Kilowatt Festival. Report del 20 luglio
di Simona Maria Frigerio
Prosegue il Convegno sul teatro digitale, contenitore di istanze e visioni molto distanti – dalla digitalizzazione di alcune pratiche organizzative alla messa in streaming delle performance teatrali; dall’ideazione di ambienti digitali nei quali e con i quali il performer può interagire alla creazione artistica in digitale, intesa come medium espressivo o materia prima tout-court alla stregua della tempera o della creta, passando per le opportunità e i limiti dell’intelligenza artificiale e le nuove vie della robotica. Nel mentre, in una saletta raccolta sempre all’interno del Chiostro di Sant’Agostino, Neja Tomšič presenta Opium clippers, nella versione in italiano (per dieci spettatori a replica) ed è lì che la nostra redazione si sposta.
Interessante il racconto dell’uso dell’oppio che fu introdotto dai portoghesi in Cina e che portò – nel corso dell’Ottocento – non solamente a due guerre promosse in primis dal Regno Unito (nella seconda, spalleggiato dagli States) perché i cinesi ne legalizzassero il commercio, così da arricchire la Compagnia Britannica delle Indie Orientali (e l’Impero della regina Vittoria), ma anche a un flusso di schiavi, capitali, investimenti e occupazione di territori altrui da parte dei ‘mercenari’ inglesi – dato che la succitata Compagnia aveva al soldo un proprio esercito privato, col quale conquistava i Paesi (o parti di essi) che decideva di sfruttare.
Storia di colonialismo, razzismo, spoliazioni, arricchimento illecito di famiglie che, oggi, continuano a detenere ricchezze e potere nel mondo capitalistico, e l’arroganza tutta occidentale di pensare e agire per garantire i propri interessi a scapito delle altre popolazioni – depredandole delle loro risorse naturali e sfruttandone il potenziale umano.
Un racconto che sa molto di ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi: con l’egemonia occidentale che vuole continuare a dominare il mondo per garantire solo e sempre se stessa (o meglio, una esigua fetta di popolazione all’interno dei propri confini). Narrazione scandita dalla preparazione e dall’offerta del tè (commercio che andò di pari passo con quello dell’oppio) e dalle immagini, dipinte dalla stessa Neja Tomšič su una serie di teiere, le quali, iconograficamente, rappresentano personaggi e fatti narrati. Musica rilassante (forse troppo) in sottofondo, luci tenui, silenzio.
Garbato e intelligente, il testo svela retroscena storici e politici oggi più pregnanti che mai. Unica pecca: la monotonia della voce dell’interprete italiana che non sa regalare quell’emozione in più propria di una sapiente resa attorale.
Il secondo spettacolo della giornata festivaliera al quale assistiamo è, come sempre, in piazza del Duomo ed è un eccellente esempio di nouveau cirque. Daniel Warr presenta un suo ‘cavallo di battaglia’, Dado classic. Genere considerato per bambini e, al contrario, tout poublic, spesso snobbato dalla critica italiana – provincialmente ancorata alla ‘tragedia’ della presunta superiorità del drammatico (troppo spesso melo-drammatico) – è, al contrario, forma teatrale che richiede grande abilità tecnica e ideativa, una buona vena fantasiosa, una poetica stringente, capacità mimiche e attorali, l’abilità di narrare attraverso il gesto/significante, più e meglio di quella danza contemporanea che è ormai un coacervo di movimenti scomposti nello spazio.
Daniel Warr convince con un semplice palloncino, crea empatia giocando con un bimbo, usa la musica come contrappunto ironico o sottofondo emozionale, comunica utilizzando una manciata di parole che appartengono a tutte e a nessuna lingua e, come il Gobbo di Notre Dame, ci coinvolge teneramente in un percorso giocoso finché il palloncino rosso scappa in cielo insieme al nostro sogno di bambini, insieme alla nostra infanzia ritrovata, insieme all’attimo fuggente.
Chapeau.
In chiusura di serata un esempio di cosiddetta danza digitale (che si riallaccia alla varietà di tematiche emerse nel Convegno coevo).
Il gruppo nanou propone due facce della medesima medaglia o due punti di osservazione per la medesima performance in Them – immagine movimento.
Nato come diretta streaming per Residenze Digitali 2022, mette a confronto le diverse visioni di una medesima scena sulla quale si muovono due performer (che eseguono non gesti/significanti bensì movimenti più o meno in libertà), lasciando allo spettatore (originariamente online) la possibilità di scegliere tra quattro inquadrature – il che non pare una grande conquista. Il risultato teatrale, poi, mostra tutti i limiti di questo ‘teatro digitale’.
In primis, lo split screen è tecnica televisiva e cinematografica sperimentata ampiamente già dagli anni 60 del Novecento. In secondo luogo, le riprese (di cui due fisse: dall’alto centrale e dall’alto laterale) sono perlomeno funzionali a mostrare il perché dei movimenti a terra dei performer – i cui corpi si confrontano con le linee dei due quadrati che si intersecano, disegnati sul palco. La terza ripresa, che mostra ciò che vede una action cam manovrata da una terza performer, anch’essa in scena, è tecnica ormai abusata. La quarta, ossia la ripresa alle spalle del pubblico che osserva i danzatori, sul palco, esibirsi dal vivo e, contemporaneamente, i tre schermi posizionati a varie altezze in proscenio che propongono le succitate riprese, aggiunge anche meno: teste e buio in primo piano, un coacervo di immagini in secondo piano. La seconda parte dell’esperienza (la prima, per l’altra metà del pubblico, che ruota tra le due postazioni) richiede il sedersi in quella stessa platea (del quarto screen, per intenderci) a osservare i performer dal vivo e le tre riprese su altrettanti schermi. Quale il significante e quale il significato?
Dissertazioni patafisiche sul teatro digitale
La sensazione che si ha (ma qui il discorso si allarga e non riguarda esclusivamente o in particolare il gruppo nanou, che abbiamo apprezzato in altre performance) è quella che si voglia teorizzare/giustificare poeticamente una necessità creativa che non esisteva e non sussiste. Il Covid, prima, vietando la compresenza e l’uso del palcoscenico, e i finanziamenti a pioggia regalati per una quanto mai fantomatica digitalizzazione del teatro (come del mondo del lavoro tout court) stanno rendendo sempre più appetibile per chi operi dal vivo (artisti, organizzatori, eccetera) inventarsi una ricerca al mero scopo di ottenere finanziamenti. Si è, in pratica, ribaltata la base del fare teatro (o del fare arte). Invece di partire da una necessità creativa, sviluppare un progetto coerente, ottenere le competenze tecnologiche e realizzare una qualsivoglia forma artistica sulla base della quale chiedere anche finanziamenti pubblici adeguati – ci si inventa una necessità creativa partendo dall’assegnazione di fondi elargiti su basi teoriche (quei progetti che, spesso, promettono il mondo e restituiscono un granello di sabbia).
Questo teatro cosiddetto digitale, cos’è? Il vecchio esperimento della tecnologia video in teatro, utilizzata nel teatro degli anni Novanta, seguendo la moda di quel momento e i fondi anche europei che la sollecitarono? Sappiamo tutti come andò a finire: azzerati i fondi, si tornò ognuno alle proprie specificità creative (che ‘possono’ includere tali tecnologie – più o meno artigianali – ma non ‘devono’ farlo per forza).
Creare un ambiente digitale come scenografia virtuale con la quale si esprime, nella quale si muove e con la quale interagisce il performer (attore o danzatore) e, magari, il pubblico impone la necessità creativa (come già scritto), la capacità tecnologica e fondi adeguati (che non possono certo essere quelli di cui si discute oggi e che paiono rilevanti a chi lavori in teatro solo perché non si ha la cognizione del costo reale di un prodotto digitale di qualità. E per questo occorrerebbe informarsi con gli sviluppatori del settore game o a fini commerciali). Pensiamo, ad esempio, a Segnale d’allarme. La mia battaglia in VR con Elio Germano: la giustificazione della visione in 3D di un monologo sul Mein Kampf può essere quella che, in questo modo, si può fare a meno di Elio Germano in carne e ossa, tagliando i costi di distribuzione/ospitalità? Stesso discorso persino per un capolavoro in 3D e coreografico come Tango de soledad di Billy Cowie. Quale il valore aggiunto del 3D rispetto a qualcosa che si vedrebbe nel medesimo modo dal vivo?
E passiamo a un altro argomento. Quello sguardo anarchico di cui avevamo accennato per la versione digitale di Drone Tragico (1), e di cui ha parlato patafisicamente Carlo Infante nel suo intervento al Convegno, non può più esistere in questo cosiddetto teatro digitale. Come nel cinema hollywoodiano stiamo assistendo a una spettacolarizzazione sempre più spinta che presuppone forti investimenti da parte delle Major e, di conseguenza, una egemonizzazione dello sguardo (poetico ed etico) da parte della classe dominante / capitalistica, non si può pensare che un’Europa che oggi mira al controllo di ogni forma critica o di resistenza al sistema e al pensiero egemonico unipolare e bellicista, possa riversare fondi che promuovano la libertà degli artisti e degli spettatori. Un esempio chiaro è, passando al mondo del lavoro, il cosiddetto smart working, che utilizza appositamente il termine smart, con rimando alla libertà (o schiavitù?) del nostro strumento ‘preferito’, il cellulare, il quale ci permette di (o costringe a?) essere sempre connessi, e che serve a rendere la classe lavoratrice sempre più parcellizzata, meno sindacalizzata, meno interconnessa socialmente, più individualista e insieme più ricattabile – oltre che più falsamente produttiva perché privata di quello scambio di idee e know how che la compresenza fisica favorisce e che, via digitale, sappiamo tutti (dagli insegnanti in Dad ai manager in conference call) è, al contrario, farraginoso, lento e sfibrante.
Ritornando al teatro, cosa faranno (non gli accademici e critici che possono pontificare e auto-celebrarsi facendolo) coloro che vivono di questo antico mestiere? Rincorreranno la cosiddetta scenografia digitale, tipo pseudo-video, perché così otterranno maggiori fondi pubblici che non usando i vecchi fondali – magari dipinti a mano e che avrebbero avuto un senso poetico/estetico pregnante rispetto a un certo spettacolo ma minor punteggio per i fondi Fus, snaturando il senso del proprio lavoro ma potendo fare finalmente una piccola ‘cresta’ con la quale coprire, magari, debiti contratti a causa dei ritardi nell’elargizione dei fondi assegnati?
Ovviamente questo è solo un esempio di un caso estremo, ma in un mondo povero come quello teatrale può sembrare di ‘arricchirsi’ quando, in realtà, si è deviati dalle reali esigenze artistiche (di forma come di contenuto) da un potere che egemonizza la cultura sia quando impone tematiche (decolonizzazione museale, russofobia, gender fluid e quant’altro) sia quando impone gli strumenti che, nella loro roboante vacuità, possono anche fagocitare i contenuti e azzerare quelli sovversivi (e qui torniamo a quel cinema hollywoodiano ormai sideralmente lontano anche solo da 2 sotto il divano, dove si poteva accusare la Cia di organizzare golpe e uccidere leader politici sgraditi a Washington).
La seconda giornata si chiude con molte domande, nessuna risposta e l’augurio che gli artisti che usano il digitale come medium e materia prima (concetto che abbiamo già espresso) per regalarci visioni che, la realtà, non può restituirci (quali Lino Strangis) continuino il loro percorso, quello sì, anarchico.
Gli spettacoli si sono tenuti nell’ambito di Kilowatt Festival 2023:
giovedì 20 luglio 2023, ore 15.00
Chiostro di Sant’Agostino
Glej Theatre / Neja Tomšič presentano:
Opium clippers
(per 10 spettatori, in italiano)
ore 21.50
piazza del Duomo
Daniel Warr presenta:
Dado classic
di e con Daniel Warr
organizzazione e tecnica Casey Bundock
ore 23.00
Auditorium di Sant’Agostino
gruppo nanou presenta:
Them – immagine movimento
coreografia Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci
con Marina Bertoni e Michele Scappa
scene e luci Marco Valerio Amico
camera mobile Rhuena Bracci
(danza digitale)
(1) https://www.inthenet.eu/2023/07/28/solo-quando-lavoro-sono-felice-seguime-drone-tragico/
venerdì, 4 agosto 2023
In copertina: Neja Tomsic in una foto di Kaja Brezocnik