Passione cerebrale
di Simona Maria Frigerio
Suggestioni British per la trasposizione operistica di Der Tod in Venedig di Thomas Mann, firmata da Benjamin Britten, in scena alla Scala di Milano. John Graham-Hall da standing ovation.
L’opera lirica non è solo melodramma. Per quanto tale affermazione possa sembrare scontata, in realtà il pubblico nostrano è sempre un po’ restio ad abbandonare, per una sera, le arie ormai note, optando per un autore straniero e, per di più, contemporaneo (sebbene Benjamin Britten sia deceduto nel 1976). Se a tutto ciò ci aggiunge la scelta del compositore di privilegiare, per il tenore, il recitativo accompagnato dal pianoforte (un John Graham-Hall semplicemente perfetto nel ruolo di Gustav von Aschenbach) perché, attraverso i suoi lunghi monologhi, possa dispiegarsi appieno la materia filosofica (l’eterno conflitto tra razionalità e passione, ragionevolezza pura apollinea contrapposta al sentimento ebbro di sé dionisiaco) che il testo sottende; ebbene, ecco che la proposta della Scala può sembrare davvero ostica, soprattutto ai cultori del melò.
Peccato. Perché Death in Venice è, al contrario, un gioiello. Da ammirare, sapendo però che è doveroso dedicare attenzione a ciascuna sfaccettatura, prima di poterlo giudicare nel suo complesso.
Innanzi tutto, le scelte registiche dell’eccellente Deborah Warner, coadiuvata ottimamente, per le scene, da Tom Pye e, per i costumi, da Chloe Obolensky, e supportata dalle doti d’interprete di Graham-Hall. Il tenore infatti – sottoponendosi a un autentico tour de force attorale e canoro – si muove all’interno di una scenografia essenziale, raffinata, che restituisce appieno le atmosfere dell’epoca senza appesantire il palco con un’accozzaglia di orpelli e oggetti di scena. Al contrario, grazie al sapiente gioco di luci (di Jean Kalman) e colori, basta un uomo con in mano un bastone che finge di remare e Aschenbach, seduto, che si dondola lateralmente e si deterge la fronte con un fazzoletto, per ritrovarsi immersi nella torrida calura lagunare estiva. Le scene d’insieme e le esecuzioni corali, perfettamente orchestrate, sanno restituire con naturalezza la confusione delle calli affollate dai turisti, le bravate gaudenti dei giovinastri in viaggio per mare, il cicaleccio insulso delle conversazioni dei villeggianti – tratteggiate con fine ironia dal librettista, Myfanwy Piper.
Oltremodo pertinente anche la scelta di Britten di trasformare Tadzio nell’immagine stessa della bellezza, facendo interpretare questo ruolo – così delicato – a un danzatore che, per sua natura, non ha parola ma è movimento allo stato puro – in un spazio delimitato ma non limitante, grazie anche alla scelta coreografica e registica (rispettivamente, Kim Brandstrup e, ancora, Deborah Warner) di trasformare, a tratti, la danza in un teatro d’ombre, dove le silhouette di Tadzio e dei suoi compagni di giochi raggiungono un’autentica purezza estetica: quasi arabeschi tratteggiati su un foglio bianco (simili nell’essenziale bellezza e dissimili nella realtà oggettiva dai tratti coi quali lo scrittore si esprime sulla carta).
E ancora, il gusto tipicamente British ma perfettamente pertinente (dato che questa è Death in Venice di Benjamin Britten e non l’originale racconto di Mann né la trasposizione cinematografica di Luchino Visconti) che dona quel tocco inconfondibile (un po’ alla Edward Morgan Forster) fatto di soffici mussoline; rimandi alle disquisizioni in stile Oxbridge, da Socrate all’amore platonico tra maestro e discepolo; turisti in stile Baedeker; e, per sfondo, quell’Italia mediterranea, torrida, malsana, cenciosa e sublime di tanta letteratura inglese (e non solo).
Spettacolo assolutamente imperdibile con l’avvertenza di non aspettarsi arie orecchiabili o rime prevedibili. Qui il cuore non fa rima con amore.
Unici appunti a una serata perfetta: la mancanza di educazione del pubblico milanese, ormai avvezzo ad andarsene a scena aperta, mentre gli artisti stanno ancora ringraziando per lo scroscio di applausi più che meritati. E, secondo, la presenza di pochi giovani. La Scala è un patrimonio di noi tutti e la sua direzione sta facendo notevoli sforzi (soprattutto in questi tempi di tagli al Fus) per offrire spettacoli imponenti come questo anche al modico prezzo di 12 Euro. Difendiamo il nostro teatro lirico nell’unico modo in cui possiamo farlo: frequentandolo. Forse scopriremo che l’opera non è un genere per pochi o per anziani borghesi, né si esaurisce nel melodramma ottocentesco.
Lo spettacolo andato in scena:
Teatro alla Scala
Piazza della Scala – Milano
Death in Venice
(Nuovo allestimento)
di Benjamin Britten
libretto di Myfanwy Piper
basato sul racconto Der Tod in Venedig (La morte a Venezia, 1912) di Thomas Mann
Direzione:
direttore Edward Gardner
regia Deborah Warner
scene Tom Pye
costumi Chloe Obolensky
coreografia Kim Brandstrup
luci Jean Kalman
Personaggi e interpreti:
Gustav von Aschenbach, il romanziere: John Graham-Hall
Il viaggiatore/Il bellimbusto attempato/La voce di Dioniso: Peter Coleman-Wright
La voce di Apollo: Iestyn Davies
La madre di Tadzio: Anja Grubic
Tadzio: Alberto Terribile
Le sorelle di Tadzio: Camilla Esposito e Arianna Spagnuolo
La governante: Marinella Crespi
Jaschiu, l’amico di Tadzio: Jacopo Giarda
Il facchino dell’albergo: Peter Van Hulle
La venditrice di fragole: Anna Dennis
La guida turistica: Charles Johnston
I suonatori ambulanti: Anna Dennis e Donal Byrne
L’impiegato inglese all’agenzia di viaggio: Jonathan Gunthorpe
Il vetraio: Richard Edgar-Wilson
La merlettaia: Constance Novis
La mendicante: Madeleine Shaw
Il cameriere del ristorante: Benoit De Leersnyder
venerdì, 16 giugno 2023 (la recensione riguarda lo spettacolo andato in scena il 19 marzo 2011, in originale in Anche i critici nel loro piccolo…)
In copertina: Foto di Johan Jacobs per gentile concessione del Teatro alla Scala (usata all’epoca per corredare le recensioni)