I manichini di Samuele Atzori, artista concettuale in Toscana
di Sharon Tofanelli
A Samuele Atzori (Barga, 1988) piace camminare.
Cammina e nel frattempo ragiona. Complessi ricami si compongono sulla sua testa. Le conversazioni migliori le fa appunto camminando così, di notte, sulle Mura lucchesi.
“Tutte le cose più grandi che conosciamo ci sono venute dai nevrotici”, scrive Marcel Proust ne I Guermantes. L’autore della Recherche, a cui dobbiamo anche la deliziosa metafora dei pozzi artesiani per esprimere la necessità di una sofferenza profonda affinché l’arte per reazione s’innalzi (1), è soltanto una tra le voci che contornano l’artista romantico, avviluppato in un’angoscia che, oggi più che allora, seduce il voyeurismo delle masse imponendo l’icona.
Non lo vogliamo fare. Il lettore non avrà modo di conoscere le esperienze biografiche di Samuele Atzori (che, per inciso, sono state spiacevoli, a tratti drammatiche). Il dolore è un dono collettivo, uno dei pochi ai quali, come la morte, avremmo pure fatto a meno volentieri, grazie. Non è il dolore a fare in toto l’artista, sebbene dell’artista sia spesso la propulsione. Ma quando parliamo delle opere del ragazzo toscano, è più lecito portare l’attenzione su ciò che al dolore si oppone.
Subito un esempio, per esser chiari. Alla Galleria Lanza, in via Garibaldi 66 a Pietrasanta, Samuele Atzori sta esponendo Pregiudizio, prima opera datata 2020. Tre manichini da disegno, il tratto distintivo della sua produzione, stanno allineati sulla piattaforma di un patibolo. Ma soltanto uno è preso dal cappio e ci sorride con le ginocchia affondate nel prato. Per i superstiti, torvi e sofferenti, ci sono i vincoli del burattinaio e la pece nera a insudiciare i piedi. “Si dice spesso che il suicidio sia un atto di vigliaccheria”, scrive l’artista. “Tuttavia, chi si aggrappa a tutti i costi alla vita ha timore di morire. […] Di conseguenza, si può dire che in entrambi i casi vi sia un atto di vigliaccheria, in uno rispetto alla vita, nell’altro rispetto alla morte”.
Pregiudizio poggia su tre colori, se escludiamo il nero. E su di essi poggia anche una serie di associazioni: blu e rosso per il binomio di tempo e spazio, verde per esprimere il distacco della dimensione mentale. Di fatto, il cappio verde isola il suicida in una quiete ultraterrena, abbandonando i superstiti alle catene della realtà sensibile. La semantica dei colori ricorre in quasi tutte le opere e spesso è l’elemento chiave per la loro interpretazione. Al di là del vissuto individuale, abbiamo a che fare con la codifica di concetti a lungo razionalizzati. È un mondo disciplinato, quello di Samuele. Lo strepito della vita si riassume in forme ridotte, elementari. La quiete del simbolo avvolge le criticità dell’esistenza e le cristallizza in un permanente momento di autocoscienza.
Cosciente è giustappunto il titolo di un pezzo estremamente minimale. Sporcato di tonalità asfalto, il piccolo uomo allunga una mano e solleva il capo: sta piovendo. Atzori, che da un po’ di tempo ha intrapreso il percorso della meditazione e lo studio della filosofia orientale, racconta di aver voluto immortalare l’istante, comune a tutti gli individui, in cui, ritrovandosi solo e colto di sorpresa, l’individuo sospende i propri processi cognitivi; l’immanenza dell’hic et nunc lo travolge alle spalle e per un beato millisecondo la macchina cessa di cigolare. Sta piovendo.
La fascinazione per i manichini non è del tutto chiara all’artista. Figlio di uno scultore di legni e minerali e incantato dal Pinocchio di Luigi Comencini, già da bambino si soffermava presso le vetrine dei negozi di belle arti, rapito da questi umani semplificati. D’altronde, al di là della sua accentuata sensibilità, è in possesso – e talvolta è posseduto – di una prassi logica che trova sempre il modo di imporsi: nulla lo affascina come l’avvicinarsi agli oggetti per carpirne il segreto tecnico («devo capire come l’ha fatto»), così come il ricorrere di certi numeri (ogni catalogo conta esattamente tredici opere, o non si ritiene concluso) e l’equilibrato disporsi degli oggetti di tutti i giorni, secondo una necessità che ha quasi del pitagorico. Samuele Atzori, più che un artista che ha vissuto il dolore, è una mente creativa che al dolore pone dei limiti armonici. Il ché non significa negarlo, tutt’altro: Principio di morte, con la minuscola cassa funebre tra le ginocchia della puerpera, porta subito alla mente il beckettiano “partoriscono a cavallo di una tomba” (Samuel Beckett, Aspettando Godot).
Un’altra caratteristica, sposa della semplificazione dei soggetti, è anche questa proliferazione del piccolo, del dettaglio da osservare da vicino. In questo mondo di elementi ridotti echeggia l’Homo Ludens di Johan Huizinga, che adopera il gioco come razionalizzazione del grande Caos. Ma sui tavoli del creativo di Barga i giocattoli non sono propedeutici alla vita: sono piuttosto le sue vestigia, il suo monumento (dal latino memento, ossia ʻricordati’), la sua lezione posteriore. Il termine ʻesorcismo’ fa peraltro la propria comparsa, ed è quasi pleonastico affermarlo: incubi del vissuto, spauracchi che si fossilizzano ne L’uomo nero – che ha suscitato l’interesse di qualche potenziale acquirente – e nella crudezza del bambino indottrinato/crocifisso di Tradizione.
Se la produzione di Samuele Atzori è chiaramente concettuale, è dunque vero che il titolo riveste una notevole importanza. In virtù della chiarezza appone soltanto titoli italiani, più affini al suo senso della spontaneità e spesso non esenti di ironia: si pensi al pezzo intitolato Posacerebro, ometto capovolto il cui cranio, la cui mente è ʻposata’ e progressivamente incenerita dal tabagismo. La densità del contenuto costringe l’osservatore a soffermarsi, a disvelare il mistero, talvolta impercepibile di primo acchito: Cura, apparente idillio di un genitore che porta il figlio sulle spalle, richiede che lo si guardi con attenzione e soltanto allora ci si renderà conto che la figura adulta è soggetta a un’inquietante torsione fisica, rivolta al piccolo dalla vita in su e con le gambe girate in opposta fuga. Si è adulti, si è responsabili, ma a che prezzo, diamine.
La fragilità umana e la sua incoerenza è dunque il tema principale, tutto riassunto in quella perfetta silhouette universale e asessuata che è il manichino, un manichino che subisce e commette atrocità, ma che talvolta pare aprirsi uno spiraglio di bellezza. Una bellezza che, come il giardino zen, si bea di semplicità e controllo.
Ma l’enfasi precede la quiete e ogni assemblaggio scaturisce da un’intuizione. Se Pregiudizio nasce nel mentre di una corsa sulle Mura, la produzione di un’opera può assorbire Samuele per intere giornate, facendogli saltare pasti e un sonno di per sé fragile, costantemente minato dall’iperattività. Dicotomia, quella tra ordine e fervore post-romantico, che si riassume anche nel gusto per i vortici di Van Gogh e per la perfetta ottica di Escher. L’ammirazione per le sculture ieratiche e pagane di Girolamo Ciulla gli ha ispirato una simpatica dedica alla sua Demetra con coccodrillo; allo street artist Banksy riporta peraltro Fuga, in cui il simbolo scarlatto dell’Es abbandona l’individuo reificato di grigio secondo uno schema simile a quello dell’iconica Girl with Balloon.
E a proposito del colore, in ordine cronologico arriva più tardi. Le prime opere di Atzori sono cromaticamente spoglie, limitate al necessario. Gli piace il colore del legno, che per un istante paragona a un organo malato. Ne apprezza l’odore, ne vive la tattilità. Pertanto, l’argomento dei NFT [non-fungible tokens, n.d.a.] lo interessa e lascia al contempo dubbioso, lui, geloso dell’integrità fisica dei propri pezzi e della sensorialità delle cose. Lo mette a disagio la trovata di Damien Hirst, che ha recentemente avviato il progetto di bruciare pubblicamente migliaia di proprie opere a tutto vantaggio delle riproduzioni digitali (2): «Io i miei manichini neppure tollero che li tocchino – e so benissimo che a volte lo fanno, cambiano le posizioni». Se l’arte necessita di limpidezza e trasmissione, se la riproducibilità benjaminiana, tecnica allora e oggi digitale, è un mezzo di cui approfittare, è necessario che l’originale rimanga illeso. Come feticci apotropaici, custodi di quel-che-è-bene-non-ridestare, i manichini continueranno a permeare i suoi cataloghi. Per ipotetici cambiamenti di soggetto, ancora non è tempo.
E poi si ferma, controlla il contapassi: anche oggi, senza pensarci troppo, ha superato i venti chilometri.
(1) Marcel Proust, Il tempo ritrovato
(2) Per informazioni in proposito, si consulti l’articolo: https://artslife.com/2022/07/27/damien-hirst-brucia-centinaia-dipinti-progetto-nft/
venerdì, 16 settembre 2022
In copertina e nel pezzo: tutte le opere di Samuele Atzori sono gentilmente concesse alla redazione dall’Autore (vietata la riproduzione).