Il parco archeologico siracusano saccheggiato da Carlo V°
di Simona Maria Frigerio
Neapolis è un parco un po’ particolare: metà del suo fascino e della sua fama risiede non nei resti di antichi templi bensì nelle latomie, ossia le cave di pietra che, in età greca, erano utilizzate come carceri per prigionieri di guerra o delinquenti comuni e che poi hanno subito modifiche morfologiche anche importanti e forme di sfruttamento diverse.
Purtroppo, da subito, ci accorgiamo che la latomia di Santa Venera, la necropoli dei Grotticelli con tombe di varia epoca – dalla Grecia Antica all’Impero Bizantino – la cosiddetta tomba di Archimede e perfino la Grotta dei Cordari (riaperta dopo decenni nel 2021) sono tutte aree interdette al pubblico (precisiamo che abbiamo visitato il sito il 20 settembre 2022).
È invece accessibile la Grotta del Salnitro. Come forse molti sapranno il materiale era indispensabile per produrre la polvere da sparo, insieme a carbonella e zolfo, e la Sicilia possedeva tutti e tre i componenti – come dimostravano le famigerate solfatare nelle quali morivano i carusi, ossia i bambini-schiavi, sfruttati per tutto il XIX° secolo e fino al 1970 (spesso resi storpi e rachitici da quel lavoro massacrante). Il salnitro – visibile ancora oggi sulle pareti della Grotta – è costituito da sali minerali biancastri che proliferano sui muri umidi e mal ventilati delle grotte (ma anche tra le piastrelle delle abitazioni se molto umide). La lavorazione del salnitro era particolarmente insalubre in quanto si utilizzavano i cosiddetti letti nitrosi, sui quali si sovrapponevano terra calcarea, letame e ceneri, che venivano irrorati, smossi e trattati per tre anni con ulteriori colature di letame, orine di stalla e lisciva.
Accanto, ecco il famoso Orecchio di Dionigi o Dionisio. La grotta, dotata di un’amplificazione eccezionale, è ubicata nella Latomia del Paradiso, al centro di un lussureggiante agrumeto. Alta 23 metri circa e profonda 65, prende il nome dalla forma a S della sua entrata che rimanda a un padiglione auricolare e che (unitamente alla sua acustica) diede adito alla leggenda che voleva il tiranno Dionigi rinchiudervi i propri nemici per spiarne i discorsi. In realtà fu scavata per estrarvi il calcare e ancora oggi, sulle sue pareti, si intravedono i segni della lavorazione della roccia e il suo distacco in grossi blocchi quadrangolari.
Dalle grotte alle vestigia greco-romane
Il clou della visita è costituito dal Teatro Greco di Siracusa. Edificato probabilmente intorno al V° secolo a.C. – anche se ciò che vediamo oggi è frutto di una successiva sistemazione datata intorno al III° secolo sempre a.C. Purtroppo dell’intera skené, ovvero la scenografica facciata che si elevava alle spalle del proskénion (l’attuale palco ove si esibiscono – come allora – gli attori), che è presente, ad esempio, nel Teatro Antico di Taormina sebbene restaurata, non resta più nulla. Infatti, l’Imperatore Carlo V° nel corso del Cinquecento, la saccheggiò per utilizzarne i blocchi in pietra nelle sue opere di fortificazione contro gli ottomani. Resta, al contrario, gran parte del kóilon, la cavea ove si sedeva il pubblico, grazie al fatto che le gradinate erano direttamente scavate nella roccia e il teatro sfruttava la pendenza naturale del terreno (come a Taormina). Purtroppo non ci è stato possibile apprezzare una visione d’insieme della cavea dal punto in cui si trovava il palcoscenico (né verificarne l’acustica), dato che la parte inferiore era, ancora una volta, interdetta ai visitatori (si stavano smontando le strutture in legno usate come palco per i concerti e che ricoprivano ancora parte delle gradinate).
Nella zona soprastante la cavea sono visitabili la Grotta del Ninfeo, dove si pensa che si riunissero gli attori (nel V° secolo a.C.) prima di iniziare la recita – soprattutto al tempo di Epicarmo, il co-fondatore della commedia siceliota con Formide; e una piccola parte dei 150 metri di lunghezza della Via dei Sepolcri, caratterizzata da muri che contengono nicchie in cui si pensa fossero posizionate, in età greca, delle edicole votive e che era, probabilmente, uno tra gli ingressi al teatro.
Dell’Ara di Ierone II – coeva al rifacimento del teatro ossia del III° secolo a.C. – resta unicamente il basamento scavato nella roccia (perché i blocchi soprastanti sono probabilmente finiti anch’essi nelle opere di fortificazione di Carlo V°). Detta base è lunga 198 metri e larga 22,80.
L’ultimo edificio che incontriamo è l’Anfiteatro Romano, probabilmente del II° secolo d.C. In gran parte scavato nella roccia come la cavea del teatro, sfrutta la pendenza naturale del terreno. Anche di questo monumento non rimane quasi nulla della parte superiore costruita con blocchi di pietra. Lungo circa 140 metri e largo 119 dobbiamo supporre avesse proporzioni monumentali ma come dimostra l’intero parco archeologico la guerra ebbe la meglio su qualsiasi altra considerazione – a parte il fatto che solamente in epoca Romantica si rivaluteranno le vestigia antiche presenti nel nostro Paese come in altri, affacciati sulle coste del Mediterraneo.
venerdì, 21 ottobre 2022
In copertina: L’orecchio di Dionigi o Dionisio, foto di Hilmar Buschow da Pixabay.