Rovine di cemento e diving
di La Redazione di InTheNet
Nel Golfo della Thailandia esistono tre isole famose, per ragioni diverse, nel circuito del turismo marino più o meno esotico.
Koh Samui, a cavallo tra Rimini e Cancún coi suoi resort, parchi divertimento per adulti e cliniche per vecchi statunitensi. Turismo del terzo sesso e Mai Tai (non fatevi ingannare: origine californiana e nome tahitiano) bordo piscina, condito da una sanità con un buon rapporto qualità/prezzo per la terza età.
Koh Phangan, famosa per i rave bimensili e lo sballo alcolico dei Full Moon Party e dei Black Moon Party, il lungomare cementato e la sfilza di negozi, stazioni di servizio e supermercati, a sud. Mentre le zone per lo snorkeling, a nord, sono state devastate nei pochi anni in cui i bungalow di legno sono stati sostituiti da colate di cemento per hotel multipiano, che hanno ucciso qualsiasi specie vivente in mare e lasciato dietro di sé uno squallore targato ‘progresso’; o colate di cemento abbandonate con le quali hanno tentato di devastare almeno uno tra i più bei promontori della parte settentrionale e, al contrario, il terreno ha ceduto e i resti dello scempio edilizio stanno crollando tra giungla e lingue d’asfalto.
E infine Koh Tao, l’isola della Tartaruga, patria degli snorkler e dei sub, sempre più massacrata dal turismo dei diving di lusso che, nei tre anni della pandemia, hanno semplicemente devastato il villaggio di Sairee edificando resort e hotel – di cemento armato – con piscine di addestramento e lounge bar che hanno allungato le terrazze per finire direttamente in mare. Negozietti, ristorantini locali e bungalow di legno sono stati letteralmente fatti sparire e, con la complicità dei taxi boat, i diving (già da anni) hanno contribuito a ricoprire di una poltiglia marrone i pochi coralli rimasti, striando il mare con il carburante e gli scarichi maleodoranti delle loro barche.
Dal 2020 anche la baia di Chalok Baan Kao è peggiorata (dove il piccolo golfo era già inquinato dalle barche per i sub, che ancorano poco al largo, e da un klong maleodorante che sfocia direttamente in mare) e, aldilà dei bar/ristoranti – cari per queste zone – adatti ai turisti fighetti in stile Baywatch, tutto ciò che era più tipico o locale è stato abbandonato e giace in rovina (compresi il ristorante vegetariano – come ovunque: una moda soppiantata dai chioschi di hamburger – e il Seven Eleven, indice di quanto l’economia thailandese abbia sofferto delle chiusure imposte al turismo). Qui, come in tantissime zone dell’isola, interi resort (soprattutto quelli più vecchi, tipici, in realtà simili ai nostri campeggi o villaggi turistici, coi bungalow in legno e i tetti di paglia che inframmezzavano la vegetazione lussureggiante) giacciono vuoti, tetri, in disfacimento. Fa impressione, soprattutto, il lussuoso Charm Churee Villas. Mentre le spiagge, zeppe di rifiuti, sono spesso rovinate da speedboat e taxi boat che, attraccando a riva, distruggono il poco rimasto in mare. E se i primi scaricano fiotti di turisti mordi e fuggi, inferociti, bramosi di fare e vedere tutto ciò per cui hanno pagato nel tour delle tre isole in sei giorni o dell’intera Thailandia (che è grande oltre una volta e mezza l’Italia) in due settimane; i secondi sfruttano le pendenze di strade e sentieri per offrire scorciatoie via mare per spiagge sempre meno esotiche e sempre più degradate.
Altre spiagge (come la rinomata e privata Jansom Bay), sono state abbandonate all’incuria di un servizio pubblico deficitario, finendo nelle mani del corrispettivo dei nostri parcheggiatori abusivi che, dopo aver raccolto qualche bottiglia di plastica – che bruciano direttamente sulla spiaggia – pretendono 100 Bath per farti sdraiare sul tuo asciugamano.
Un altro promontorio eroso dalla speculazione edilizia è quello che sovrasta Taa Som Bay fino a Sae Daeng Beach, un tempo chiamata Shark Bay – proprio di fronte a Shark Island – oggi spiaggia privata occupata interamente dal resort che l’ha rimoninata, dall’adiacente Coral View e da un diving. Il mare, ovviamente, è morto e i sub si addestrano tra i rifiuti.
Le gabbie elettriche che erano state attrezzate per far ricrescere il corallo su questo litorale, giacciono sul fondo: ennesimo tentativo di facciata di salvaguardia ecologica – ovvero il green washing made in Thai – strombazzato per attrarre turisti e, nel giro di pochi anni, abbandonato nel dimenticatoio.
Sempre in zona anche Ao Leuk, baia divisa da un klong, asciutto nella stagione invernale (da queste parti, estiva), per metà edificata con un resort e per metà abbandonata all’ennesima parcheggiatrice abusiva, però meno esosa: chiede 50 Bath per farti stendere sul tuo asciugamano. Sparsi, tra rifiuti edili e bottiglie o flaconi, lettini di plastica mezzi rotti. E in mare, una sfilza di barche turistiche a precludere l’orizzonte.
di fronte a Shark Island
Snorkeler, saccoapelisti e viaggiatori sono ormai una rarità. A Tao Thong/Capo Je Ta Kang, uno scoglio con due microbi di bagnasciuga dove forse ci stanno quattro asciugamani, mentre da una parte del roccione a mare il cemento cola direttamente sulla rena e si è formata una eterna risacca di immondizia; dall’altra, si intravedono i cottage di legno ancora seminascosti tra palme e natura, e ai pochi ospiti è concesso un angolo di ascetismo in stile New Age – fino all’arrivo quotidiano, anche qui, degli speedboat con le loro orde di frenetici, chiassosi turisti in stile all inclusive.
A sostituire il vecchio, sicuramente più ecocompatibile, che si sgretola al sole o rovina lentamente verso il mare, soprattutto a Sairee nuove colate di cemento in anonimo stile villetta californiana con giardinetto rasato, condizionatori accesi giorno e notte, per un lusso da statunitense in cerca di esotismo. Il recupero edilizio sembra l’ultimo pensiero dei thailandesi: finché avranno un metro quadrato di giungla o palmizi da radere al suolo, la speculazione non avrà pace. Vi si respira quella medesima omologazione da archistar che è riuscita a trasformare il vecchio quartiere Garibaldi con le sue case di ringhiera e i centri sociali, a Milano, in un panorama di lusso asettico e sradicato, svenduto a stranieri e aziende che forse non lo vedranno mai, omologante e omologato, senza gusto né rispetto per le specificità culturali e la storia locale – come si può vedere a Bangkok, Kuala Lumpur o Londra. Il genius loci prostituito al cemento armato e acciaio.
In breve: il viaggiatore da zaino e sacco a pelo, o di un lusso in cerca di qualcosa di diverso dalla piscina dietro a casa e l’aperitivo annacquato, sfrattati da ventenni assetati di birra bordo spiaggia da bere a canna e da coppie che, se arrivano su una baia e non trovano una untuosa poltrona sacco e un cocktail ghiacciato, si guardano intorno spaesati, senza sapere che fare, senza nemmeno il coraggio di entrare in mare a farsi una nuotata o sdraiarsi su un asciugamano per ascoltare il suono della risacca e il canto degli uccelli.
Il mondo del silenzio (tipico del mare) e dell’ascolto (forse mai esistito e, in questi ultimi tempi, del tutto scomparso), che cercavamo per mare e per terra, ha abdicato di fronte a una frenesia da arricchimento veloce e divertimento a tutti i costi che prosciuga le menti e inaridisce un habitat sempre più fragile. Compartecipi in questa corsa sia i turisti sia i Thai che, come la grande maggioranza degli orientali, hanno perfettamente introiettato i valori dell’Occidente capitalista: fretta, soldi, sfruttamento delle risorse umane e naturali. Del resto, con il basso livello di istruzione di milioni di uomini e donne, il Siam non ha molte opportunità di sopravvivenza senza il turismo di massa.
L’Oriente manierista da yoga e veganesimo ormai si trova solo come optional nei resort più trendy – un tot al chilo.
venerdì, 17 marzo 2023
In copertina e nel pezzo: foto di InTheNet, vietata la riproduzione