Intervista a Girolamo Lucania, Ivan Bert e Alberto Boubakar Malanchino
di Simona Maria Frigerio
Abbiamo assistito a una replica di Sid-fin qui tutto bene durante Kilowatt Festival, questa estate a Cortona (1) e abbiamo deciso di approfondire alcuni aspetti di un lavoro che è, dal punto di vista testuale, un pindarico volo tra morte e sublimazione artistica, dove il protagonista, commettendo una serie di delitti, in realtà – come afferma lo stesso drammaturgo e regista, Girolamo Lucania – compie «un atto profetico». Uno spettacolo che, dal punto di vista musicale, offre una trama altrettanto suggestiva la quale, come ci racconta Ivan Bert (compositore e musicista, in scena con Max Magaldi), si basa su una batteria che risulterebbe «coerente anche dal punto di vista filosofico».
Vi siete incuriositi? Bene, allora andiamo a scavare un po’ più a fondo in queste suggestioni.
“Ai Tg parlano di me. A scuola si parla di me. Nel web si parla di me. Si parla del killer della moda”: così potrebbe presentarsi Sid – letteralmente ‘incarnato’ da Alberto Boubakar Malanchino, che ci racconta come ha fatto a calarsi nella pelle di un assassino seriale: «Cerco di creare un ponte tra i personaggi che ho la fortuna di vivere con le mie esperienze personali e non solo. Penso che trovare un punto di similitudine con ognuno di essi sia fondamentale per creare un gancio emotivo con le circostanze e gli obiettivi che ci si trova a vivere in scena. Tuttavia, un’esperienza personale non dovrebbe essere il punto di arrivo con il personaggio ma il primo passo. I protagonisti che abitano i testi sono molto più nobili ed elevati di noi, oppure tremendamente più oscuri. Il difficile risiede nel non portare una quotidianità personale in una ricerca artistica che ha altre mire e bisogni. Per il lavoro svolto in Sid-fin qui tutto bene, ho cercato di non giudicare le azioni del mio personaggio riflettendo, invece, sulle sue fragilità. In che modo la pressione sociale e la sua fragilità mentale possono spingerlo a commettere dei crimini così orrendi? Aver la possibilità di interpretare un personaggio tanto lontano dalla mia persona è stata una bella fortuna. I punti di contatto sono pressoché nulli, quindi la ricerca meticolosa svolta durante le prove è stata faticosa e necessaria. Il complimento più interessante che ricevo spesso dopo lo spettacolo è riassumibile con: “L’ho odiato perché non riuscivo a non amarlo”. Sid mi ha posto e ha posto al pubblico una riflessione importante: “Se empatizzo con il mostro, forse il mostro abita dentro di me? Quali sono le mie responsabilità nella formazione di altri Sid nella società?”».
Ma noi ci siamo chiesti come sia potuto venire in mente a chicchessia di mettere in scena il monologo di un assassino. Ovviamente vi sono molti illustri precedenti in letteratura come nel cinema – pensiamo al capolavoro di Dostoevskij, Delitto e Castigo, all’iperrealistico American Psycho di Bret Easton Ellis, all’esperimento hitchcockiano di un film in piano-sequenza, Nodo alla gola, o ancora a un solido esempio di romanzo di genere moltiplicato per tre ne la Trilogia nera di Dave Zeltserman – in cui sono sempre la voce e l’emozione di chi ha commesso un delitto a diventare protagoniste. Ma in questo lavoro di Cubo Teatro entrano in gioco anche i nostri pregiudizi – verso il migrante, il diverso, l’étranger à la Camus (anche se ci troviamo di fronte a un ragazzo nato e cresciuto in Italia) – e le conseguenze socio-culturali sulle nuove generazioni di un sistema di valori consumistico-capitalista (contro il quale ci metteva in guardia Pasolini ormai mezzo secolo fa). È il regista e drammaturgo Girolamo Lucania a raccontarci come sia stata proprio quest’ultima considerazione a portare Ivan Bert e lui a porsi: «una precisa domanda, ovvero cosa possiamo aspettarci dal futuro? La questione può sembrare superficiale ma, in realtà, è ricca di sfumature e filoni che si possono indagare. La sede di Cubo Teatro, a Torino, è in un quartiere che, sebbene piccolo, è un concentrato di etnie, dove risiedono anche molti giovani di seconda generazione, che provengono da ben 32 nazioni diverse. Questi due fattori hanno sicuramente contribuito alla nascita di Sid – fin qui tutto bene sebbene nel testo vi siano anche diversi riferimenti letterari. In pratica, abbiamo sentito l’esigenza di raccontare la storia di un ragazzo che, volendo emergere, utilizza gli strumenti del suo tempo e nel modo più efferato possibile – perché è quello più veloce. All’interno di questo modo di agire ci sono, però, tanti significati che vanno aldilà del fatto che il protagonista è un serial killer. Il suo è, in certo modo, un atto profetico».
Un atto profetico in quanto anticipa forse una deriva, nella quale potremmo finire tutti per essere coinvolti – come società – e che può portarci a un’implosione senza scalfire minimamente il potere costituito, perché quel potere che persegue e condanna la violenza del singolo, sappiamo bene che porta avanti una violenza ben più feroce contro intere popolazioni pur di accaparrarsi risorse umane e naturali (ciò che sta accadendo in Niger e la rivolta della società civile contro il neo-colonialismo francese ne sono un chiaro esempio). Senza un’idea politico-economica radicale è difficile immaginare un altro mondo possibile (quello a cui aspirava la mia generazione ormai nel lontano 2001 a Genova).
Ivan Bert, a proposito, aggiunge un’ulteriore spiegazione a una frase del testo che ci ha particolarmente colpiti: “Prendo l’ombrello. Senza marca. Preso da un bangla”. L’ombrello conta più o meno di un morto? Dipende se è firmato. Bert ricorda come: «Tra l’estate e l’autunno del 2020, durante una manifestazione di protesta contro le restrizioni causate dal tentativo di contrastare la pandemia, vi fu un afflusso di ragazzi delle periferie verso il centro di Torino. Sul modello di quanto accaduto recentemente in Francia, sebbene in piccolo, il centro fu devastato e si registrarono anche parecchi saccheggi. Nelle settimane successive, i ragazzi che vi presero parte iniziarono a postare sui social se stessi con la refurtiva: tutti oggetti firmati. Potremmo parlare di un saccheggio di protesta contro il capitalismo ma se poi si posta l’iPhone o la borsetta di Gucci – che si sono saccheggiati – si capisce che non vi è un grande sostrato politico a giustificare quell’azione. In realtà, se il capitalismo è la nostra religione – e tutte le religioni sono sistemi economico-politici – e tu saccheggi la tua chiesa per appropriarti di un oggetto che è simbolicamente carico di significati – ma non è certo il furto che ti cambierà la vita – quell’azione mi pone (e ci pone come società) di fronte ad altri dubbi e questioni. La verità è che ci si trova di fronte a ragazzi che hanno cercato meramente una scorciatoia. Non a caso, molti degli arrestati o segnalati erano minorenni. A seguito di ciò, Girolamo e io abbiamo cominciato a chiederci se fosse ancora possibile un reale discorso di mobilità socio-economica».
Ma come mettere in bocca a un migrante le parole che descrivono, crudamente, una serie di omicidi senza scadere nella facile retorica o, peggio, dare manforte alla pletora di xenofobi che si accalca in ogni dove?
Due sono state, secondo noi, le direzioni nelle quali si sono mossi Lucania e Bert. Da un punto di vista linguistico, il portato poetico (anche a livello ritmico) del testo permette una distanziazione che non è solo brechtiana, in quanto ci pone di fronte a un lirismo che potremmo definire onirico. Lucania spiega: «Dal primo giorno di prove siamo stati tutti presenti e il processo è stato totalmente condiviso: parallelamente alla composizione musicale, portavamo avanti la composizione gestuale e quella del testo. Mentre scrivevo con Alberto, nascevano i contrappunti musicali. L’idea era quella di ottenere un testo che potesse essere realistico, persino crudo, ma raccontato e descritto da un ragazzo che è espressione poetica del suo tempo e, quindi, speravamo che emergesse il fatto che il protagonista è davvero un artista. Aspiravamo a un punto in cui lo spettatore si chiedesse se ciò che il protagonista narra è qualcosa che ha fatto veramente, un sogno che sta raccontando o addirittura una sua fantasia». Il prodotto, quindi, dell’immaginazione di un ragazzo che pensa di poter modellare la propria esistenza come un’opera d’arte – un esteta alla Oscar Wilde, verrebbe da pensare, che non a caso ‘ritrasse’ l’omicida Dorian Gray. Anche Malanchino aggiunge pezzi alla ricostruzione di quel momento creativo: «Girolamo aveva già scritto il testo, il mio contributo è stato in primis attorale. Trovandomi di fronte a un testo inedito, un monologo per di più, ho cercato di limare e perfezionare dei punti che non erano ancora chiari del tutto. In fase di prove, soprattutto quando ti trovi a lavorare con un regista come Girolamo, la fortuna risiede nell’avere una persona che si mette in gioco e, oltre a dirigerti, ti lascia anche la libertà di trovare percorsi nuovi. È una responsabilità non da poco, sia per chi lascia questa libertà, sia per chi la accoglie».
La seconda direzione è quella di ‘illudere’ continuamente lo spettatore anche a livello musicale. Di fronte a noi vi è un ragazzo che grida: “Vogliamo la bellezza! Vogliamo che ci parlino di Rimbaud, di Mozart, di Picasso, e non dell’ultimo dibattito in tv a proposito del cazzo di malessere cioè dei giovani delle periferie difficili e dei quartieri fragili…”: come può il tappeto sonoro nel quale si muove Alberto/Sid avere il medesimo portato? Ossia, come può la musica sbatterci sul muso un omicidio e pretendere che sia un’opera d’arte? Essere di fronte a una batteria, se suona come un laúd? Ivan Bert spiega il trucco: «Ogni lavoro può avere una componente tecnica a volte più essoterica, altre più esoterica. In questo caso abbiamo fatto delle scelte tecnologiche che avessero anche un portato filosofico. Questo spettacolo è retto dal punto di vista estetico dai due elementi essenziali della composizione, ossia la melodia – che è fondamentalmente la voce di Alberto Malanchino, come se fosse un solista – e dall’aspetto ritmico della batteria, che è lo scheletro definente con la pulsazione musicale, che può essere ritmica, armonica e melodica. La nostra scelta è stata quella di avere solo la pulsazione della batteria e la voce: questo lo scheletro scarnificato del senso compositivo. C’è però un sotto-testo, in quanto questo lavoro è costruito sul pregiudizio e sia in fase di scrittura che in fase performativa abbiamo utilizzato degli escamotage grazie ai quali si ha l’impressione di sentire delle cose che sono coerenti con la scena ma, in realtà, siamo esposti a un’illusione. In effetti, la batteria che usiamo in scena è una batteria vera e propria ma non ha le pelli consuete, sulle quali si percuotono le bacchette, bensì delle microreti della Evans, sulle quali sono applicati dei sensori sia elettromagnetici sia ottici che trasformano queste ‘pelli’ in una sorta di tastiere a bacchette, che danno un segnale a un campionatore o sintetizzatore sul quale sono caricate varie ritmiche di batterie, alle quali sono associati accordi diversi. Faccio un esempio chiarificatore. Durante lo spettacolo c’è un lungo assolo di laúd – uno strumento musicale simile al liuto, di origine ispanico-mediorientale – suonato da me sul rullante. Questo è possibile perché abbiamo mappato sulla pelle del rullante tutti gli accordi e le note del laúd ed è questo che ci permette di parlare di illusione!».
“Compro un Gucci, un Lamar, delle Sennheiser. Stavolta sono per me. Nessun regalo a nessuno. Getto il rolex nel primo cestino. Con una dignità enorme”. A distanziare ancor di più lo spettatore dalla narrazione e, inaspettatamente a toccarlo ancor più profondamente, ci pensano i sovratitoli. Ci chiediamo il perché di questo ulteriore significante in una messinscena peraltro essenziale dove predominano il buio della scatola nera – rotto solo dai neon, che inquadrano come un ring Alberto/Sid, a metà strada tra il boxeur e l’icona rock. Ma come ha fatto Malanchino a passare da Lenny Kravitz a Muhammad Ali?: «L’unico allenamento sono le prove: provare, provare, provare! Nonostante sia importante per me l’allenamento quotidiano, le energie trovate per sostenere questo personaggio sono arrivate prova dopo prova. Anche per la memoria è stato così. Ad un certo punto le parole, il fisico e i gesti, trovano una personale armonia che ti permette di compiere gli sforzi più improbabili senza che tu te ne renda conto. Bere molta acqua prima e dopo lo spettacolo comunque fa il suo!».
Ma torniamo ai sovratitoli: è Girolamo Lucania a spiegarci come sono arrivati a utilizzarli: «A un certo punto, vi è stata l’esigenza di inserire i sottotitoli dell’intero testo per una scolaresca di studenti inglesi, che sarebbero venuti ad assistere alle prove. E però, ci siamo resi conto che alcune frasi funzionavano aldilà dell’esigenza specifica. L’idea è stata quella di usare i sottotitoli per alcune frasi iconiche, da un lato, e quelle in inglese per la descrizione degli omicidi – che hanno una struttura cinematografica e sono volutamente ricostruiti attraverso frasi molto brevi. Dall’altro lato, occorreva che il protagonista non avesse un portato emotivo molto forte quando le recitava. Volevamo creare un distacco, una autentica distanza emotiva fra ciò che Alberto dice e le immagini crude degli omicidi che si ricreano nella mente dello spettatore. Paradossalmente quella distanza genera un’emotività di ritorno, nel pubblico, anche più intensa».
La voce del protagonista però, nel finale, cede le ultime note di dolore alla tromba di Ivan Bert. Sembra un grido che non è lecito proferire, per il quale non esistono parole adeguate e a cui siamo incapaci, come società, di rispondere.
A questo punto abbiamo – e avrete – capito come certe matasse, per sciogliere i nodi e srotolarsi senza spezzarsi, abbiano bisogno di un lavoro di squadra. In questo caso fatto «a otto mani» – quelle di Lucania ma anche di Max Magaldi, Malanchino e Bert, che chiude: «Ciò che si vede in scena è la sintesi di quanto siamo riusciti a gestire tutti insieme garantendo una coerenza tra parola e ritmo. Non va dimenticato che Alberto e Max sono corresponsabili dell’andamento ritmico e drammaturgico di uno spettacolo che per quanto sia tecnologicamente avanzato si potrebbe, comunque, definire analogico. Perché sono gli artisti a produrre la pulsazione», quella pulsazione vitale che è – semplicemente – teatro.
(1) La recensione di Sid-fin qui tutto bene:
venerdì, 1° settembre 2023
In copertina: Una scena dello spettacolo, credits Marzia Di Legge Benigna
Nel pezzo: Alberto Boubakar Malanchino. Per la seconda foto, durante le prove, credits Simone Vona