Come siamo bravi a ‘raccontarcela’
di Luciano Uggè
Sotto l’ombrellone la penna corre veloce, rincorrendo le poche nuvole erratiche in cieli azzurri. Sdraiati pigramente al sole vengono in mente associazioni di idee che, d’un tratto, rivelano tutta l’ipocrisia che si nasconde dietro al politically correct.
In questi ultimi anni va molto di moda dibattere, nei centri della cultura accademica, di ‘decolonizzare’ i musei. Ovviamente molte istituzioni museali possiedono collezioni acquisite con metodi dubbi (pensiamo ai Marmi del Partenone al British Museum, che potrebbe semplicemente restituirli ai legittimi proprietari) oppure donate da mecenati che, spesso, hanno costruito i loro patrimoni (quando non le loro collezioni) grazie ai ‘benefit’ coloniali. E non va nemmeno sottaciuto che l’arte africana o dei nativi americani o di altre minoranze etniche spesso è esposta in musei etnografici dato che le loro opere non si pensa possano essere appese sulle pareti di gallerie o musei d’arte moderna o contemporanea.
D’altro canto, le idee proposte dal mondo culturale occidentale per cambiare tale situazione non convincono per niente. Si va dall’invitare gli ultimi rappresentanti delle comunità indigene per disporre più appropriatamente i manufatti o trattare con maggior rispetto i resti umani ritrovati nei loro luoghi di sepoltura – al che ci si chiede se si chiederà il medesimo beneplacito ai napoletani per i calchi di Pompei o ai cairoti per la mummia di Tutankhamon; all’imporre che i curatori delle esposizioni appartengano al medesimo gruppo etnico degli artisti in mostra (1) – al che si potrebbe credere che solamente un fiorentino doc possa comprendere e insegnare la Commedia dantesca, solo un omosessuale (con Aids) abbia i titoli per descrivere il lavoro di Keith Haring, o un tossicodipendente per leggere e interpretare i paradisi artificiali di Baudelaire o la ‘scimmia’ di Burroughs. Lo studio, la passione, la comune matrice antropologica, il gusto e l’affinità spirituale non contano più: tanto meno il dialogo tra culture (ognuno capisce i propri ‘simili’ e gli altri restano al ‘palo’?).
Ma se invece ponessimo attenzione ad altre cose? Quanto costa studiare e frequentare i luoghi della cultura (teatri, musei, sale da concerto, conservatori, università)? Quali classi sociali hanno la possibilità di farlo? E quegli stessi Stati che disquisiscono con i nativi su come disporre manufatti o invitano l’artista afro perché fa politically correct, hanno un sistema socio-economico che permette a tutti i cittadini di accedere alle arti e alla cultura? O rinchiudono i nativi in riserve e ai margini per poi ‘rispolverarli’ a quando occorre puntarsi la medaglietta al petto? Pensiamo che gli indigeni australiani “vivono spesso in condizioni di ‘spaventosa’ povertà e i loro tassi di incarcerazione sono fra i più alti nel mondo industrializzato” (2), mentre gli afroamericani non avrebbero dovuto inventarsi il Black Lives Matter (3) se al “Yes, We can” Obama avesse dato seguito con una politica socialdemocratica (non solo per gli afroamericani ma per tutti gli statunitensi che languono in povertà, ossia quell’11% che vive con meno di 900 Euro al mese, mentre la metà degli stessi non ha del tutto entrate).
Johnny Clegg: né bianco né nero
Il cantautore sudafricano è un esempio ancor più lampante dei nostri pensieri in libertà.
Bianco, cresciuto nel Sudafrica dell’Apartheid, fin da adolescente ha frequentato i compatrioti neri e da loro ha imparato la cultura zulu e a danzare, e con loro ha fondato due gruppi musicali e ha scritto canzoni che miscelavano i ritmi africani con la musica celtica.
Sebbene in Sudafrica non potesse esibirsi in pubblico con il gruppo formato da musicisti neri, non si è arreso e nel 1987 ha avuto il coraggio di scrivere – ed è riuscito a far pubblicare – Asimbonanga, canzone che è diventata una specie di inno per coloro che lottavano per la libertà e l’uguaglianza dei diritti dei sudafricani neri. Quando non si poteva nemmeno nominare Nelson Mandela, quella canzona invocava la sua presenza e quella di Steve Biko (deceduto per lesioni cerebrali inflittegli durante la detenzione), Victoria Mxenge (infermiera e ostetrica, assassinata da Marvin Sefako, alias Bongi Raymond Malinga) e Neil Aggett (medico e sindacalista bianco, ucciso da membri dell’Apartheid Security Branch durante la detenzione). Quattro attivisti contro l’Apartheid, di cui uno detenuto e tre morti rispettivamente nel 1977, 1985 e 1982, il cui nome era stato cancellato dalla cultura e dal potere ufficiali. Asimbonanga fu, ovviamente, vietata dalla tv e dalla radio statali sudafricane.
Eppure il Sindacato dei musicisti britannico impedì a Clegg di suonare al Londono FreedomFest, un concerto in onore di Mandela, andato in scena nel 1988. Questo perché era necessario, secondo gli inglesi, sostenere il boicottaggio del Sudafrica. L’ipocrisia del sindacato britannico fu tale da non rendersi nemmeno conto che proprio il Governo di Ronald Reagan e quello di Margaret Thatcher erano stati per anni contrari alle sanzioni e a qualunque forma di boicottaggio in quanto – ufficialmente – avrebbero avuto ripercussioni negative anche sulla popolazione nera (i medesimi timori non si verificheranno, in seguito, con gli iracheni, gli iraniani, i siriani né tanto meno sono valsi con i cubani).
La rivincita di Clegg? Nel 1999, durante un suo concerto, mentre cantava Asimbonanga arrivò sul palco lo stesso Nelson Mandela, finalmente libero e presidente del Sudafrica. Buon ascolto!
(1) La sterile polemica contro il Brooklyn Museum: https://www.frieze.com/article/brooklyn-museum-criticized-hiring-white-woman-african-art-curator
(2) Uno tra i tanti articoli sull’argomento: https://www.swissinfo.ch/ita/tutte-le-notizie-in-breve/australia–onu—allarmante–detenzione-aborigeni/43082720
(3) Il sito web del movimento nato nel 2013: https://blacklivesmatter.com/
venerdì, 23 giugno 2023
In copertina: Johnny Clegg nel 1992, foto di Gorup de Besanez (particolare), in: https://it.wikipedia.org/wiki/Johnny_Clegg