Nessuno pensi a me. / Pensiamo a tutta la terra*
di Simona Maria Frigerio
I russi sono decisamente auto-lesionisti – se non addirittura masochisti. Dopo essersi auto-bombardati a Zaporozhye, rischiando di uccidere il popolo del Donbass proprio alleato e i propri militari stanziati a difesa della centrale nucleare (o almeno così hanno cercato di farci credere i media occidentali e persino gran parte dei nostri politici), adesso starebbero auto-sabotando il proprio gasdotto, il famoso Nord Stream 2, che avrebbe come unico scopo – se fossimo non dico furbi ma almeno minimamente interessati alla sopravvivenza economica dell’Europa e dei suoi cittadini – quello di rifornire di gas a basso costo le nostre aziende e le nostre case, evitandoci che le prime emigrino negli States o altrove (dove il prezzo dell’energia è inferiore) e che nelle seconde soprattutto gli anziani, i malati e le persone meno abbienti crepino di freddo a migliaia (dopo essere scampati al Covid Alpha).
Per la seconda volta i russi chiedono alle Nazioni Unite di intervenire. Come avevano voluto che a Zaporozhye fosse presente una delegazione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica per verificare chi stesse bombardando l’impianto (tra i più grandi al mondo), adesso vorrebbero che l’Onu avviasse un’inchiesta seria sugli atti di sabotaggio al gasdotto (se confermati come tali). Il sospetto è che lo Zio Sam possa avere qualcosa da guadagnarci: l’affossamento definitivo dell’economia europea e dell’Euro, aziende che migrano verso i suoi lidi dorati (dove lo sfruttamento dei lavoratori raggiunge vette a cui i nostri industriali ancora aspirano e l’energia costa forse un settimo rispetto al Belpaese) e la vendita dell’inquinante e costosissimo gas di scisto ai beoti europei che vorrebbero sopravvivere all’inverno.
Solo fantapolitica? Già il 7 febbraio il Presidente Joe Biden prometteva (come ripreso da ABC News): «Se la Russia invade, intendo con carri armati e truppe oltrepassa nuovamente le frontiere dell’Ucraina, allora non ci sarà più il Nord Stream 2» (1). Ogni promessa è debito.
I referendum del popolo che non c’è
L’Europa paladina dei popoli, che si straccia le vesti per gli uiguri (e sfido i cittadini della Ue a indicare chi siano senza ricorrere a Wikipedia) ma si è dimenticata dei tibetani per settantadue anni; l’Europa che si stringe agli israeliani, nascondendo la coda di paglia del proprio antisemitismo strisciante, ma che per settantaquattro anni non ha mosso un dito in favore dei palestinesi e si scandalizza se il Presidente Abu Mazen accusa Israele di Olocausto nei confronti del proprio popolo; l’Europa che vede l’Onu, dal 1999, amministrare ‘ad interim’ il Kosovo con la Missione UNMIK e che non si pone il problema di mettersi al tavolo con Priština e Belgrado per trovare finalmente una soluzione (perché, forse, la spina nel fianco della Serbia la ringalluzzisce troppo); l’Europa che guarda dall’alto del suo status di ex Paese colonialista il Sahara Occidentale, che attende si svolga il referendum per la propria indipendenza dal 1991 – con la missione Onu denominata MINURSO, incaricata di organizzarlo nel lontano 1992, che ancora non ci è riuscita (sic!) – mentre la Spagna (Paese europeo) proprio quest’anno, per bloccare un po’ di migranti, decide unilateralmente che il territorio è parte del Marocco; ebbene, questa Europa paladina dei popoli cosa ha mai fatto per il Donbass?
Questa Europa è logico che si permetta di cancellare la volontà e persino l’esistenza del popolo del Donbass, continuando a rivendicare i diritti territoriali dell’Ucraina come se le frontiere (quel coacervo di linee sul mappamondo che ci siamo inventati a più riprese per garantire gli interessi del capitale) fossero oggi più intangibili di quelle abbattute nel corso di guerre e rivoluzioni dall’inizio della storia infausta dell’umanità.
Anche rispetto alla Crimea, l’Unione Europea aveva avallato quanto affermava Didier Burkhalter, ministro degli Esteri svizzero e Presidente in carica dell’Osce, l’11 marzo 2014: “Nell’attuale forma il referendum in Crimea programmato per il 16 marzo è in contraddizione con la Costituzione ucraina e va considerato illegale”. Questo ha permesso all’Europa di sanzionare la Russia, considerando la sua annessione della Crimea come illegale, ma le leggi internazionali (a cui l’Ucraina deve sottostare se vuole far parte dell’Onu) raccontano un’altra verità. Ossia che i popoli possono autodeterminarsi anche senza il beneplacito del Governo centrale ed è stata proprio la Corte Internazionale di Giustizia sull’affaire Kosovo, nel 2010, ad aver affermato che la proclamazione unilaterale di indipendenza dello stesso “non viola nessuna norma di diritto internazionale”. Un peso e una misura.
Il referendum che si è tenuto in Donbass, e nelle regioni di Kherson e Zaporozhye, è esente da critiche? Certamente no, dato che sono migliaia i rifugiati nei territori controllati da Kiev, provenienti dal Donbass, che non hanno potuto votare; le votazioni si sono svolte sotto i continui attacchi e le minacce di Kiev; e il Donbass è in guerra (contro l’Ucraina – mentre l’Ucraina è in guerra sia contro il Donbass sia contro la Russia). Ma i risultati, in Donbass (non entriamo nel merito di Kherson e Zaporozhye, su cui non abbiamo dati e riscontri diretti), sono poi così difformi da quelli del referendum autoproclamato nel 2014? Allora la maggioranza dei votanti scelse l’autodeterminazione. Questa volta si è andati oltre, votando l’adesione alla Russia. Per timore dei russi o per timore di Kiev?, sarebbe saggio domandarsi.
A parte sbraitare istericamente – anche a mezzo stampa – che il referendum non è valido, cosa avrebbe potuto e dovuto fare l’Europa? Magari ciò che l’Osce non fece nemmeno in Crimea e che non ha fatto in otto anni in Donbass: aiutare a organizzare e poi controllare che si svolgesse con tutti i crismi della legalità un referendum che qualsiasi popolo ha il diritto di indire se vuole rendersi indipendente da un potere centrale, soprattutto nel caso in cui quel potere centrale venga meno al rispetto dei diritti dei popoli sanciti dalle leggi internazionali e dall’Onu, ossia di seguire le proprie tradizioni, parlare la propria lingua, onorare le proprie festività, conservare i propri costumi, rispettare le proprie regole religiose, e così via. Bastava avere come fine la pace e la risoluzione della controversia. Ma i fini dell’Europa sono altri e, purtroppo, non è detto che coincidano nemmeno con quelli dei nostri cosiddetti ‘alleati’. Riconquistare il Donbass? Distruggere la Russia? Conservare l’egemonia mondiale, esercitando un potere neocolonialista su Africa e America Latina? O trasformare la manodopera europea nella Cina statunitense per favorire gli asset d’Oltreoceano?
In Europa, come in Italia, si va verso la fine della democrazia formale
L’Europa ha smesso di rivendicare la democrazia sostanziale – che è prima di tutto sociale – dalla caduta del Muro di Berlino e finalmente si propone di diventare ancor più un coacervo di poteri forti che nessuno elegge e che decide con strumenti sempre meno democratici. Chiara Amalfitano, docente di diritto dell’Unione europea alla Statale di Milano, su Euronews, si è espressa in merito alla richiesta di alcune istituzioni europee che vorrebbero il superamento del voto all’unanimità per tematiche quali politica estera e sicurezza comune e ha fatto notare: “La tensione tra voto all’unanimità e a maggioranza qualificata segna tutto il cammino del processo di integrazione europea e del suo cammino verso una sempre maggior democraticità. Anche in questo caso, se si toglie l’unanimità in certi campi, bisogna necessariamente garantire una partecipazione maggiore del Parlamento europeo nel processo decisionale, pena un vulnus democratico non compensato. E consentire un maggiore coinvolgimento dell’istituzione rappresentativa dei cittadini dell’Ue in temi come sicurezza comune e politica estera è tutto fuorché banale. Assistiamo a una sorta di trade off tra efficacia decisionale e democrazia”.
A cosa può portare tutto ciò? Non lo stiamo già vedendo in Italia? Aver permesso che una minoranza qualificata abbia una maggioranza schiacciante in Parlamento è sinonimo di governabilità – ma di democrazia? Aver sdoganato – come ha fatto l’illustre collega Massimo Gramellini – i nazisti della Azov, trasformandoli in patrioti con la svastica, è sinonimo di apertura mentale e lungimiranza politica o ci porterà a vedere Casa Pound, il prossimo 27 ottobre, marciare su Roma per festeggiare il centenario di altre ‘eroiche prodezze’? Aver confuso il regime di Kiev – che vieta la Festa dei Lavoratori e che per anni ha bombardato e uccide parte dei suoi cittadini in nome di una presunta intoccabile continuità territoriale – per governo partigiano e gli abitanti del Donbass – che il 1° Maggio lo vogliono ancora festeggiare – per invasori delle proprie terre, è stata visione realistica e strategica da parte del Sindacato o miopia peggiore che aver avallato il green pass e l’espulsione dei lavoratori dai loro posti?
Il pensiero della differenza
Ma a cosa pensano, in questo marasma che ci sta portando a passo d’oca verso l’autodistruzione, le donne italiane? Le ‘mamme, le mogli, le figlie degli eroi’ – come le si appellava una volta, quando gli uomini dovevano andare in guerra – di cosa si preoccupano?
Delle rughe!
In un solo blocco pubblicitario ho appena contato ben sette spot dedicati all’annoso problema. Forse, toltesi finalmente le mascherine, le donne si sono accorte che sono passati gli anni? Sì, ci hanno scippato circa 30 mesi di vita per ʻproteggerci’, e adesso persino una paladina del vogliamoci ‘bene così come siamo’ e che, nel 2015 (a nemmeno 40 anni) si vantava di non essere mai ricorsa alla chirurgia estetica (iniziamo a 18?), la star Kate Winslet – che pretendeva da Lancôme di non cancellarle le rughe negli spot – ben sette anni dopo appare levigata come un’asse piallata da san Giuseppe e promette miracoli con l’ultimo elisir che agisce mentre dormi… In fondo, il ʻsonno della ragione’ è sempre in agguato…
Peccato che contro la guerra non esista elisir – tranne la pace.
Que nadie piense en mí.
Pensemos en toda la tierra,
golpeando con amor en la mesa.
No quiero que vuelva la sangre
a empapar el pan, los frijoles,
la música: quiero que venga
conmigo el minero, la niña,
el abogado, el marinero,
el fabricante de muñecas,
que entremos al cine y salgamos
a beber el vino más rojo.
Yo no vengo a resolver nada.
Yo vine aquí para cantar
y para que cantes conmigo.
(Pablo Neruda, ultimi versi di Oda a la paz)
(1) http://abcn.ws/3B5SScx
venerdì, 7 ottobre 2022
In copertina: The shopkeeper, Percy Macquoid, 1852/1925 (made with Mematic).
Nel pezzo: Foto di Andrew Martin da Pixabay (solo per uso editoriale).