Vento di speranza anti-capitalistico
di Luciano Uggè e Simona Maria Frigerio
“A stento sopravvissuta, temuta solo per il contagio delle sue idee, la Russia era in questo quadro internazionale isolata e immiserita, quasi un lazzaretto. Attorno a essa era stato steso il ‘cordone sanitario’. Eppure, grazie tanto alla sua estensione, quanto all’unicità della sua scelta rivoluzionaria, essa era in grado, pur nell’estrema povertà dei suoi mezzi, di rivolgersi con un linguaggio nuovo a tutte le grandi forze che si affrontavano nel mondo postbellico”, così descrive Giuseppe Boffa quel lontano 1919 in Storia dell’Unione Sovietica.
In quel clima, con un’Europa devastata dalla Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico – che, fino al 1910, includeva undici gruppi etnici: tedeschi, ungheresi, cechi, slovacchi, polacchi, ucraini, sloveni, croati, serbi, rumeni e italiani – il pensiero marxista-leninista si diffuse rapidamente tra le classi operaie occidentali e altrettanto rapidamente l’utopia dell’estensione della rivoluzione bolscevica oltre i confini della Russia si infranse contro la feroce repressione borghese e capitalista. In Germania, la rivolta degli spartachisti fu tacitata nel sangue dai Freikorps, che liquidarono anche Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht – a tirare i fili, Friedrich Ebert e il Partito Socialdemocratico di Germania (la SPD); il biennio rosso, in Italia, portò all’ascesa dell’ex socialista, direttore dell’Avanti, e fondatore del fascismo, Benito Mussolini; in Ungheria, il Governo comunista di Béla Kun fu cancellato dalla storia dall’ammiraglio Miklós Horthy (divenuto famoso in seguito quale alleato dei nazisti, durante la Seconda guerra mondiale, e come solerte collaboratore all’Olocausto, sebbene grazie alle pressioni statunitensi non fu mai accusato di crimini contro l’umanità).
Ma torniamo indietro, al 30 dicembre 1922, quando Russia, Ucraina, Bielorussia e le Repubbliche Transcaucasiche (Azerbaijan, Armenia e Georgia) firmarono la Dichiarazione e Trattato sulla formazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che sanciva la nascita di una Federazione in certo senso molto avanzata. La stessa permetteva sia l’ammissione di nuove repubbliche sia l’uscita di ciascuna di esse e che l’unione esercitasse la propria autorità solo in alcuni campi: relazioni esterne e commercio, difesa e forze armate, pianificazione economica e delle finanze, diritto unitario di base, mentre per tutto il resto lasciava ampia autonomia.
Perché ricordare quel momento storico a un secolo di distanza?
In primis perché, aldilà degli errori commessi dal socialismo reale, è indubbio che dal 1945 al 1991 – ossia durante il periodo dei due blocchi contrapposti – in Europa abbiamo goduto di un lungo periodo di pace. Non solamente a causa della minaccia atomica ma anche perché il capitalismo ha dovuto necessariamente mostrare un volto più umano. Allora si poteva ancora fingere di essere inclusivi perché aldilà della cortina di ferro le persone non potevano muoversi liberamente; si doveva provvedere a una ridistribuzione delle ricchezze – grazie ai servizi pubblici, dall’educazione alla sanità fino al sistema pensionistico – per dimostrare come anche in un sistema capitalistico i proletari (o cittadini) godessero di garanzie e forme di democrazia sociale (e non solamente formale).
In secondo luogo a un secolo di distanza e quarantun anni dopo la fine dell’Urss, si ricomincia a discutere – proprio in Russia e nella Repubblica Popolare Cinese – di servizi pubblici, diritti sociali, pianificazione economica a favore di una redistribuzione delle ricchezze. Sia il Paese che ha abbandonato il socialismo reale sia quello che continua a definirsi comunista (ma è più prossimo a un capitalismo di Stato) si interrogano sulle loro radici e ragioni di esistere. Alla fine della guerra – quella in Donbnass ma anche quella economico-finanziaria tra monopolio Usa del mondo e Brics / o tra FMI e Banca Mondiale, da una parte, e la cinese AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), dall’altra – avremo la riconferma di un mondo unipolare o la novità di un mondo multipolare?
La terza ragione per ricordare quel 30 dicembre sta nell’eredità della Teoria della Rivoluzione Permanente, strettamente connessa con la Legge dello sviluppo diseguale e combinato enunciata da Trotsky. Nella storia, anche recente, si è visto come la mancanza di consapevolezza politica della classe lavoratrice porti alla leadership dei movimenti rivoluzionari quella classe media (o borghese) che, per sua natura, conduce a un ritorno al potere del capitalismo e dei suoi referenti politici. Al contrario, solamente là dove la classe lavoratrice non si sia ancora fatta abbindolare dalle sirene del liberismo, dell’egoismo e del capitale, ma al contrario sia cosciente del proprio ruolo e persegua obiettivi comunitari e socialisti si potranno avere i risultati che si sono visti in Bolivia e nelle comunità anarchiche zapatiste del Chiapas. Ma perché queste e altre realtà possano moltiplicarsi e avere un futuro occorre sradicare l’idea che un solo mo(n)do sia quello possibile.
Ora invece Dio è quello che dev’essere.
Dio è diventato molto più alla mano.
Guarda da una cornice di legno.
La tonaca di tela.
Compagno Dio,
Mettiamoci una pietra sopra!
Vedete,
Perfino l’atteggiamento verso di voi è un po’ cambiato.
Vi chiamo ‘compagno’, mentre prima
‘Signore’.
(Anche voi ora avete un compagno).
Se non altro,
Adesso, avete un’aria un po’ più da cristiano.
da Dopo i prelevamenti, Vladimir Majakovskij, 1922
venerdì, 30 dicembre 2022
In copertina: da sinistra, Lev Trockij, Vladimir Ilyich Ulyanov (Lenin) e Lev Kamenev (prima alleato di e poi eliminato da Stalin). Foto di pubblico dominio da: https://comons.wikimedia.org/.