L’infinito può finire?
di Simona Maria Frigerio
Dal 28 al 30 aprile 2023, la ex Stazione Leopolda di Firenze è stata animata da 16 installazioni digitali, interattive e multimediali, artisti e studi creativi internazionali ed eventi live.
Un’occasione per il pubblico, soprattutto per quanto riguarda la la sezione ART, di venire a contatto con tecniche che stanno prendendo piede in ogni settore ma che hanno scopi, progettualità e restituiscono produzioni – commerciali o artistiche – molto diverse fra loro.
In effetti alla Leopolda si è notata una partecipazione trasversale a livello di età e non sappiamo quanta consapevolezza del medium ma anche del fine sia emersa alla fine di un’immersione sensoriale in installazioni caratterizzate da tecnologie sviluppatesi negli ultimi dieci, venti e persino trent’anni.
Facciamo alcuni esempi per capire meglio come si è posto lo spettatore (a volte interattivo) e cosa vi sia al di là della rappresentazione/installazione proposta; ma anche la matrice artistica di alcune opere e il loro portato concettuale; e infine i dubbi sulle potenzialità di mezzi che potrebbero, invece di migliorare la nostra quotidianità, trasformarla in un racconto distopico à la J. G. Ballard.
Una tra le prime installazioni che abbiamo incontrato in questo percorso (davvero suggestivo e immersivo) è stata Horizon, di H3 – fruita dal pubblico in maniera banalmente videoludica: lo spettatore, per l’ennesima volta, ha voluto trasformarsi in protagonista, soprattutto a livello interattivo per vedere riflesso il proprio corpo in una scia luminosa che ha potuto muovere sullo schermo. Perdendosi, così, la magia concettuale del buco nero per concentrarsi sulla proiezione del sé. Eppure, se solamente qualcuno in più fosse restato – come entità sfuggente – ai margini di quel non-luogo privo di luce la sensazione di immersione fisica ed emozionale lo avrebbe attirato verso un’esperienza profondamente coinvolgente e non superficialmente ‘interattiva’. Questo è uno degli esempi che ci permette di comprendere quanto il voler a tutti i costi partecipare e il voler a tutti i costi offrire all’altro da sé la partecipazione a una propria opera artistico-creativa possa, a volte, portare a una smaterializzazione dell’estetica e a una perdita di senso dell’installazione in quanto la partecipazione stessa non è esperita come parte della concettualizzazione o del processo creativo, bensì come gioco, come protervia assunzione di protagonismo di uno spettatore che non vede se non se stesso.
4th Dimension, di Olo Creative Farm, come la Farnesina Digital Art Experience sono esempi di libera reinterpretazione in 3 o 4D (che dir si voglia) di poetiche artistiche già sviluppate in passato da altri artisti. Se la prima rimanda inevitabilmente alle bande verticali e alle tende di Buren, ma anche agli igloo e ai neon di Merz, le infinite potenzialità dei giochi di luce in uno spazio conchiuso si sono aperte inaspettatamente alla realtà concreta della pietra e del cemento della struttura che ci ospitava, nel momento in cui la stessa appariva in filigrana. La Leopolda, a tratti, si è trasformata da contenitore a parte significante del contenuto in un ideale dialogo tra immaginario e presenza. Farnesina Digital Art Experience, invece, pare un’esperienza propedeutica o un viaggio, più che immersivo, in formato gigante, in alcuni topoi artistici, con la riproposizione di immagini che paiono ispirarsi e giocare con correnti, movimenti e tecniche. Dai pois di Yayoi Kusama al puntinismo, dalle sfere à la Sonia Delaunay alle forme/colore geometriche di un Mondrian, dalle estroflessioni alla macchia, e molte altre suggestioni rese dal movimento labirintico di luci e colori nel quale può perdersi il bambino e si ritrova l’adulto (anche se non sappiamo quanto consapevole di ciò che gli si sta proponendo).
La performance sinestetica (nulla di nuovo, pensiamo a Michele Sambin già negli anni 80 del Novecento) si ritrova in Village 4.7 di Glauber Vianna & Vitor Lorenção, e in Circular, di Lorenzo Ballerini & Massimo D’Amato. Nella seconda, in particolare, la musica elettronica – vagamente industriale – e i giochi di luce ritmati su tempi sincopati possono essere fruiti a un livello più superficiale – vicino alle atmosfere da discoteca – o più viscerale. Teoricamente l’esperimento prevede, dal vivo, una rielaborazione tecnologica dei movimenti e dei rumori emessi dal pubblico compresente e, inconsapevolmente, compartecipe. Purtroppo la confusione generale che invade lo spazio della Leopolda, proveniente da quasi tutte le installazioni, rende difficile avvertire le specificità e, dopo un po’, si ha solo la sensazione di volere l’intervento dello Spazzasuoni di ballardiana memoria.
Tra le installazioni, molte si rifanno alla Kinect che permette il body-tracking. Traduciamo: i movimenti dei visitatori si trasformano in contorni luminosi proiettati su una parete spoglia che ne restituisce il movimento, ma crea altresì sovrapposizioni che tendono a un’astrattismo il quale, in qualche misura, ha il sapore del gioco e, non a caso, i bambini vi interagiscono a lungo con grande divertimento – probabilmente come un tempo lo facevano con le lanterne magiche. A questo punto interviene però il dubbio che, sebbene proporre esperienze e prodotti molto diversi tra loro possa avvicinare – come scrivevamo – fasce di visitatori diverse, si perda un po’ il senso di ciò di cui stiamo fruendo. Arte o semplice gioco? Arte o semplice tecnica?
L’opportunità di sperimentare una proiezione, attraverso il casco per la Realtà Virtuale, è stata molto gettonata. Anche se in una situazione non certamente ottimale dato che la VR avrebbe bisogno di spazi, solitudine, buio, tranquillità, posti a sedere comodi e di un tempo di fruizione assolutamente più lungo. Ma ricadiamo nel dubbio amletico a cosa ci si trovi di fronte.
Sul megaschermo centrale, nel frattempo, possiamo assistere a NFT Monumentale / Digital Art di Reasoned Art, che propone una carrellata di immagini bidimensionali di un futuro/passato distopici in cui si ravvisano temi ormai cari alla fantascienza filmica, dalla figura del cyborg (archetipo fin dai tempi di Star Trek o, per fare un esempio più colto, dal 1985 e Donna Haraway con il suo Manifesto Cyborg). L’umano sospeso in un limbo rimanda a Matrix come all’ultimo capitolo della tetralogia (pessimo finale) di Alien, mentre scorrono figure à la H. R. Giger; così come l’affinità umano/animale/natura è più cartoonisticamente plaudibile che non artisticamente valida. Nel video proiettato si intravedono la tecnica e il suo limite. Sia l’immaginario filmico saccheggiato sia il rinvio colto e pop al medesimo tempo – dai globi/palloncini à la Olafur Eliasson al cane/androide di Kyashan – Il ragazzo androide.
E ancora, con Pong (di FLXER) e Scribble to Art (di Stride) ci ritroviamo nel campo videoludico anche se il secondo richiede qualcosa di più ai ‘visit-autori’ – ossia di ricreare un mondo parallelo in cui la storia è costruita attraverso i contributi di ognuno. Mentre il primo è il tipico interactive mapping game.
Dalla tecnologia all’arte
L’autentica sorpresa è l’esperienza onto-immersiva di Limes (firmata da Mou Factory), che si può definire finalmente arte e che raggiunge un livello di trasposizione/sublimazione nel medium di un concetto forte. Negli anelli di un tronco d’albero – grazie alle immagini, alle parole e ai suoni nei quali ci immergiamo – vediamo prendere vita la storia dell’evoluzione terrestre dal Big Bang alla parola. Il lavoro è affascinante, intelligente, emozionante con una resa che travalica la tecnica per farsi davvero arte, ovvero sublimazione ideale del mezzo, espressione di una visione personalissima ma partecipabile in maniera ben più profonda di un video mapping o di un’interazione superficiale.
Anche Epos di Sublime Tecnologico va oltre l’eccellente tecnologia alla base dell’esperienza – ovvero l’ologramma in 3D. Qui si è voluto rimandare sia al luogo, la ex Leopolda che ospitò la prima mostra dei macchiaioli (nel fondale), sia all’abilità degli esponenti di quel movimento nella ritrattistica. Il risultato è altamente tecnologico, visto anche che l’immagine olografica è ‘conservata’ in un NFT, ossia in un non-fungible-token che può essere comperato come qualsiasi altro prodotto artistico, sebbene abbia un formato digitale. Del resto, l’arte fa parte del mercato e ben pochi artisti e creazioni artistiche sfuggono a tale assioma in una società capitalistica e consumistica.
E arriviamo all’ultima installazione che abbiamo sperimentato, ossia Through the looking-glass di Ophir – un’esperienza VR multiplayer che, alla Leopolda, ha presentato alcuni ambienti e personaggi che entreranno nel multiverso in costruzione (a scopi, da quanto ci ha riferito lo stesso art director, commerciali). Davide Stiz, giovane e talentuoso, dimostra grande abilità nella costruzione del suo ‘spazio virtuale’ attingendo a un immaginario in parte orientale – vi abbiamo ritrovato le medesime suggestioni visive di Mitologie Digitali (1) – e in parte del periodo visivamente più innovativo del Novecento, ossia dai primi anni del secolo ai 40, che hanno partorito il surrealismo filmico di Buñuel, Dalí ma soprattutto di Georges Méliès.
In conclusione Bright Festival, nella sezione ART, è stata un’esperienza immersiva in tecnologie più o meno innovative (alcune ormai dépassé). Adatto ad attrarre i grandi numeri (e, infatti, la Leopolda per alcune ore è stata quasi invasa) grazie alla diversificazione delle proposte, adatte a diverse fasce d’età e diversi livelli di consapevolezza tecnologica e artistica. Forse l’unico errore è il voler mettere il cappello di ‘artistico’ a prodotti anche validi a livello tecnologico ma che non dimostrano alcuna forte concettualizzazione e restituzione creativo-personale del medium – confondendo l’aspetto ludico (sebbene godibile) del gioco con l’arte inter o multimediale.
Il metaverso e la minaccia di una distopia più potente del cyborg
Inseriamo qui un inciso su cosa sia il metaverso – le sue potenzialità e i suoi rischi. Il metaverso era già stato preconizzato in film come Strange Days di Kathryn Bigelow, con i filo-viaggi; o in Abre los ojos di Alejandro Amenábar con i suoi cadaveri criogenizzati che sognano un sogno eterno; o in Welt am Draht del lontano 1973, di Rainer Warner Fassbinder; nel roboante Atto di Forza, ispirato al raffinato We Can Remember It for You Wholesale di Philip K. Dick; e in Il mondo dei replicanti, tratto dalla graphic novel The Surrogates di Robert Venditti e Brett Weldele dove in un futuro prossimo (il 2054) gli esseri umani vivranno rinchiusi in casa e i cyborg, chiamati ‘surrogati’ (curiosamente come le donne che ‘affittano’ l’utero), agiranno nel mondo esterno in loro vece, collegati ai cervelli degli esseri umani originali. Come si può capire in nessuna di queste opere dell’ingegno o della fantasia il metaverso è stato ritratto positivamente e i due anni e oltre in cui gli italiani sono stati costretti a rinchiudersi in casa (con brevi intervalli) per l’incapacità della politica e della sanità pubblica di far fronte alla Covid-19 dovrebbero averci fatto comprendere che, nonostante politica e mass media volessero restituirci un’immagine positiva di tale costrizione, nemmeno i giovani – coloro che sono più abituati al mondo virtuale e a interagire attraverso computer, cellulari e tablet – hanno sopportato bene una tale costrizione sia a livello psicologico sia fisico. Eppure il metaverso va proprio in tale direzione, quella di ricreare un mondo parallelo nel quale interagiamo con gli altri (lavoriamo, acquistiamo beni, ci incontriamo, ci divertiamo e viaggiamo) pur restando rinchiusi in casa nostra. Ognuno nella propria ‘pelle elettronica’ per poter ‘sentire’ nel metaverso. Tutti sconnessi realmente da ciò che ci circonda, accoglie, custodisce e che dobbiamo preservare (sia che si intenda la natura sia esperienze e sentimenti umanissimi come la socialità, la bellezza, l’amicizia o l’amore).
Il metaverso non è un universo diverso dal nostro. Non immaginate un pianeta inventato o un mondo migliore, più ecocompatibile, rivoluzionario o ricco di fantasia in stile Il mago di Oz. Bensì esattamente l’opposto. Ossia il nostro mondo, sviluppato da brand importanti che si faranno pagare per vendere alla nostra immagine virtuale ‘profumi e balocchi’. Non stiamo scherzando. Non è un caso che i maggiori brand del settore fashion siano già presenti nel metaverso. Pian piano il rischio è che ci si privi di ogni libertà trasformandoci da consumatori di prodotti in consumatori di metaprodotti.
Se è vero che non abbiamo avuto bisogno del rossetto o della scarpa nuova nei due anni di Covid-19, è altrettanto vero che per i poteri forti questo è stato forse l’unico aspetto negativo della nostra clausura forzata. Ma se le aziende e la politica riuscissero a convincerci a vivere attraverso i nostri avatar di nuova generazione, allora potrebbero trasformarci definitivamente in una società di beoti, impossibilitati ad agire come massa (addio scioperi o manifestazioni, ma forse persino addio a quel surrogato di democrazia che sono le elezioni politiche), incapaci di avere contatti umani e sociali. Ovviamente avremmo comunque bisogno di un minimo di interazione fisica ma potrebbe essere assicurata da altri esseri – magari considerati ‘inferiori’ – che si assumerebbero il compito di attaccarci e staccarci da qualche macchina che ci fornisce liquidi e alimenti e ci ripulisce dalle ‘scorie’, e di mantenere sani i nostri corpi/involucro nei quali continuerebbe a pulsare il cervello sempre più condizionato, mentre la nostra specie si riprodurrà attraverso sperma, ovuli e surrogate.
Il metaverso che si è delineato negli ultimi anni – e che vorrebbero farci credere ci renderà liberi (dalle code in auto o al supermercato, dalla burocrazia, dal viaggio verso e dal posto di lavoro, dai mezzi pubblici o dagli aerei in ritardo, dai contrattempi, eccetera); in realtà, ci potrebbe rendere sempre più schiavi di un mondo capitalistico/consumistico predisposto dall’alto e che, a quel punto, deciderà per e su di noi. Un mondo che sarà totalmente cristallizzato e immodificabile in quanto non avremo più alcuna reale possibilità di agire sul e rompere il meccanismo.
Fantascienza? Vediamo qualche dato di fatto. Il miliardario imprenditore Mark Zuckerberg era ed è talmente certo del potenziale commerciale del metaverso da rinominare la sua società, che è nata grazie a Facebook (la piattaforma/piazza virtuale free, sempre meno libera e sempre più omologante), Meta – credendo di poter convertire la sua lucrosa attività di social media in un’azienda di metaverso. A fine 2022, nonostante un effetto che gli ‘esperti del settore’ definivano FOMO (Fear Of Missing Out, ovvero paura di essere tagliati fuori), e che ha visto le più grandi marche aprire flagship store (ossia negozi monomarca) nel cosiddetto Metaverse Fashion District, i Reality Labs di Meta registravano una perdita di 13,7 miliardi di dollari. Buco nero anche per il suo gioco multiplayer che dovremmo etichettare ‘esperienza sociale’, Horizon Worlds. Meta ha licenziato quindi 11mila dipendenti (ma non ha cambiato il vertice, ovviamente) e nel primo trimestre del 2023 i Reality Labs hanno segnato una nuova perdita operativa di altri 4 miliardi di dollari (o quasi).
Forse l’unica speranza, per Zuckerberg e il suo progetto di trasformarci in metaconsumatori, metalavoratori (ancora più facilmente licenziabili) e metacittadini potrebbe essere una nuova pandemia politico mass-mediatica che ci costringesse nuovamente a sopravvivere per interposta ‘surrogata’?
(1) Per la recensione degli artisti e delle opere in mostra: https://www.inthenet.eu/2023/01/13/mitologie-digitali/
Consigliamo per un approfondimento sulle diverse tecniche: https://iris.unipa.it/retrieve/handle/10447/146782/498141/I media digitali.pdf
e il volume Leggere uno spettacolo multimediale di Anna Maria Monteverdi, Dino Audino editore, 2020
venerdì, 19 maggio 2023
In copertina: Horizon (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Bright Festival); nel pezzo: foto di Chetraruc da Pixabay (gratis da usare sotto la Licenza per i contenuti)