Oltre le ‘talebane’ della National Gallery
di Simona Maria Frigerio
Il 16 giugno 1968 Pier Paolo Pasolini scriveva:
“Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. lo no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo-borghesi, amici”.
Allora non ero nemmeno nata ma quelle parole, quando sono cresciuta e ho cominciato a leggere Pasolini e, soprattutto, a innamorarmi della sua poesia, non le avevo mai capite. Ovviamente avevo inteso il malessere di sottofondo, l’amarezza per l’incapacità di questi rivoluzionari da operetta di costruire una battaglia comune che ci rendesse tutti proletari e non tutti borghesi – cosa preconizzata da Pasolini e puntualmente avvenuta, così come l’ascesa del pensiero unico edonista e consumistico. Ma il livore, quello spleen pasoliniano non ero ancora riuscita ad assaporarlo tra le labbra fino a qualche mese fa e alle ultime esegete di Greta Thunberg che, dopo i miseri tentativi di vandalismo compiuti (da altri) contro, ad esempio, la Primavera di Botticelli e prima del recente, ridicolo imbrattamento – in diretta mediatica – di Palazzo Madama, gettavano zuppa di pomodoro su I girasoli di Van Gogh.
Qual era la buona causa per imbrattare i vetri protettivi – azione che avrebbe carattetizzato per mesi la nostra Europa green friendly? La famosa transizione energetica che stanno pagando i loro genitori e che, a breve, potrebbe costare, magari, la riduzione della paghetta settimanale anche alle inglesi (visto l’impegno del Premier Rishi Sunak – non con i propri ma con i fondi pubblici – a continuare la ‘guerra santa’ per i ‘confini sacri’ dell’Ucraina). Ma il vandalismo artistico ha ben altre radici e le più diverse motivazioni – il che dimostra come non sia pratica né originale né particolarmente rivoluzionaria, bensì semplicemente violenta, che non nasce nel 2022 e non si esaurirà finché il potere costituito potrà usarla per i propri fini che di verde hanno solo l’apparenza mentre, dietro, si nasconde un grigiore fatto di recessione, taglio dei diritti e dei servizi sociali, dirottamento dei fondi da alcuni settori ad altri – il tutto a scapito della classe media e di quella lavoratrice.
Ma torniamo all’arte in senso stretto. Pensiamo alla scultura di Jago, Sono pronto al flagello, che rappresentava un naufrago disteso su un fianco e, a causa degli atti vandalici subiti, ai primi di ottobre è stata rimossa da ponte Sant’Angelo, a Roma. Pensiamo al Tempio di Hatshepsut in parte distrutto a causa della damnatio memoriae – ossia la cancellazione persino della memoria dei faraoni invisi ai successori e che ha colpito anche altri. Oppure ai talebani (tacciati dalle belle anime occidentali di ignominia) che, per motivi religiosi, nel 2001 abbatterono i due Buddha della valle di Bamiyan, in Afghanistan. E così via. Non è la motivazione più o meno nobile a generare l’atto vandalico, bensì la distruttività della natura umana (parafrasando il titolo di un libro di Erich Fromm) a generare forme di violenza e abuso.
Quello che dimostra, però, la totale assenza di complessità nella mente dei vandali era, nel caso delle cosiddette ambientaliste della National Gallery di qualche mese fa (poi emulate a noia), l’aver colpito un simbolo di quella natura che loro dicono di voler salvaguardare. I girasoli, per chi abbia senso della bellezza e della meraviglia della natura, sono l’apoteosi della pienezza e maturità di una madre terra, solare e feconda, che si dischiude di fronte a noi anche nella giornata più cupa della nostra vita. Tra le mille vessazioni regalateci dai Governi Conte e Draghi, impedire agli italiani di recarsi in un museo è stata, in certo senso (con la chiusura delle scuole), la più infausta e immotivata. L’arte e lo studio sono le più alte vette dell’ingegno umano – in grado di creare pensiero critico. Ma non per quella massa di borghesi che, ieri, credeva di fare la rivoluzione in eskimo e oggi in capello rosa e tatuaggio al braccio, maglietta coordinata e lattina di tomato soup – messa in primo piano, quasi le ‘ambientaliste’ fossero in posa per la pubblicità della nuova performance pop à la Warhol. Simili personaggi non si rendono nemmeno conto dei cliché che trasudano, e della povertà dei loro mezzi espressivi: violente e, per di più, inefficaci (visto che ciò che imbrattano è un vetro di protezione).
Per queste (o questi) prepotenti esponenti di una borghesia sazia in un’Europa che sta implodendo per troppo benessere, andare di fronte a una raffineria della Shell, ogni giorno, a volantinare, a parlare con gli operai, sarebbe troppo sudore e non finirebbero nemmeno in prima pagina o sulle emittenti televisive; mettere in dubbio la guerra in Donbass, lo shoal gas e le politiche ambientaliste di chi bombarda gli indipendentisti ucraini anche meno. E alla fine il dubbio che sorge è che ciò che realmente bramano, questi green, è finire su una T-Shirt.
Potremmo arrivare a immaginare che di fondo questi rivoluzionari del Super Attak (anche se non siamo certi su cosa abbiano usato per incollare le mani) siano più o meno gli stessi che volevano regalare vaccini inutili all’Africa dopo essersene accaparrati 10 dosi a testa come Europa e, da perfetti colonialisti/paternalisti, avrebbero inoculato i nostri scarti (quelli che ai giovani potevano causare la trombocitopenia) a popolazioni con età media di 19 anni. Gli stessi che volevano andare in Amazzonia a portare col vaccino, il virus, senza chiedere alle popolazioni indigene latinoamericane come volessero curarsi – i Maya in Chiapas, ad esempio, hanno preferito una buona alimentazione, l’assistenza familiare, i propri promotori della salute e le erbe della tradizione ai nostri vaccini non immunizzanti e ai nostri medici che scappavano online.
Tutta questa brama di salvare il mondo che non prende mai in considerazione il fatto che il mondo non è solamente l’Europa+gli States, bensì miliardi di persone che fino a ieri non hanno avuto nemmeno l’acqua potabile (2,6 mld) o l’elettricità (770 mln) e che potrebbero anche avere di che obiettare contro coloro che vorrebbero continuassero a non averli, per salvare i figli dell’occidente onnivoro e pasciuto.
In questo bailamme in cui la security ha sicuramente fallito (a meno che qualcuno non pensasse che un atto vandalico sarebbe stata una buona pubblicità per la mostra o il museo), a metà novembre i direttori museali osavano finalmente dire qualcosa, denunciando la sottovalutazione della fragilità delle opere in mostra. Tra i molti, i responsabili del Metropolitan e del Guggenheim di New York; del British Museum, del Victoria and Albert Museum e della National Gallery di Londra; della Galleria degli Uffizi e della Peggy Guggenheim Collection, a Firenze e a Venezia; del Louvre, del d’Orsay, del Centre Pompidou e del Musée National Picasso di Parigi; oltre che del Prado di Madrid e del Guggenheim di Bilbao. Troppo poco, troppo tardi. La fiera delle vanità ha continuato a mietere consensi tra gli esponenti di quel pensiero unico dominante che è diventato diktat di moda con la pandemia.
Troppo facile finire su una copertina rischiando una multa (che magari pagherà papà). “Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. lo no, amici” (1).
(1) Da Pier Paolo Pasolini, c.s.
venerdì, 13 gennaio 2023
In copertina: Campo di girasoli. Foto di Enrique da Pixabay.