Il sapore e i mali della Sicilia in meno di un chilometro quadrato
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Ortigia è un’isola.
E invece no.
In realtà dipende.
Abitata già anticamente, i coloni corinziani decisero di creare un istmo artificiale e unirla al resto della Sicilia per favorire i commerci (popoli meno belligeranti e più sapienti). Il tiranno siracusano Dionigi, al contrario, scelse di fortificarla e cacciarne gli abitanti che non fossero militari – scelta condivisa in seguito dai Romani (popolo più belligerante fino a tempi nostri e meno sapiente). Tra alterne vicende, si dovrà arrivare all’epoca di Carlo V, quel Cinquecento dominato dalla potenza spagnola e contraddistinto dalla cacciata degli ebrei (che dovettero lasciare anche la Giudecca ortigiana, oggi uno tra i quartieri più turistici), per vedere Ortigia tornare isola, dato che l’Imperatore – temendola un ponte per gli Ottomani verso il suo regno – fece tagliare l’istmo.
Cinque secoli dopo, si accede a Ortigia attraverso due ponti, ravvicinati tra loro, e d’un tratto ci si immerge nella disperata e disperante bellezza della Sicilia – dove paiono raggrumarsi, con la ferocia del sangue versato per secoli, tutti i mali di questa Italia e tutte le sue potenzialità, sfruttate e rosicate fino all’osso o, al contrario, obliate in favore di ʻfavori’.
Come si può comprendere non una città, bensì un’enclave – quale è effettivamente Ortigia nel marasma caotico di Siracusa – in meno di una settimana? Impossibile. Si possono solamente restituire consigli di viaggio, scorci di bellezza ma anche pungoli di pensiero cosciente: è davvero questo il migliore dei mondi possibili?
E allora partiamo dal mito. Da quella dea Artemide (la Diana dei Romani) che, impietosita o stizzita o forse con moto femminista ante litteram, trasformò la ninfa Aretusa in fonte per sottrarla alle brame (che oggi sarebbero stupro) di Alfeo: quella fonte è tuttora presente a Ortigia e vi cresce naturalmente il papiro, tra le cui canne nuotano le papere. Mentre la fontana dedicata ad Artemide langue placidamente in piazza Archimede dai primi del Novecento, epoca coeva all’antico mercato. Tra i due luoghi d’interesse artistico, i resti del Tempio di Apollo, l’esemplare di stile dorico più antico dell’intera Sicilia, particolarmente suggestivo la sera quando si accendono le luci artificiali che ne esaltano i chiaro-scuri e lo stagliano sui palazzi della vecchia Ortigia non ancora restaurati. Alle sue spalle, però, ecco comparire la prima tra le molte contraddizioni dell’isola siciliana: abitazioni a due piani, recuperate solamente al pianterreno per ospitare soprattutto attività commerciali legate al turismo di massa e alla movida, mentre il piano nobile langue in attesa di restauro con finestre vuote come gli occhi di un tossico. L’antico mercato (dei primi del Novecento) giace anch’esso chiuso fin dal dicembre 2019 a causa di infiltrazioni. Le opere di ristrutturazione avrebbero dovuto essere concluse entro maggio 2021 ma a settembre 2022 il cancello è tuttora serrato.
Proseguiamo. Il lungomare di Ortigia è insieme profilo nobile e degrado ambientale e noi ripartiamo dal Castello di Maniace, che proteggeva il porto grande (oggi ʻinvaso’ da fuoribordo, l’immancabile nave da crociera alta 7 o 8 piani e piccoli velieri – privati o adibiti a tour organizzati – e da locali con terrazze gettanti sul mare, non proprio limpido), e le cui prime fortificazioni – senza resti attualmente rintracciabili – si possono far risalire all’anno Mille. Il castello di sicuro fu edificato circa due secoli dopo per volontà di Federico II di Svevia e dalla sua punta estrema è possibile risalire l’intera costa orientale di Ortigia, più selvaggia ma devastata dalle piattaforme a mare – costruite con tubi ormai arrugginiti e tavolati sui quali i bagnanti si ammassano come leoni marini al sole. Gli scogli, il mare e anche gli edifici, alcuni dei quali storici, sono deturpati, anzi stuprati dalla bruttura di uno sviluppo economico che punta in maniera miope e per nulla eco-compatibile su un turismo selvaggio e mordi e fuggi.
Lo skyline presenta l’inconfondibile profilo della Chiesa dello Spirito Santo, la cui facciata, a tre ordini, in bianco calcare ortigiano pare sciogliere al sole il suo lucore abbacinante mentre, alle sue spalle, si staglia la sagoma dell’unica cupola esterna siracusana. Ortigia deve la sua peculiare forma di arte barocca proprio alla dominazione aragonese-castigliana che sovrappose strati di gusto catalano e spagnolo a una matrice tipicamente siciliana.
Il Duomo incorpora, al contrario, i resti del tempio dorico dedicato ad Athena e convertito, come molti altri, in chiesa con l’avvento della religione cristiana. La sua imponente facciata in barocco siciliano ha un che di magniloquente e la sproporzione con la nettezza e la pulizia del precedente luogo sacro per i greci si fa cortesia superficiale, apparenza che vuole zittire con prepotenza la purezza di un passato talmente magnifico da non abbisognare magnificenza.
Tra edifici in abbandono, altri in ristrutturazione e altri ancora costruiti senza il dovuto rispetto per un centro storico che non può e non deve assoggettarsi a sembrare corso Buenos Aires per attirare i patiti dello shopping, spiccano alcuni palazzi in cui si respira la cura. Tra questi, Palazzo Beneventano Del Bosco, che si riconosce perché, aldilà del cancello, si intravedono un’originale serie di finestre e un porticato a tre arcate. Belli i palazzi che si affacciano sul lato orientale dell’isola, all’altezza dei due ponti che la congiungono a Siracusa – soprattutto al tramonto o con le luci notturne.
Ovunque, la sfilza di automobili parcheggiate deturpa le antiche vestigia e il turista se ne accorge ogniqualvolta voglia scattare una fotografia. E del resto, a Ortigia, le vetture che scorrazzano per le strade – anche quelle ufficialmente pedonali – sono troppe e di più. I centri storici solo per pedoni e ciclisti paiono una chimera, mentre le auto elettriche ti sfiorano quasi il braccio perché, silenziose come sono, non si riesce sempre a schivarle in tempo (a Ortigia come a Lucca).
Cosa ne sarà di Ortigia? Qualche antica dimora, la suggestione della storia che si respira laddove restano gli edifici che ormai sono pericolanti e che finiranno forse per diventare, come tanti troppi altri, B&B, hotel e mini-appartamenti per turisti (come noi). Molte vie ormai dedicate alla movida notturna e alla paccottaglia Made in China (o in Thailandia). Bancarelle che vendono ciondoli da 3 euro e occhiali da sole a protezione 0. Pupi, dramma antico, storia potranno controbilanciare la deriva consumistica e la svendita di un patrimonio di bellezza? O i pochi ortigiani rimasti saranno additati (come dalla guida che ho sentito io, con le mie orecchie) quali esempi di coloro che parlano ancora il siciliano antico e vivono come una volta – quasi fossero quei Masai o quei beduini che vediamo nei viaggi organizzati in Africa o nel deserto maghrebino? Forse tra qualche anno avremo la certezza che un altro pezzo di Italia sarà scomparso per far spazio al cosiddetto ʻprogresso’, che sa solo di omologazione. La stessa che ha trasformato l’antico quartiere Garibaldi di Milano in un coacervo di grattacieli uguali a quelli di qualsiasi altra metropoli al mondo. Ma anche il restauro, se non è poi finalizzato a creare abitazioni per residenti ma solo per turisti di passaggio, depaupera il sostrato storico e culturale di qualsiasi centro urbano. Ortigia sopravviverà alla nuova barbarie?
Dov’è finita la meglio gioventù siciliana?
venerdì, 18 agosto 2023 (visita effettuata a settembre 2022)
In copertina e nel pezzo: Foto di Simona Maria Frigerio (vietata la riproduzione)