La deriva del teatro italiano
di Simona Maria Frigerio
In queste ultime settimane è capitato alla nostra redazione di assistere all’esibizione in piazza del Duomo e della Cisterna, a San Gimignano, del gruppo amatoriale di percussionisti Bandao, coreografati da Michelangelo Pistoletto – performance organizzata da Galleria Continua. E, dopo alcuni giorni, allo spettacolo – nel prestigioso Teatro Era di Pontedera – intitolato Gli assetati, creazione collettiva con il patrocinio del Comune di Pontedera, realizzato in collaborazione con Accademia Musicale Pontedera, Utel-Università del Tempo Libero, Spazio Nu e Cooperativa sociale Arnera. Sebbene non ami la nostra Redazione fare confronti, l’occasione ci ha fatto riflettere.
Dopo aver visto entrambe le performance, ci siamo posti alcune domande relativamente alla qualità di quanto proposto, al luogo e al fine della performance, ai tempi e all’abilità necessari per preparare un’esibizione.
Partiamo dallo spazio. La piazza, scelta da Bandao, è luogo deputato alla collettività, al vivere sociale, alla polis. Perfetta quindi per ospitare una ventina (e oltre) di percussionisti che hanno saputo coinvolgere la cittadinanza in un rituale festoso di condivisione musicale e ludica. Il teatro, al contrario, dovrebbe essere – come la sala operatoria – luogo deputato a una speciale operazione, ossia la messinscena da parte di professionisti di un testo o di una coreografia (per semplificare il concetto al massimo). Ora, offrire il palco a non professionisti significa non tanto socializzare lo spazio teatrale (che si potrebbe socializzare meglio con biglietti a prezzi politici) quanto declassare la professionalità di chi dovrebbe calcarlo: in fondo, come abbiamo scritto più volte, se tutti possono recitare, fare musica o danzare, a cosa servono anni di studio e ore di prove per prepararsi a diventare professionisti della scena? E come si educherà al gusto chi non abbia mai sentito una parte ben recitata o, almeno, ascoltato un attore con voce limpida e dizione chiara, o visto un balletto o un concerto comme il faut?
E passiamo al tempo. Anche definirsi amatoriali non significa darsi all’improvvisa (anzi, tale considerazione sarebbe sbagliatissima dato che la cosa più difficile da ottenere in teatro è un’improvvisazione che renda, e per ottenerla ci vogliono solitamente lunghe prove ed esperienza). Bandao esiste dagli anni 90 e, sebbene il collettivo sia in parte cambiato dalle origini, si sente l’affiatamento tra i percussionisti e l’allenamento: le dure ore di prova non si improvvisano, si affrontano. Totalmente diverso il discorso de Gli Assetati, dove persone le più disparate si sono incontrate per le prove in un breve lasso di tempo e dove si è scelto di non rispettare nemmeno un discorso drammaturgico unitario per rendere omogeneo ciò che non lo era, facendo al contrario esibire tre diverse ‘formazioni’ (adulti, bambini e coro) così da restituire l’impressione di tre ‘saggi di fine corso’ proposti contemporaneamente, sullo stesso palco, senza soluzione di continuità (ma con una stridente discontinuità poetica ed estetica).
E veniamo alla qualità. Indubbia quella di Bandao, alquanto discutibile quella de Gli Assetati. In primis, perché Biagini & Co. hanno scelto brani tratti dall’opera del poeta francese René Daumal (decisione abbastanza pretenziosa)? Bisogna essere non solamente dramaturg in grado di ricomporre un filo narrativo o logico/formale con frammenti disparati e complessi; e occorrerebbe avere interpreti dotati, per rendere semplici frammenti con dizione chiara e interpretazione appropriata. Anche per i brani musicali de Gli Assetati varrebbe il medesimo discorso: perché sono stati scelti? Quale avrebbe dovuto essere il loro contenuto e perché una tale successione? Non si respira coesione né ritmica né musicale (a differenza dell’ottima restituzione dei Bandao). Infine, i coordinatori del progetto in scena, ossia Mario Biagini, Vicente Cabrera o Viviana Marino, se è vero che tengono le fila, d’altro canto sono la dimostrazione vivente di quanto scriviamo: la loro qualità in scena offuscava obiettivamente le prove attorali e canterine degli ‘amatoriali’. Il coro è risultato un inserto posticcio – peccato. I bambini farebbero meglio a non cimentarsi con i violini ma, anche per la giovane età e la mancanza di ritmo, servirebbe di più avvicinarli alla musica con percussioni e un’educazione musicale improntata al gioco. Riflettori accesi e applausi scroscianti di genitori e nonni possono essere altamente diseducativi: dando eccessiva importanza a un successo tanto effimero quanto intrinsecamente falso.
Per quanto riguarda il Teatro Era – e tutti i teatri italiani sotto utilizzati (cattedrali nel deserto come troppe fabbriche sorte nel Meridione d’Italia del Secondo Dopoguerra) – ci chiediamo: si può riqualificare un teatro attraverso ‘dilettanti allo sbaraglio’ che lo riempiono di parenti e amici grazie al cosiddetto effetto ‘recita di fine anno’? Per quest’ultima non basterebbe una palestra o un auditorium scolastico? Un teatro come l’Era, con una storia decennale alle spalle, con spazi per prove e residenze, con un bacino d’utenza che si allarga al territorio pisano e che, in passato, è stato attivo sia nella ricerca teatrale sia nell’ospitalità di realtà internazionali – dall’Odin Teatret, diretto da Eugenio Barba, al Théâtre des Bouffes Du Nord di Peter Brook; dalla School of Dramatic Art, diretta da Anatolij Vassiliev, all’Instytut im. Jerzego Grotowskiego di Wroclaw – non è il teatrino scolastico per il saggio di fine corso.
Socializzare il teatro, come si fece negli anni 70, significava portare il teatro nelle scuole, nelle fabbriche, nelle piazze. Dare ad attori e registi la possibilità di incontrare operai e studenti, confrontandosi su temi politici, civili e di poetica. Erano i professionisti a uscire dai teatri per incontrare la società civile e creare un humus critico e condiviso. Purtroppo il contrario, accendere i riflettori su bambini e dilettanti va in direzione intrinsecamente contraria.
L’abbassamento della qualità non giova né all’etica né all’estetica. Pare solamente l’ennesimo tentativo da parte della politica di riconquistare le masse quasi che regalare 15 minuti di celebrità possa ricompensare per una vita di disoccupazione, un Paese in recessione, lo scollamento più totale fra le esigenze della cittadinanza e i diktat della ‘stanza dei bottoni’.
venerdì, 14 luglio 2023
In copertina: Bandao, a San Gimignano, poco prima dell’esibizione in piazza. Foto di Luciano Uggè