di ogni retroterra storico o, peggio, riscrivono serenamente la storia adattandola ai gusti presenti. La letteratura specificamente dedicata alla fascia giovanile prende atto di questa trasformazione e per non perdere del tutto il proprio pubblico, semplifica e destoricizza. Non prenderei questi caratteri tendenziali della letteratura giovanile come ‘causa’ quanto piuttosto come sintomo di un processo complessivo di degenerazione culturale».
Il Patto educativo di corresponsabilità, che dovrebbero firmare i genitori degli alunni, non va in un certo senso contro l’Art. 34 della Costituzione, che dovrebbe garantire una scuola ‘aperta a tutti’?
A. Z.: «Non sono certo di comprendere tutti i possibili risvolti di questa operazione. In prima istanza sembra l’ennesima sceneggiata utile solo ad incrementare il numero delle operazioni inutili e delle perdite di tempo in contesto formativo. Questo nel migliore dei casi, quello in cui non ne emergesse niente di sostanziale. Potenzialmente potrebbe essere anche adoperato con finalità di declaratoria ideologica da parte di alcuni istituti, venendo meno all’obbligo costituzionale di avere una scuola aperta a tutti prescindendo da orientamenti politici o ideologici».
Con il Covid-19 si è deciso che l’istruzione (al pari, in generale, della cultura) fosse un’attività inessenziale. La scuola, gli studenti e le famiglie erano impreparati alla Dad, ma non si sarebbe potuto fare altrimenti?
A. Z.: «Guardi a mio avviso la gestione pandemica è stata catastrofica su pressoché tutti i fronti. La scuola non ha fatto eccezione. Mentre la maggior parte dei decessi per Covid si avevano nelle case di riposo, si è pensato di preservare con grande cura quella parte della popolazione, gli studenti, su cui il virus aveva la stessa aggressività della comune influenza, devastandone la socializzazione e la preparazione. Nessun Paese al mondo ha adottato iniziative di chiusura delle scuole così intensive e prolungate come l’Italia. Su questo come su altri temi legati alla pandemia è stato sempre impossibile interloquire. Richieste moderatissime di prendere in considerazione esempi di gestione di altri Paesi europei non sono state mai ritenute degne neppure di una risposta. La gestione pandemica è stata la dimostrazione della bancarotta culturale delle nostre classi dirigenti».
Tra le Pillole contro la disinformazione, la puntata intitolata L’attacco dei cloni, denuncia come il Guardian non avrebbe creduto ai massacri dei civili a Bucha, Der Spiegel avrebbe denunciato i rischi delle sanzioni alla Russia, l’Ansa avrebbe polemizzato con Kiev sull’esportazione del grano. Articoli falsi. Ma scegliendo questi esempi, non si vuole convincere il telespettatore che il massacro di Bucha è realtà inoppugnabile, le sanzioni funzionano e il grano ucraino non è inquinato? Tali messaggi non sono volti a inculcare convincimenti più che a fornire strumenti critici?
A. Z.: «Onestamente io non guardo da tempo la televisione, e dunque non sono neppure a conoscenza di queste Pillole contro la disinformazione che, a quanto capisco, sono un programma RAI. Che l’informazione mainstream, radio, televisioni e giornali, sia oramai la principale sorgente di sistematica manipolazione e disinformazione per me è un dato acclarato. La verità compare qui solo se e quando accidentalmente può essere funzionale a tesi ideologiche precostituite. Oggi chi vuole ottenere informazioni non compromesse deve divenire un ricercatore, crearsi una rete di fonti in rete il più plurale possibile e lontana dalle aree di influenza dei grandi gruppi finanziari, cui fanno capo le principali agenzie di stampa internazionali e i principali gruppi editoriali. Purtroppo questo tipo di ricerca, che richiede anche la capacità di lettura almeno in inglese e possibilmente in più lingue, è accessibile a pochi. Ascoltare un telegiornale o leggere un quotidiano nazionale oggi significa semplicemente esporsi ad un’operazione propagandistica. Lo si può fare se si hanno altre fonti da confrontare, altrimenti se ne rimane semplicemente vittima».
In Oppenheimer (1), aldilà che non emergano l’inutilità e le conseguenze delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, ci si pone la domanda se etica e ricerca scientifica possano trovare un equilibrio. Può, chi rivendica la libertà della ricerca pura, domandarsi quali ricadute avrà la propria scoperta?
A. Z.: «Non ho visto il film. Posso solo dire che, al tempo, la ricerca del progetto Manhattan era ovviamente condizionata dall’esplicito scopo militare della ricerca stessa. Oggi le dinamiche di condizionamento della ricerca scientifica sono ubique, e non riguardano soltanto né preminentemente la ricerca a fini bellici ma sostanzialmente ogni tipo di ricerca che abbia bisogno di rilevanti finanziamenti. Politica ed economia sono entrate nella sfera della ricerca più massicciamente che mai».
(1) Oppenheimer è un film del 2023 scritto, diretto e co-prodotto da Christopher Nolan, basato sulla biografia del ‘padre’ della bomba atomica
venerdì, 20 ottobre 2023
In copertina: Particolare della copertina di Lo stato di emergenza. Riflessioni critiche sulla pandemia, Andrea Zhok, 2022, Meltemi Editore