No, resta un pirla su un palco
di Simona Maria Frigerio
Sarà quasi mezzo secolo che si ridiscute (dopo le innovazioni del primo Novecento) la figura dell’artista – sia performativo sia figurativo – anche se tale aggettivo è ormai troppo limitato rispetto ai linguaggi e alle tecniche in uso. E una certa corrente critica, anche in Italia, ha di fatto sdoganato amatorialità e approssimazione – quando per convinzione e quando per pusillanimità ha smesso di criticare per accettare passivamente plaudendo o, addirittura, cercando di spiegare/giustificare l’improponibile (come Gatto Silvestro quando tenta di arrampicarsi sui vetri).
Nell’arte cosiddetta figurativa – o deputata a gallerie e musei sarebbe forse più esatto, visto che pare essere il luogo a legittimare la forma artistica – si è accettato, con la cosiddetta arte concettuale, il fatto che chi firma non sia colui o colei che fa. Artigiani e operai, incisori e fabbri, ricamatori e conciatori, modellisti esperti di autocad e ingegneri mettono il proprio sapere, frutto di studio ed esperienza, e le proprie capacità tecniche e pratiche al servizio dell’artista, che si crogiola di tale appellativo perché ha l’idea (e poi ne incassa i frutti). Sebbene quell’idea non sappia svilupparla né tanto meno realizzarla. A paragone potremmo pensare a quegli autori di best seller che inventano un personaggio protagonista e uno antagonista e studiano alcuni meccanismi compositivi ai quali, poi, ghost writer e studenti di scrittura creativa prestano le proprie capacità per sviluppare trame e cliffhanger ad hoc a ogni fine capitolo.
Nell’universo della performance art non ci addentreremo, avendolo già fatto a più riprese, e ci dirigeremo verso quegli attori e attrici, danzatori e danzatrici che, invece di allenarsi come buoni atleti del palcoscenico, studiare per anni e impegnarsi in maniera professionale pensano che il semplice salire su una pedana, appena rialzata, li metta al di sopra delle capacità medie dello spettatore.
Sempre più spesso, dentro e fuori dai teatri (soprattutto alcuni ex Stabili), ascoltiamo declamatori ammorbanti ringhiare o gemere credendo di recitare; mentre frequentatori di sedicenti accademie di danza appaiono a fianco, o al posto, di professionisti sui palchi dei festival. La cosa peggiore è quando la flebile trama (o drammaturgia), magari privata di un decente dialogo o di una serie di gesti significanti, è addirittura spazzata via dall’impeto dell’improvvisazione. Azione, quest’ultima, che come ogni professionista sa, per riuscire ha bisogno di lungo studio, oltre a una buona tecnica e serie capacità di chi se ne fa carico. Ma non solo, occorre un progetto compositivo e narrativo che regga e inquadri la fragilità dell’agire – senza gli appigli precisi di tempi, parole, ritmi e movimenti preordinati nello spazio.
Improvvisare è l’arte più difficile e tuffarvisi senza saper nuotare genera tedio, quando non fastidio. E sempre per fare un paragone, sarebbe come mandare alla maratona di New York un quintale di carne che stenta a muoversi da una scrivania: ma in quel caso, ci preoccuperemmo del suo cuore e gli prescriveremmo almeno qualche mese di allenamento prima della corsa.
Anche l’uso e abuso di diversamente abili in scena, dei bambini, dei reclusi, lascia perplessi. Ovviamente il teatro, la musica, lo studio, la pittura, l’apprendimento di una professione, eccetera sono tutte attività propedeutiche al reinserimento sociale del detenuto e vanno sostenute, come vanno sostenute quelle che si attuano in centri diurni per la malattia psichiatrica, nei centri di riabilitazione post-traumatica, per gli afasici, e così via. Ma una cosa è dare queste possibilità di azione cognitiva e creativa a chi può aver perso – o non avere mai avuto – alcune capacità di movimento, fisiche, mentali, eccetera. Un’altra mettere in scena la malattia pensando che il solo farlo debba essere accolto da plauso. Un atleta disabile scende in pista perché atleta non perché disabile. Un danzatore disabile sale su un palco perché danzatore non perché disabile. Ma il confine tra sfruttamento dell’immagine o della patologia contando sulla cattiva coscienza del pubblico e, dall’altro lato, sviluppo di una ricerca e un progetto coerenti è molto labile. Così come i risicati fondi per il teatro (e, in generale, la cultura e le arti) mettono sempre più artisti e compagnie nella situazione di preferire l’assistenza sociale a una coerente scelta poetico-politica.
E chiudiamo in realtà con un appunto sulla performance art, anche se avevamo scritto di non volerlo fare. Eppure proprio quest’ultima arte, effimera come il teatro ma deputata a luoghi istituzionali, pone più che mai domande. Per incidere, politicamente e artisticamente, occorre occupare le istituzioni, così come si rivendicava, qualche anno fa, con lo slogan Occupy Wall Street, l’occupazione della Borsa statunitense, intendendo dominare con altri obiettivi il mondo della finanza. Contestare dal di fuori è stato dirompente mezzo secolo fa, ma oggi se le istituzioni sono totalmente in mano alla classe borghese è anche colpa di chi non si è reso conto che lasciare il campo, in Italia, non sempre permette la realizzazione di spazi alternativi. Chiudere i manicomi, traslando, non basta, se non si creano centri diurni, case famiglia, professionisti e spazi di sanità pubblica per il supporto psicologico dei disabili psico-sociali e delle loro famiglie. Fare arte o teatro, però, non significa lanciare uno slogan o indottrinare l’audience come tenta di fare la tivù. Bensì creare testi, situazioni, opere e azioni o performance d’arte, ovvero in grado di scardinare il nostro modo di pensare, incidendo a un livello più liminale o più intellettuale. Lo straniamento brechtiano o l’umorismo pirandelliano restano più attuali che mai. Così come qualsiasi forma teatrale o tecnica e linguaggio artistici che ci mettano in contraddizione, che sollecitino dubbi, che aprano a visioni del reale secondo prospettive inusuali.
Rivendicare professionalità – per gli artisti italiani – significherebbe riaffermare il valore di un ruolo. Persino rivendicare di stare dentro le istituzioni può essere la chiave per cambiare i paradigmi su cui si regge l’estetica borghese, ma occorre mestiere, altrimenti l’urlo (come la lattina di salsa) rischia di essere sterile protesta che si esaurisce nello scandalo (e attrae click su chi lo fa e non sul messaggio che vorrebbe comunicare), senza incidere mai nel profondo.
venerdì, 4 agosto 2023
In copertina: Foto di Neo Tam da Pixabay.