P.T. Anderson ritrova la freschezza di Boogie Nights
di Simona Maria Frigerio
Esistono registi che si adeguano al genere (pensiamo a Stanley Kubrick) e altri che pare abbiano un marchio di fabbrica. Tra questi ultimi sicuramente P.T. Anderson: più che un regista, un cineasta a tutto tondo, dato che scrive anche le sceneggiature, produce e si occupa perfino della fotografia. E in Licorice Pizza, la sua mano si vede sotto molteplici punti di vista.
Anderson sa ricreare un’epoca con particolare accuratezza anche dal punto di vista fotografico e non solamente degli abiti e degli interni o a livello musicale (sebbene le musiche, soprattutto come veicolo emozionale, siano scelte e dosate con maestria). Affrontando gli anni 70, il regista riprende in primissimo piano i volti dei protagonisti (Alana e Gary) con tutte le imperfezioni dell’età (in omaggio anche a quel realismo hollywoodiano che nei ‘70 riusciva a portare al successo attori come la coppia John Cazale e Meryl Streep, i quali, sicuramente, non si poteva dire fossero belli secondo i canoni tradizionali). La folla dei teen-ager che li circonda ha la freschezza di un Gus Van Sant; mentre i costumi dell’epoca si fanno largo nella nostra coscienza attraverso piccoli particolari preziosi – una scena a esempio: Alana e Gary sfogliano un quotidiano e, tra le notizie sul razionamento della benzina (che pare quantomai attuale), spiccano pubblicità sulla libertà sessuale intesa anche come accesso alla pornografia (Boogie Nights – L’altra Hollywood, non a caso, è stato il secondo film di Anderson, dedicato proprio alle star dei porno movie anni 70 e 80). Non manca nemmeno l’umorismo tipico del regista: con la parodia delle sit-com familiari coeve (sul genere dei Bradford, certamente non di Shameless) e i ritratti sopra le righe à la John Landis, come quello di Jon Peters (interpretato da un Bradley Cooper che pare divertirsi molto nel ruolo).
Registicamente, ritroviamo i lunghi piani sequenza di Anderson così come le inquadrature dove il particolare ‘hitchcockiano’ in primissimo piano fa sbiadire persino il personaggio (i piedi di Alana piazzati sulla scrivania e il volto di Gary che le ammira le gambe mentre prova un brivido di gelosia perché lei, per vendere un materasso ad acqua, mostra quanto una venticinquenne può essere sexy con un cliente), o le cui diagonali spostano il o la protagonista dal centro della storia – e dello scherno – a latere di un universo che Anderson tenta di ricostruire nella sua complessità. E ancora, le inquadrature in cui esclude il personaggio che sta parlando, celandolo alla nostra vista (contravvenendo a un principio cinematografico) perché sono gli altri i veri protagonisti: coloro che subiscono le conseguenze della retorica del potere (Benny Safdie, nel ruolo del politico gay, Joel Wachs, che liquida l’amante Matthew, interpretato da Joseph Cross, chiedendo ad Alana di accompagnarlo a casa come se fosse il di lei e non il proprio uomo, e degradando la propria sostenitrice – che lavora per lui come volontaria, ossia gratis – più o meno a dog-sitter). Ma forse è la corsa l’elemento che risalta maggiormente: quella folle esplosione di vitalità che Anderson riprende per tempi cinematografici sproporzionati e che, ogniqualvolta Alana e Gary cercano di allontanarsi l’uno dall’altra, li porterà a ritrovarsi abbracciandosi.
A livello subliminale emerge, però, un quadro diverso. Dietro l’apparente ingenuità e freschezza di questo film, godibilissimo dall’inizio alla fine, si può anche intravedere il futuro degli States. Se Alana cerca per tutta la durata della pellicola di ‘fare la cosa giusta’, impegnandosi anche politicamente, dimostrando di essere una donna intelligente e colta, consapevole di ciò che le accade intorno e che vorrebbe cambiare il mondo, riaffermando, nel contempo, la centralità di alcuni valori anche morali; dall’altra, Gary è l’esempio tipico del self-made man: lo statunitense che afferra qualsiasi opportunità pur di far soldi e pensa che il mondo giri intorno a lui (o, al massimo, intorno a lui e al suo Paese). Gli anni 70 che vanno in piazza contro la guerra imperialista in Vietnam contrapposti agli ‘80 – esaltazione dell’edonismo di Wall Street in film come l’omonimo, interpretato da Michael Douglas nel ruolo di Gordon Gekko (1987: firmava Oliver Stone), e in libri quali il capolavoro di Bret Easton Ellis, American Psycho (pubblicato nel 1991). Vincerà Gary (con la sua amoralità contagiosa) perché Alana si renderà conto, come in tutti i film di Anderson, che nessuno si salva e non ha senso avere fede né in una religione, né nella politica o nella giustizia sociale perché siamo tutti marci – tranne forse un quindicenne, pure lui un po’ ‘bacato’ ma, almeno, sincero.
Nel ruolo del protagonista, Cooper, il figlio di Philip Seymour Hoffman (attore/feticcio di Anderson, con il quale il regista ha collaborato dall’inizio della carriera fino alla morte prematura). E per una volta, buon sangue non mente. Alana Kane, interpretata da Alana Hai, è altrettanto in parte e con una luminosità sua propria: donna agli albori degli anni 70, divisa tra rispetto delle tradizioni (anche religiose) e istintiva voglia di viversi la vita come viene. Camei di Sean Penn e Tom Waits.
Da notare che il film, nonostante abbia ricevuto una valanga di candidature, ha vinto ben poco. Forse perché non vi è ritratto nessun caso umano, malato terminale o genio in carrozzina; forse perché gli States non amano chi li descrive come superficiali, egoisti e bugiardi; o forse perché il film è ben lungi da quella political correctness che ammorba ogni slancio vitale, ritraendo la delicata ma credibile opera di seduzione e innamoramento reciproco tra una venticinquenne e un quindicenne.
Licorice Pizza
regia Paul Thomas Anderson
sceneggiatura originale Paul Thomas Anderson
con Alana Haim (Alana Kane), Cooper Hoffman (Gary Valentine), Sean Penn, Tom Waits, Bradley Cooper, Benny Safdie
fotografia Michael Bauman e Paul Thomas Anderson
montaggio Andy Jurgensen
musiche Jonny Greenwood
2021
133 minuti
venerdì, 21 ottobre 2022
In copertina: La Locandina del film.