L’ultimo racconto della raccolta Quadri d’Interno
di Simona Maria Frigerio
Perché mi è tanto difficile concludere questo libro? Perché non riesco a scrivere le ultime parole, una di fila all’altra, sollevare le dita dalla tastiera, sospenderle a mezz’aria e lasciarle cadere lungo i fianchi, scioperate infine? Mi alzo dalla scrivania e vado alla finestra. Nell’angolo estremo del parcheggio la macchina abbandonata riposa tra una coltre di foglie autunnali. Mi hanno detto che la donna che la possedeva è stata portata via dai pompieri. Era malata. Stava morendo. Nella lucida consapevolezza della sua solitudine si è resa conto che non sarebbe più stata. È impazzita: ha deciso di suicidarsi, invece di aspettare buona buona. I pompieri sono entrati a forza da una finestra e l’hanno portata via. L’hanno salvata, dicono. Ma via dove? Da qualche altra parte. A morire… lentamente. A volte penso che doveva essere davvero sola perché nessuno sia venuto a prendersi la macchina. Un’auto, dopotutto, fa sempre comodo…
Torno svogliatamente alla scrivania e mi rigiro una matita tra i denti, come facevo a scuola quando non riuscivo a cominciare il tema. Vuoto. Bianco. Il video come un foglio. Potrei spegnere e ritentare domani. Il mestiere dello scrittore è anche questo: arrendersi. Sbuffo e ci ripenso. Vado in cucina a prendermi un bicchiere di vino. Guardo l’orologio: sarebbe l’ora dell’aperitivo. Approvo e mi preparo una ciotola di patatine e una di arachidi tostate. Torno alla scrivania e mi chiedo perché scrivere, se è l’ora dell’aperitivo. Spengo e mi avvicino di nuovo alla finestra sorseggiando vino bianco tra un’arachide e l’altra. Domani forse andrà meglio.
Leggo il giornale e mi spazientisco. È tutto talmente ovvio. Eppure, se lo è per me, e anche per la giornalista, perché non cambia mai niente? Mi taccio di banalità e sospiro. Dal divano guardo la pagina bianca sul computer e torno a sfogliare il giornale: più facile. La parata militare nell’anno giubilare con la benedizione della chiesa porgere-l’altra-guancia e invettive contro il gay pride perché blasfemo. Chi diceva: “Fate l’amore, non fate la guerra”? Scuoto il capo sconsolata. Vecchi motti da barricate e figli dei fiori. Per forza non riesco a scrivere niente di meglio dei necrologi: la politica è morta.
Mi alzo dal divano e mi avvicino alla tastiera. Forse potrei tentare con una storia d’amore, di quelle dove tutto è bene quel che finisce bene e lui torna dalla moglie e dai pargoletti. Oppure loro vissero felici e contenti e si sposarono e procrearono e divennero vecchi e morirono in pace. Ma chi se ne frega della pace? Quello che è certo è che morirono. Rido e mi accorgo che anche oggi non funziona. E poi non devo scrivere tutto un romanzo. Devo solamente scriverne la fine. The end.
Stamattina mi sento proprio della vena giusta. Ho chiamato al giornale e ho detto che non sto bene, così posso rimanere a casa e finire questo maledetto libro. Faccio una doccia canticchiando. Mi fa sempre bene sentire l’acqua fresca sulla pelle di buon’ora. Mi preparo un’abbondante colazione, m’infilo una comoda tuta da battaglia e accendo. Un leggero borbottio m’interrompe. Devo andare in bagno, continuerò dopo. Queste cose non accadono mai nei film…
«Come va, dici? Bene.»
«Sì, sto scrivendo.»
«Mi manca l’ultimo capitolo.»
«Sicuro che riesco a consegnartelo per fine mese. Che cavolo! Ho scritto trecento pagine in sessanta giorni e mi chiedi se riesco a buttarne giù una ventina in due settimane?»: “fai bene a chiedertelo”.
«Sì, passo fine settimana prossima.»
«Chi?»
«Certo, salutamelo!», “ma che s’impicchi”.
«A-a!»
«Sì, ho sentito anch’io che il suo romanzo sta vendendo bene.»
«Sì… un genio»: “invidia?”
«Ci vediamo.»
«Anche a te. Baci»: “puah!”
Annaffio le piante con la solita disinvoltura e qualcuna fa pipì come un gatto sul tappeto, scuoto il capo e strizzo anche l’ultima goccia dell’annaffiatoio sull’ortensia, che si sta ammuffendo anche quest’anno. Passo davanti al computer: lo schermo vuoto mi scruta sconsolato. Faccio spallucce e mi lascio sprofondare sul divano appena rifatto. Mi assale un dubbio. Vado alla borsa e controllo lo scontrino del bancomat: sì, bene, per l’affitto dovrei farcela… Sorrido ripensando all’impiegato della banca e a quel mellifluo: «Perché non si fa una bella pensioncina alternativa? Tanto su quella dello Stato può metterci una pietra sopra!» – risatina diabolica. «Lo dice anche Renzi…» – quasi parlasse del padreterno! Piccole economie da venditori abusivi di birre, che spingono carrelli del supermercato stracolmi di cartoni facendo concorrenza agli ambulanti dell’Arco della Pace… E a me, che restano solo i soldi dell’affitto, non rimane che fare a meno della pensioncina e, soprattutto, del paio di scarpe lilla a cui faccio il filo da un mesetto, dell’assicurazione furti e incendi sull’auto, degli esami del sangue e forse anche del giornale. Beh, del giornale solamente fino al prossimo stipendio.
A volte mi sembra che fuori ci sia veramente il mondo: un mondo che continua a respirare anche quando io trattengo il fiato, come oggi, in questi giorni, in quest’istante eterno in apnea. Ma dentro di me so che non è così: là fuori non c’è nulla. Sono io, coi miei occhi, che creo quelle immagini, e credendo che esistano – che pensino anche quando io non penso a loro – posso continuare a scrivere. Domani finirò il libro e uscirò per strada e tutto sarà come prima e gli altri mi racconteranno ciò che hanno fatto e io mi immaginerò di avere partecipato e sarò di nuovo viva. Devo solo finire.
Il telefono squilla, ma io non posso rispondere. Poco male. Succede sempre così: aspetto per ore e quando alla fine m’infilo sotto la doccia, quello squilla. Sembra farlo apposta. Scoppio a ridere. Esco dal bagno e la gatta si struscia sulle mie gambe invitandomi a seguirla: è ora della pappa. L’unico momento della giornata in cui si accorge che esisto è l’ora di cena: “Mica-stupida: io-gatta!” – rido immaginandola parlare come in un cartoon. Apro una scatoletta di tonno per due: «Che ne dici: pasta al tonno anche stasera?». Lei sembra capire e si struscia nuovamente contro le mie gambe. Poi si avvicina alla ciotola e si volta verso di me spalancando gli occhioni. Questa volta indica la scatoletta. Adesso sono io che sembro capire: mi rimprovera perché anche ieri sera ho preparato pasta al tonno, dopotutto potrei anche inventarmi qualcosa di meglio… Spalanco il frigorifero annuendo buone intenzioni, lo richiudo e vado a prendere l’apriscatole.
Forse non voglio concludere questo libro perché è diventato il mio migliore amico. L’unico amico. Claustrofobico! Presente, familiare, rassicurante. Come una partita a Tetris: nessuna sorpresa. I Pearl Jam suonano schizzati e quel pensiero appena abbozzato si dilegua impreciso: non me lo ricordo più. Potrei infilare una sfilza di nomi di musicisti: farebbe così post-minimalista… Se avessi studiato ingegneria oggi mi arrampicherei pindaricamente tra ellissi adalgisiche, scivolando in decadenti odi edipiche, ma io sono orfana da prima della nascita, e di entrambi i genitori, ho studiato lettere e quando non so che fare… ascolto le profezie di Lou Reed e mi dissocio con Society mentre mi arrendo all’evidenza: se non puoi essere Shakespeare né puoi essere Joyce, che cosa ti resta? “Venti fottutissime pagine da finire entro lunedì… e oggi è sabato!”: direbbe Marlow…
Dovrei uscire, sì mi farebbe bene prendere un po’ d’aria. Dovrei proprio indossare qualcosa, infilarmi le scarpe e andare fuori: camminare, incontrare qualcuno, magari scambiare quattro chiacchiere, anche solo col commesso del supermercato. Dovrei fare un po’ di spesa. Anche la gatta ne sarebbe contenta. Ma pasta ne ho ancora in abbondanza. E il tonno non manca. Uscirò lunedì… forse è meglio.
Mi guardo allo specchio e sorrido. Scivolo lentamente nel silenzio. Forse non finisco questo libro perché non c’è davvero più niente da scrivere. Un vuoto senza pieno, privo di antonimi, né antro nel quale nascondersi né superficialità sulla quale galleggiare. Tacere. Imparare a non esprimere perché è impossibile farlo. Nessuno ha niente da dire. Il rumore di fondo della nostra superficialità consumistica impedisce di pensare e rendersi conto: della solitudine, del silenzio. La televisione ronza banalità senza fine. Domani forse mi alzerò e riuscirò a scrivere qualcos’altro. Meglio andare a letto, adesso, è tardi. Troppo tardi.
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
venerdì, 13 ottobre 2023
In copertina: Foto di 0fjd125gk87 da Pixabay