Appunti da dietro le quinte
di Simona Maria Frigerio
Come sempre, essendo leale con i miei lettori, chiarirò di essermi occupata della mostra che si è tenuta al CAMeC della Spezia dal 28 giugno 2022 al 15 gennaio 2023 come responsabile della comunicazione e in tale veste non ho scritto recensioni né pezzi, ma ho lasciato ai miei collaboratori di InTheNet.eu di gestire questo spazio liberamente, giudicando cosa inserirvi, proponendogli libri da leggere o eventi a cui partecipare ma non interferendo con le loro argomentazioni, i loro feedback, le loro recensioni o i loro reportage.
A questo punto, abbandonata la veste ufficiale, conferitami da una tra le curatrici della mostra, Anna Maria Monteverdi, posso permettermi – come giornalista – di chiarire alcuni passaggi che hanno suscitato sterili polemiche, le quali penso ma non so (non avendo avuto la fortuna di conoscere Verde di persona), non sarebbero piaciute nemmeno a lui – in quanto personaggio scomodo, critico, irriducibile nelle sue convinzioni ma, nel contempo, sempre pronto al dialogo, allo scambio fecondo, alla crescita di una comunità di esseri pensanti e creativi. Perché, se personale è politico, allora anche quell’ora che dedichi all’altro da te, all’amico, al compagno e persino all’avversario sul piano ideologico ha un senso.
Le polemiche sono iniziate per una performance a opera dei collettivi Dada Boom e SuperAzione. Tengo a precisare che questa mostra avrebbe dovuto avere una curatela a più mani, ossia di un collettivo di professionisti, accademici, militanti e persone legate a Giacomo Verde da affetto e amicizia. Le varie riaperture dell’esposizione avrebbero permesso di cambiare il suo allestimento e di ospitare personaggi e tematiche diverse, in modo tale da offrire in maniera prismatica la complessità dell’artista e dell’uomo. Ogni performance od opera in mostra era stata approvata dal succitato collettivo che si era riunito più volte – dal vivo e online – già dal febbraio 2022. Dada Boom aveva preventivato una generica proiezione e Monteverdi si era data da fare per avere a disposizione un proiettore per la vernice del 28 giugno. La performance – non concordata con gran parte del collettivo e nemmeno comunicata al CAMeC – si è rivelata, però, altro.
Mentre Virginia Orrico leggeva, con accompagnamento musicale di sottofondo, testi di Verde, Murat Onol e Alessandro Giannetti, appartenenti ai succitati collettivi, prendevano a pugni (con guantoni da boxe) una parete del museo, causando un foro nella stessa e poi scrivevano con vernice lavabile (che, in parte, finiva per imbrattare anche il pavimento) Demilitarizzare La Spezia. La suddetta performance, della durata di alcuni minuti, si è svolta per intero. I collettivi, però, non si erano preoccupati di avere un video-operatore né di concordare con l’istituzione gli esiti della stessa. Non si sta parlando di nulla di rivoluzionario. Pensiamo che Mostra=Evento andava in ‘scena’ già nel 1968, quando la Kunsthalle divenne essa stessa opera d’arte. Come si legge in Harald Szeemann. L’arte di creare mostre di Ambra Stazzone, “Christo, da poco reduce dalla documenta 4 dove aveva ‘imballato l’aria’ realizzando 5450 m cubic package, un enorme pallone di gas polietilene alto 85 metri e largo 10, fu stimolato da Szeemann a ricoprire il suo primo edificio pubblico”. Nulla di scandaloso, quindi, nella performance in sé se si fosse semplicemente organizzata la stessa al meglio, sia tecnicamente – avvertendo ospiti e giornalisti di convergere sul posto, chiamando un operatore per le riprese che avrebbe documentato anche a posteriori quanto accaduto, creando magari anche un certo interesse con il giusto battage mediatico – sia politicamente – informando l’istituzione, ossia il CAMeC ma anche il Comune, e concordando i tempi e i modi per il ripristino successivo della cosa pubblica.
La parete con il buco e la scritta, ossia l’esito della performance, non hanno suscitato, però, l’atteso (dai due collettivi succitati) riscontro critico. Forse i giornalisti presenti avevano già visto altre opere performative più significanti, forse la scritta era di difficile lettura e comprensione, forse la declamazione era stata fatta a voce troppo alta e qualcuno si era allontanato invece di avvicinarsi, forse un certo nervosismo successivo – dovuto proprio al fatto che gli organizzatori non erano a conoscenza di quanto sarebbe accaduto – ha messo la sordina a un’azione di per sé già ‘vista’ nell’ambiente artistico e critico.
A questo punto la polemica, purtroppo, si è spostata sulla rivendicazione, da parte di Dada Boom e SuperAzione, di una presunta artisticità del risultato della performance: un buco nella parete e una scritta con la vernice. Da critico devo ammettere che i muri delle città sarebbero grondanti di opere d’arte se questo fosse il criterio per stabilire il valore di un’azione. Rivendicare che quella fosse un’opera d’arte e, quindi, intoccabile era il modo per i collettivi di pretendere dal Comune e dal CAMeC che non si restaurasse la parete. Ma le istituzioni, non entrando nel merito del contenuto, hanno semplicemente operato come un ‘buon padre di famiglia’: il bene pubblico era stato in qualche modo danneggiato e andava ripristinato. Forse i collettivi non erano a conoscenza che i murales delle nostre città non appartengono agli artisti che li creano bensì a chi possiede il muro: ecco perché un meccanico può permettersi di vendere un Banksy. Ed ecco perché nemmeno un Banksy può – stanti le attuali normative – contestare il meccanico se, al contrario, decide di coprire il murale, sulla saracinesca della propria officina, con una mano di vernice bianca.
Aldilà della legge, e del fatto che un bene pubblico, in fondo, non appartiene nemmeno alle istituzioni in quanto le stesse lo amministrano, ma appartiene alla collettività – e, quindi, qualsiasi azione si faccia per modificarlo dovrebbe essere concordata con la collettività o, appunto, i suoi rappresentanti che lo amministrano – Dada Boom e SuperAzione non avrebbero potuto ideare un’opera di ben altro spessore proprio se si fossero ispirati a Giacomo Verde? Verde non amava gli slogan, la politica urlata, la piazza – almeno non più – in quanto aveva deciso di sublimare i messaggi politici con la sua arte, che era insieme giocosa, poetica e corrosiva. Non sappiamo cosa si sarebbe inventato lui ma sicuramente avrebbe, prima, preso visione degli spazi, dialogando con le realtà presenti sul territorio spezzino che, magari, si occupano da anni della presenza dell’Arsenale in città e, poi, siamo certi avrebbe creato qualcosa che andava aldilà del contingente. Personalmente ho amato, come critico e come persona, una immagine in mostra, in particolare, che ritrae Giacomo Verde con alcuni bambini, Melo incantato con ologramma. Credo che, sulla scia di quell’affabulare giocoso, Verde, forse, avrebbe inventato un meraviglioso teleracconto di fronte all’Arsenale e poi lo avrebbe proiettato in mostra, in diretta, legando indissolubilmente lo spazio del fare arte con lo spazio che è oggetto di polemiche – ma in maniera creativa e con gli spezzini che, magari, si sarebbero trovati divisi tra quei due luoghi comprendendo come entrambi appartengano, in realtà, a loro in quanto polis e come la bellezza possa e debba prevalere. Forse… Non sono Verde né un artista, bensì una persona dotata di immaginazione e nei miei racconti amo far dialogare vivi e morti. E per un attimo ho lasciato che la mia fantasia prendesse il sopravvento. Torniamo ai fatti.
Restaurata la parete, l’11 luglio 2022 (e, quindi, circa due settimane dopo l’azione, tempo in cui l’opera era rimasta comunque in mostra), i collettivi hanno cominciato a boicottare la riapertura del 20 luglio dedicata al video d’arte, Solo Limoni, di Giacomo Verde e Lello Voce, realizzato a seguito dei fatti di Genova del 2001. Per la prima volta, un’istituzione pubblica ospitava le immagini del G8 e quella di Carlo Giuliani, steso a terra, morto. All’interno dell’Auditorium del CAMeC si è altresì ascoltata la testimonianza di chi era presente e si è raccontato il dopo: i fatti della Diaz e Bolzaneto. Senza alcuna censura da parte delle istituzioni, anche se le stesse erano criticate per la violenza che caratterizzò quelle tragiche giornate piene di speranze.
Al contrario sono stati i collettivi (o, meglio, alcuni membri degli stessi) a cercare di impedire che quella giornata si svolgesse, mancando di rispetto non solamente all’artista a cui era dedicata la mostra, ma soprattutto a Carlo Giuliani e a tutte le donne e gli uomini che erano presenti al G8 di Genova e le cui storie dall’essere ormai solo lettera morta in un libro bianco sono tornate a essere raccontate – e all’interno di un’istituzione. Pensare di far fallire un evento così importante è azione sicuramente violenta e prevaricatrice, per nulla in sintonia con quanto scriveva lo stesso Verde: “Il fine di questo tipo di arte è quello di utilizzare i mezzi in modo che permettano il dialogo e che non determinino la prevaricazione dell’uomo sull’uomo o dell’uomo sull’ambiente. Non voglio provocare scontri, ma incontri, oppure scontri costruttivi che si basino sul rispetto dell’altro”.
Comunque la mostra è andata avanti perché aveva i numeri per farlo, tra successive riaperture, delle quali hanno già scritto, e meglio di me, i miei colleghi. Sono arrivati ospiti anche dall’estero, critici, artisti ma soprattutto è stata una mostra partecipata che ha permesso a un’istituzione museale di ‘farsi luogo’ (come direbbe l’attore e drammaturgo Marco Martinelli, amico di Giacomo). E darà frutti: un documentario, un archivio delle opere e, si spera, la presa in carico del materiale da parte di un’istituzione che possa valorizzare nuovamente l’artista ma, soprattutto, che sia in grado di farlo dialogare con la cittadinanza. Non sarà un caso che una tra le esperienze più belle che ho vissuto, professionalmente ma soprattutto umanamente, in questi sette lunghissimi mesi, sia stato l’incontro delle opere di Giacomo Verde con gli ospiti del Centro Diurno La Gabbianella della Spezia, che si occupa della cura e della riabilitazione dei pazienti psichiatrici – organizzato da Anna Maria Monteverdi e con la presenza attiva di Vincenzo Sansone. Il tempo trascorso insieme a inventare teleracconti è stato tra i più emozionanti dell’intera mostra, mostra nella quale i pazienti sono poi intervenuti direttamente decidendo la disposizione dell’angolo dedicato all’Opera d’Arto. Perché anche questo era Giacomo Verde, un artista ma soprattutto una persona che, come ha raccontato Sandra Lischi, era “in grado di interloquire con tutti e di stabilire un dialogo con l’altro da sé”.
“L’ape, che prima era posata su un fiore, punge un bambino. E il bambino ha paura delle api e dice che il fine delle api è nel pungere la gente. Il poeta ammira l’ape che sorbisce dal calice di un fiore e dice che il fine delle api è di assorbire l’aroma dei fiori. L’apicultore, osservando l’ape raccogliere il polline e portarlo nell’alveare, dice che il fine delle api sta nel fare il miele. Un altro apicultore, studiando più da vicino la vita dello sciame, dice che le api raccolgono il polline per nutrire le giovani api e mantenere la regina e che il loro fine è la continuazione della specie. Un botanico osserva che, volando col polline di un fiore dioico su un pistillo, l’ape lo feconda, e il botanico vede in questo il fine delle api. Un altro, osservando la disseminazione delle piante, vede che l’ape favorisce questa disseminazione: questo osservatore può dire che in questo consiste il fine delle api. Ma il fine ultimo delle api non si esaurisce né nel primo, né nel secondo, né nel terzo fine che la mente umana è in grado di scoprire. Quanto più si prodiga la mente umana nella scoperta di tali fini, tanto più le risulta evidente che il fine ultimo è per lei inaccessibile. All’uomo è dato solo di osservare i nessi che uniscono la vita delle api con gli altri fenomeni della vita. Lo stesso si può dire dei fini dei personaggi storici e dei popoli” (1).
Chi era Giacomo Verde? Cosa avrebbe voluto? A cosa aspirava? Tutto e nulla, forse nemmeno lui (come ognuno di noi) lo sapeva con certezza e, comunque, solo per un breve torno di tempo perché è umano continuare a cambiare, imparare, crescere. Sicuramente era un artista con precise idee politiche che sublimava nelle sue opere. E a noi restano le opere per poter scoprire non certo il fine ultimo, bensì i nessi con la sua contemporaneità che sapeva ritrarre e criticare, scorticare e denunciare, ma anche osservare poeticamente attraverso gli occhi di un bambino.
(1) da Guerra e Pace di Lev Tolstoj
venerdì, 27 gennaio 2023
In copertina: Armunia, Giacomo Verde in Melo incantato con ologramma.