Termini da non confondere
di Simona Maria Frigerio
Il segreto di Stato può coprire tutto? Crimini contro l’umanità? Omicidi più o meno mirati? Armi di distruzione di massa (mai esistite o mai dichiarate)? Stragi in tempo di pace? Attacchi terroristici? La cattura, deportazione, detenzione illegale e, a volte, tortura di potenziali ‘nemici’ (1)? L’uccisione di civili inermi? E chi svela tali segreti è un giornalista o una spia?
Rispondere a queste domande e demarcare una linea di confine è oggi più che mai indispensabile sia per esercitare la professione giornalistica sia per permettere alla società civile di essere informata di azioni e fatti che possono determinare il suo orientamento verso un candidato o un partito nel momento in cui esercita il diritto democratico al voto.
Partiamo da tre distinguo e da quattro casi emblematici anche per spiegare altrettante figure di cui si scrive molto sui giornali in questo periodo e poi proviamo, ognuno per sé e tutti come comunità, a demarcare quel confine difendendo chi lo oltrepassa in quanto per troppi anni gli Stati, dietro a quel famoso segreto, hanno in realtà coperto i propri crimini.
Le caratteristiche che dovrebbero contraddistinguere un giornalista sono l’aderenza al vero – o almeno a una narrazione che, alla prova dei fatti che si hanno a disposizione e delle fonti che si sono interpellate, possa apparire come tale. Il giornalista, come garante dell’informazione, non dovrebbe semplicemente copiare la velina di un’agenzia stampa o credere al politico di turno senza aver verificato in proprio ciò che quest’ultimo afferma: queste sono le famose competenze della professione, di cui le persone si sono dimenticate essendosi assuefate alla droga dei talk show televisivi, in cui il conduttore lascia che ognuno dica la ‘qualunque’, come se tutto fosse vero (o falso) e lui/lei non potesse verificare quanto affermato (spesso urlato) in studio. Il giornalista deve poi rendere pubblico ciò che viene a sapere – non può passare l’informazione privatamente a un governo, un’impresa concorrente, giocare in borsa o vendersi il silenzio: ognuna di queste azioni è un crimine. L’informazione dovrebbe essere di interesse pubblico (tradotto: se la star si sta separando dal marito non rientrerebbe nel campo dell’informazione, al massimo in quella devianza da impiccioni – edulcoriamo con voyeur – denominata pettegolezzo – edulcoriamo con gossip). E infine, quando svela segreti di Stato gli stessi dovrebbe essere azioni contrarie alle leggi nazionali e ai trattati internazionali.
Partiamo da Vladlen Tatarsky, blogger o corrispondente (ci interessa poco se avesse o meno una tessera giornalistica in tasca) di guerra. Se fosse stato statunitense sarebbe stato definito embedded (ossia reporter che lavora in una zona di guerra al seguito di un esercito) e rispettato come tale. Ucciso in un attentato terroristico nel quale sono rimaste ferite una trentina di persone (civili), si trasforma da vittima dell’ennesimo attentato in Russia (si sospetta la matrice ucraina) nel primo piano da apporre sotto questo titolo: “Colpo a Putin”. Per Il Resto del Carlino (i colleghi della stampa seria e blasonata), l’uccisione di un collega è una vittoria sullo scacchiere della guerra non dichiarata contro la Russia. Ma non basta, perché nell’occhiello leggiamo: “L’analista: «Sfregio allo zar, San Pietroburgo è casa sua»”. In un titolo e sottotitolo un giornalista/blogger assassinato è parificato a un obiettivo militare da eliminare, magari, con un drone. Si rincara equiparando un Presidente democraticamente eletto, Vladimir Putin, a una zar (tradotto: dittatore) e si chiude con quell’accenno a ‘casa sua’. Ma quel termine così ‘amichevole’ rimanda ai mafiosi che considerano Bagherìa ‘casa loro’, e solo pochi leggeranno correttamente che Putin è nato nell’ex Leningrado e la sua famiglia ha vissuto sulla propria pelle la tragedia del suo assedio, durato 2 anni e 5 mesi, a opera dei nazisti tedeschi. Ma, aldilà della ormai consueta trattazione italiana di una notizia in forma propagandistica invece che usando un peso e una misura, chiariamo che molti sono gli inviati e i fotoreporter embedded. Ad esempio Sebastian Rich, il quale affermò in un’intervista di qualche anno fa, quando gli chiesi se fosse stato possibile per lui rimanere oggettivo in Iraq, mentre lavorava come reporter embedded per l’esercito statunitense: «Assolutamente no, non esiste una cosa chiamata obiettività! Abbiamo tutti le nostre priorità, per quanto inconsce. Ci piace pensare di essere obiettivi ma non lo siamo. Specialmente se embedded! Ero coi Marine sul terreno di guerra in Iraq. Giovani Marine mi hanno salvato la vita in più occasioni. Quando è arrivato il loro turno di morire o essere feriti di fronte alla mia macchina fotografica, mi sono sentito costretto da legami di cameratismo e lealtà» (2). Vladlen Tatarsky era tanto diverso da Sebastian Rich? E perché il primo può essere impunemente ucciso in un attentato (la stessa sorte toccata un anno fa a Darya Dugina), mentre il secondo ha avuto la possibilità di riorientare la propria carriera dedicandola a raccontare il mondo dell’infanzia ‘perduta’ per l’Unicef e per l’Unhcr?
Nel frattempo Julian Assange resta in carcere e in attesa di essere estradato negli States dove è considerato una spia e non un giornalista. Per quale ragione? Ha reso pubblici i crimini di guerra perpetrati dagli Stati Uniti, non ha rivelato un piano d’attacco prima che l’esercito si muovesse (senza tener conto che gli States e la Nato, in questi trent’anni, sono sempre stati impegnati in missioni di ‘pace’…). Ha pubblicato informazioni veritiere, comprovate da documenti e filmati. La sua fonte era ed è attendibile. Gli Us non hanno negato di aver commesso tali crimini ma l’accusa contro Assange forse più pesante è di aver “cospirato con hackers affiliati alla rete Anonimous”, “aver aiutato Chelsea Mannig a craccare una password e quella di aver facilitato l’evasione di Edward Snowden” (3). Tenendo in dovuta considerazione che una persona è innocente fino a prova contraria (ossia fino a sentenza definitiva): su questa accusa si è diviso il mondo della stampa. Fin dove può spingersi un giornalista per ottenere le informazioni circa un crimine e, ancora una volta, cosa possono nascondere dietro il termine ‘segreto di Stato’ una nazione e un Governo? Proviamo a fare una reductio ad absurdum. Se Assange fosse riuscito, attraverso un affiliato di Cosa Nostra, a risalire a documenti segreti (nascosti magari in qualche armadio chiuso a chiave) che snocciolavano i nomi dei mandanti politici dell’uccisione di Paolo Borsellino e li avesse resi pubblici, avrebbe violato un segreto (magari persino di Stato) e lo vorremmo in galera per aver scassinato un armadio? Quanti tra i nostri colleghi avrebbero pensato che avesse agito da criminale? Se uno Stato, al contrario, uccide civili in mezzo a una strada di Baghdad è più accettabile (4)?
A Daniel Hale abbiamo recentemente dedicato un articolo (5), e non vogliamo ripeterci. Ma il whistleblower, ossia colui o colei che viene a conoscenza di crimini commessi da uno Stato (nel suo caso gli assassinii mirati con droni dell’amministrazione Obama, che hanno portato all’uccisione di una serie di vittime civili assolutamente innocenti), o da un’impresa (pensiamo a Carlo Bertini di Banca d’Italia o a tutte le cause che in questi anni hanno travolto le multinazionali statunitensi, e non solo, per aver inquinato terreni, acque, e causato la morte di animali ed esseri umani) è giusto che finisca in carcere? Aver firmato un accordo di segretezza di un’impresa privata, dover rispettare il segreto di Stato sono più importanti della verità e della denuncia dei crimini? Forse sarebbe ora che la società civile, oltre che la giustizia, si ponessero obiettivi più alti se vogliamo un altro mondo possibile.
E arriviamo all’ultimo caso che potrebbe aiutarci a fare un minimo di chiarezza. Evan Gershkovich, giornalista statunitense di The Wall Street Journal, è stato accusato di spionaggio in Russia ed è detenuto, in attesa di giudizio. Notiamo che nessuno gli ha fatto esplodere l’automobile né ha pensato di neutralizzarlo con un drone o una bomba. L’accusa per lui è, secondo fonti ufficiali russe: “aver agito per conto degli Stati Uniti, raccolto informazioni che costituiscono un segreto di Stato circa le attività di un’azienda che è parte del complesso militare industriale russo”. Ovviamente anche per lui vale ciò che abbiamo già scritto: è innocente fino a sentenza definitiva. Durante il processo potrà chiarire i fatti e se proverà che le informazioni, veritiere, da lui raccolte sarebbero state rese pubbliche (e non consegnate alla Cia) e avrebbero comprovato crimini russi – ovvero fatti che la comunità internazionale e il popolo russo hanno il diritto di sapere – saremo sicuramente al suo fianco, come lo siamo di Assange. Lo spionaggio industriale, soprattutto in un Paese in guerra, però, sarebbe altra questione.
1) Le extraordinary rendition statunitensi (ma pratica consolidata già da decenni da altri Stati)
2) L’intervista anche in lingua originale a Sebastian Rich: https://www.inthenet.eu/2021/06/18/interview-to-sebastian-rich-intervista-a-sebastian-rich/
(3) Si veda l’articolo: https://www.labottegadelbarbieri.org/assange-il-processo-del-secolo-di-cui-e-vietato-parlare/
(4) Si veda su YouTube, Collateral Murders, commentato da Presa Diretta per la Rai:
(5) Daniel Hale, tuttora detenuto negli Stati Uniti per aver consegnato alla stampa i Drone Pampers:
venerdì, 21 aprile 2023
In copertina: Julian Assange, nel novembre 2009 a Copenhagen, durante il New Media Days 09. Questo file è sotto la licenza Creative CommonsAttribuzione-Condividi allo stesso modo 2.0 Generico. Attribuzione: New Media Days / Peter Erichsen. https://it.wikipedia.org/wiki/Julian_Assange