Atto… teatrale
di Sharon Tofanelli
«Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio […]». Così Calvino, che nelle sue Lezioni Americane, auspicava alle generazioni un nuovo millennio all’insegna della leggerezza, intendendola come necessaria metamorfosi.
Anche La Spezia è cambiata. La fluidità del tempo si riflette nell’isteria delle vetrine, nei colori atmosferici, nella gran danza del mondo che non si ferma. E al centro della sarabanda, il Centro d’Arte Moderna e Contemporanea schiude le porte all’ultimo capitolo di Liberare Arte da Artisti. Giacomo Verde artivista.
Anche la mostra, di cui già si è parlato in un precedente articolo, è cambiata. Come annunciato nei primi giorni, spariscono opere e ne arrivano altre: sotto il nome di Reperto AntropoLogico Uno Nove Nove Sette, una sedia a rotelle troneggia – un trono d’impotenza – tra quattro zerbini di benvenuto. Un braccio metallico offre a chi vi si asside un PC portatile e la possibilità di far ruotare la sedia su se stessa. Con questo allestimento si può giocare, vivificata com’è l’arte del presente dai processi e non dai prodotti, dall’esperienza e non dall’esecuzione.
Oggi, venerdì 18 novembre, dopo aver trattato l’opera videoartistica e quella digitale, la retrospettiva del percorso di Giacomo Verde si focalizza sull’influenza del teatro. Il format condotto da Carlo Infante, già direttore del Festival Scenari dell’Immaginario di Narni, è il walkabout: il metodo combina il distanziamento – di nuovo lui – con quell’istinto tutto verdiano di impugnare i media e farne strumento democratico. E così, collegati da un sistema radio e lanciati in diretta online, i visitatori sciamano per la sala, ascoltando e osservando a un tempo. Una sorta di ritorno alla prassi degli antichi, eminentemente orale, quando in sala di lettura non si osservava il silenzio, non era necessario. Le prime biblioteche erano allora parlatoi, senza che la capacità d’attenzione vacillasse. E una passeggiata in compagnia aveva il potenziale conoscitivo di un simposio filosofico.
Ma questi sono tempi visivi. L’epoca della Galassia Gutenberg richiede immagini, schemi, documenti. Al centro dell’allestimento ci sono quelle che Infante chiama affettuosamente «scatole della memoria»: dépliant, libelli, fotografie. C’è anche il certificato del Registro degli Esercenti, dove Verde si dichiara ufficialmente ’saltimbanco’. L’artivista, che ha sempre camminato a fianco del teatro – un metaforico walkabout, è il caso di dire – era nato come attore, ma aveva ben presto deviato dal percorso.
Se ne ricorda il regista teatrale Dario Marconcini, che lo aveva avuto come allievo a Pontedera agli inizi degli Anni Ottanta nel progetto intitolato a Stanislawskij. Racconta di uno sguardo disincantato e tagliente, da espressionismo tedesco. E consegna al deposito una memoria del 1982 ritrovata in archivio, nella quale il giovane Verde si interroga sul personaggio che gli è stato assegnato (Nikolaj, da I Demòni di Dostoevskij). «Penso che noi dobbiamo raccontare», scrive, «questo è il nostro scopo». Un impulso al racconto che mal si accorda ai limiti del mezzo, sia esso un palcoscenico o uno schermo. «Sono un cantastorie», dice a Marconcini. «Non posso fare Otello».
Massimo Marino, critico d’arte e amico, ne ricorda una successiva collaborazione col Teatro delle Albe, sul finire degli Anni Ottanta.
1997. A Castiglioncello è l’anno di InterScena, un ciclo di incontri a cura di Paolo Atzori e Carlo Infante, con il coinvolgimento dei docenti dell’Accademia di Colonia. Si ragiona delle potenzialità digitali nella ridefinizione dello spazio e della percezione. Il nome di Giacomo Verde ricorre in più appuntamenti, con un occhio rivolto al Rinascimento esoterico e al suo concetto di teatro come dispositivo mnemonico. «Nell’approccio interattivo», asserisce Infante dai meandri della radio portatile, «c’è qualcosa che è inscritto nel principio attivo del teatro». Si ha già il futuro digitale nell’antica scena. Ma prima ancora c’è Bit, esito del Progetto Euclide, 1993. Animato per mezzo di un guanto sensore, il ‘Personaggio Sintetico’ (come lo chiama la vecchia brochure) pronuncia le parole di Verde, interagisce col pubblico e racconta storie. È il teatro digitale, che consegna il Nostro alla propria vocazione di cybernarratore.
Il 1998 è l’anno di Storie Mandaliche, tecnoracconto con elementi ipertestuali: sette trame che si intrecciano modellandosi sulle scelte del pubblico e degli operatori e obbedendo al disegno delle mani di Verde. Il nuovo millennio assiste persino ai drammi olografici. Tutto questo è oggetto d’archivio e in momenti di raccoglimento si vorrebbe esplorare, scartabellare quel tripudio di fogli e opuscoli e fotografie. Andrea Balzola, sceneggiatore delle Storie Mandaliche, risponde a una telefonata in diretta per raccontare l’avventura del ʻ98 e il passaggio di Verde dalle strade allo schermo. Ma è uno schermo che non fagocita, che anzi si piega alla creatività umana. È l’ultimo barlume, la strenua consapevolezza che la macchina perfetta ancora non è viva.
Conclusosi il walkabout, dieci minuti di esperienza diretta: Carlo Presotto e Paola Rossi danno una dimostrazione di E fu così che la guerra finì, Tele-racconto del 1996, la piccola enorme invenzione dell’artivista. Lo spettacolo nasce sulla base di un progetto scolastico triestino, sul confine con l’ex Jugoslavia. Il tema è, naturalmente, la guerra. Il mezzo della telecamera, che si rivolge al mondo per coglierlo e cristallizzarlo, china il capo sulla banalità delle dita, dei fiori, di oggetti usa-e-getta del quotidiano. Sul filo della narrazione di Presotto, i piccoli elementi compongono un diorama fabulistico: schede informatiche che diventano piante cittadine o cimiteri, petali come sangue, un indice calzato in un ditale per impersonare la marcia di un soldato. E così, nell’apparente umiltà della ripresa, ecco che ammicca il sottofondo di menzogna della televisione, le cui immagini «non danno informazioni», scriveva Verde, «ma raccontano storie, favole […] Il problema è che la maggior parte dei telespettatori crede alle storie della TV come i bambini credono al lupo cattivo o a Babbo Natale». Quando poi si racconta la guerra, e i tempi che corrono ne sono prova lampante, l’apparecchio mediatico dà fondo alle proprie risorse pur di spremerne il massimo della spettacolarità.
Al piano superiore è la conferenza di chiusura: ci sono Angela Fumarola, direttrice di Armunia, Carlo Infante, Carlo Presotto, Dario Marconcini e Alessandra Moretti, danzatrice. Quest’ultima ricorda la genesi di Piccolo diario dei malanni, il testamento artistico portato sul palcoscenico di SPAM, Porcari, anno 2018. Uno spettacolo semplice, scaturito dal gioco di un taccuino medico, su cui l’artista aveva iniziato ad appuntare le malattie dei compagni di viaggio, ritrovandosi inviluppato in un progressivo aggravarsi di registro: la morte della madre, la morte degli amici, il tumore. Nelle pagine dedicate alla madre che, obbedendo al format del Tele-racconto, poggiano tra il tavolo e l’obbiettivo della macchina da presa, è forse una delle motivazioni più calzanti alla base della sua intera produzione creativa: «Non ricordo se ho già scritto che ho iniziato a occuparmi di arte e cultura perché volevo ‘guarire’ mia madre. È sempre stata ‘male’. Pensavo che soffriva perché aveva una ‘cultura’ sbagliata, che l’avrebbe fatta stare sempre male. Per questo volevo elaborare un’altra cultura.» Giunto alle ultime note, in cui Verde dichiara che, una volta guarito, farà un pellegrinaggio a Roma, cesserà di scrivere e danzerà un arabesco, il tecnonarratore chiude il piccolo diario e vibra le mani allo stornello di un cantante orientale. Per questo, rammenta Alessandra Moretti, aveva chiesto che gli fosse insegnato a ballare.
Vacante al tavolo condotto dalla giornalista Simona Maria Frigerio è la regista Vania Pucci, personaggio cardine nella memoria del Tele-racconto. Contribuisce con un video di otto minuti narrando di un Hansel e Gretel rappresentato ai bambini con le dita, un Bacio Perugina, un Pan di Stelle e una noce. In seguito, rammenta, ci sarebbe stata La Sirenetta di Andersen, risolta capovolgendo la telecamera su una vaschetta d’acqua – e invertendo, di fatto, il cielo col mare; e poi Boccascena, con la bocca parlante della drammaturga zoomata e colta sottosopra, sia narratrice che personaggio; quindi una Biancaneve quadruplicata ai quattro angoli del mondo (Biancaneve, Brunaterra, Neranotte e Giallaluna), con la purissima strategia delle quattro telecamere che catturano la Pucci da poli opposti. Tecnologie passate, tecnologie ridotte all’osso. Come i giocattoli passati di moda, la cui principale virtù era il limite tecnico da scavalcare a suon di fantasia.
Fuori dal Museo la sarabanda delle immagini continua. È la velocità dei tempi, col suo valore misurabile. E la seconda lezione americana, la rapidità mentale, che le si oppone. E Giacomo Verde, con tutta la grazia del caso, ne sapeva qualcosa.
La mostra continua:
CAMEC (Centro d’Arte Moderna e Contemporanea)
piazza Cesare Battisti, 1 – La Spezia
fino a domenica 15 gennaio 2023
da martedì a domenica, dalle ore 11.00 alle 18.00
Liberare Arte da Artisti. Giacomo Verde Artivista
a cura di Andreina Di Brino, Sandra Lischi, Anna Maria Monteverdi e Tommaso Verde
venerdì, 9 dicembre 2022
In copertina: Il Teleracconto Hansel e Gretel. Kit aperto. Foto di Valentino Albini (gentilmente fornita dalla curatrice della sezione teatro, Anna Maria Monteverdi)