Quando un disegno animato fa storia
di Luciano Uggè e Simona Maria Frigerio
Ripubblichiamo questo pezzo del 2020 perché, dopo due anni, la situazione nello Stato di Palestina continua a essere irrisolta e, anzi, l’ultima ‘Operazione’ militare israeliana ha causato centinaia di feriti e 44 vittime tra la popolazione palestinese – di cui 15 minori.
Nel 2008 uscì un film d’animazione ideato, scritto e diretto da Ari Folman, Valzer con Bashir che – più o meno fittiziamente – ripercorrendo in parte i ricordi personali dell’autore israeliano, giovane militare durante l’invasione del Libano, racconta con drammatica crudezza ma altresì con finezza psicologica una tra le pagine più nere della storia contemporanea israeliana e l’ennesima tappa dell’olocausto del popolo palestinese.
Il fulcro del docu-film (perché tale è, aldilà dell’uso della tecnica animata) è il tentativo di ricostruire cosa accadde nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, entrambi nella periferia di Beirut, dove imperversarono per due giorni i falangisti cristiani, che uccisero un numero imprecisato di profughi palestinesi (tra i 500 e i 3.500) sotto gli occhi complici degli invasori/alleati israeliani.
Sabra e Shatila esistevano, però, perché l’Europa, artefice del nazi-fascismo; il Regno Unito, a lungo leader tra i Paesi colonialisti; e l’ONU, poco efficace quando si tratta dei Paesi amici degli statunitensi, non erano (e non sono) mai riusciti a opporsi alle mire egemoniche della ‘grande’ Israele e, ancora oggi, la questione palestinese – che significa un popolo libero in uno Stato indipendente – rimane irrisolta, mentre le varie risoluzioni delle Nazioni Unite valgono poco più di pie raccomandazioni.
Facciamo un passo indietro
Dato che ogni volta che si muovono critiche a Israele si è accusati di antisemitismo, mettiamo le mani avanti puntualizzando che attingeremo le informazioni storiche dall’Enciclopedia Britannica, dalla Treccani e da altre fonti accademiche.
Per secoli sotto l’Impero Ottomano, la Palestina, durante la Prima guerra mondiale, si trova finalmente al centro dello scacchiere europeo e anche di una serie di missive scambiate, tra il 1915 e il 1916, tra Sir Henry McMahon, l’Alto Commissario britannico in Egitto, e Ḥusayn ibn ʿAlī, Emiro della Mecca, nelle quali gli inglesi farebbero delle concessioni agli arabi in cambio del loro supporto nel conflitto contro gli Ottomani. Sempre nel ‘16, però, Gran Bretagna, Francia e Russia, con l’Accordo segreto di Sykes-Picot, stabilivano le rispettive sfere d’influenza nella regione mediorientale – infischiandosene del diritto all’autodeterminazione dei popoli. L’anno successivo, infine, il voltafaccia si completava grazie al Segretario di Stato Britannico agli Affari Esteri, Arthur Balfour, che – con l’ambigua Dichiarazione che prese il suo nome – praticamente si esprimeva a favore di uno Stato ebraico in Palestina fatto salvo che “nulla sarà fatto che possa creare pregiudizio per i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche presenti nell’area” (t.d.g.).
Al termine del Primo conflitto mondiale, mentre gli arabi pretendevano finalmente la completa indipendenza e sovranità nella regione, con la Conferenza di pace tenutasi, nel 1920, a Sanremo, gli Alleati si arrogavano per l’ennesima volta il diritto di spartirsi territori – in questo caso, precedentemente ottomani. Mentre Siria e Libano divennero Mandati francesi, la Palestina fu affidata agli inglesi e gli arabo-palestinesi soprannominarono il 1920, non a caso, ‘l’anno della catastrofe’. Da allora è trascorso un secolo.
Il terrorismo sionista
Per anni la politica pro-sionista fu portata avanti con il supporto attivo dell’amministrazione britannica – forse non a caso, il Primo Alto Commissario per la Palestina fu Sir Samuel Herbert, ebreo sionista di matrice liberale. Oltre 18 mila immigrati ebrei arrivarono in Palestina tra il 1919 e il 1921, mentre il Juwish National Fund, nel ‘21, acquisì vaste aree, sottraendole di fatto ai contadini arabi, i fellahin, che furono sfrattati e allontanati da quelle che consideravano le loro terre.
Seguirono alcune azioni di rappresaglia arabe (che si sarebbero protratte per vent’anni) contro gli ebrei finché, nel 1921, una delegazione araba a Londra domandò la creazione di un Governo nazionale con un Parlamento democraticamente eletto da musulmani, cristiani ed ebrei residenti in Palestina. Nonostante alcune concessioni, quali il contingentamento delle immigrazioni ebraiche, gli inglesi conservarono gelosamente il loro Mandato – guardandosi bene dal concedere l’indipendenza alla Palestina. E al contrario, affidando – sebbene in maniera non ufficiale – alle milizie sioniste il controllo del territorio e delle rivendicazioni arabe. I gruppi paramilitari sionisti, infatti, ben armati e ottimamente equipaggiati, per quasi due decadi portarono avanti alcune azioni che ritroviamo, ufficializzate e rivendicate, ai giorni nostri – quali la distruzione delle case dei palestinesi e la confisca delle loro terre.
Facendo un balzo in avanti (perché questo non è un libro di storia) arriviamo al 1939 e alla pubblicazione del Foglio Bianco di Palestina, che limitava fortemente l’immigrazione di matrice sionista, l’acquisto delle terre da parte ebraica e, soprattutto, esprimeva la volontà di concedere l’indipendenza alla Palestina, ancora a maggioranza araba, entro dieci anni. Per ragioni geo-politiche gli inglesi prendevano le distanze dai movimenti sionisti, ma i venti di guerra e l’antisemitismo nazi-fascista avrebbero totalmente sconvolto tali piani anche perché gli ebrei tedeschi guardavano alla Palestina come a un rifugio sicuro dalle persecuzioni. E così, a breve, i palestinesi avrebbero dovuto cedere la loro terra per colpa del genocidio perpetrato in Europa dai tedeschi e, in misura minore, dagli italiani.
Finita la Seconda guerra mondiale, le milizie paramilitari sioniste ripresero, quindi, la lotta di liberazione contro la Gran Bretagna. Tra queste si distinsero l’Haganah – disciolta alla nascita dello Stato d’Israele – che avrebbe visto molti tra i suoi miliziani entrare nell’esercito regolare, come Ariel Sharon (che sarà compartecipe, seppure passivo, del massacro di Sabra e Shatila, in qualità di Ministro della Difesa d’Israele). E l’Irgun Zvai Leumi, formazione dichiarata terrorista dalla stessa Gran Bretagna, diretta dal 1942 da Menachem Begin – futuro Primo Ministro della destra sionista (il Likud) proprio durante il massacro di Sabra e Shatila.
Per capire come si muovevano questi gruppi, basti citare un saggio di Arie Perliger e Leonard Weinberg (Totalitarian Movements & Political Religions), secondo il quale, ad esempio, il 25 luglio 1938, l’Irgun – che non disdegnava gli esplosivi ma era già avvezzo a utilizzare i sicari – mise una bomba nel mercato di Haifa, causando la morte di alcune decine di arabi (tra 39 e 70 a seconda delle fonti); mentre il 19 giugno 1939, 20 arabi furono assassinati con un’altra bomba dissimulata in un carico, trasportato sempre al mercato di Haifa. L’attentato al King David Hotel è stato, però, l’apice dell’operato terroristico dei gruppi paramilitari sionisti – il loro 11 Settembre. Il 22 luglio 1946, infatti, per colpire il quartier generale amministrativo delle autorità britanniche in Palestina, i sionisti fecero esplodere in parte il palazzo, uccidendo 91 persone di varia nazionalità (compresi alcuni passanti) e ferendone 46.
Lo Stato di Israele e l’olocausto palestinese
L’esodo palestinese del 1948, noto come Nakba (letteralmente ‘catastrofe’), e il successivo, del 1967, hanno costretto gran parte della popolazione araba residente nei territori del Mandato britannico a ricollocarsi provvisoriamente (ma ormai sono trascorsi oltre settant’anni) nei campi profughi.
Attualmente l’Agenzia delle Nazioni Unite che provvede al loro sostentamento, l’UNRWA, ne riconosce 59, presenti in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. Secondo https://www.ambasciatapalestina.com: “circa il 70% dei palestinesi è rifugiato, mentre un terzo di tutti i rifugiati al mondo è palestinese. Quasi metà dei rifugiati palestinesi è apolide. Per decenni, Israele ha negato loro il diritto al ritorno, violando la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n° 194 dell’’82”.
Le vittime di questa espulsione forzata dalla propria terra sono oggi circa 7 milioni, di cui una parte dislocata nei territori palestinesi occupati da Israele (in Cisgiordania, dove Benjamin Netanyahu è pronto ad annettersi unilateralmente gli insediamenti israeliani in violazione delle Leggi internazionali e delle Risoluzioni dell’Onu) o sigillati da Israele (l’enclave della Striscia di Gaza).
Mentre le restrizioni per il Covid-19 rendono la vita dei rifugiati, come dei popoli del cosiddetto Sud del mondo, sempre più precaria, occorre ricordare come finì a Sabra e Shatila.
La banalità del male – Hannah Arendt insegna
Da Testimonianze del genocidio (FLM Milano 1983) l’infermiera Anne Sunde – che ha lavorato all’Ospedale Akka nei giorni del massacro di Sabra e Shatila – dichiara di fronte all’Associazione Internazionale dei giuristi democratici: “Gli israeliani si erano appostati in alto, dietro l’ospedale, e da lì sparavano nel campo. Noi dal terrazzo dell’ospedale lo vedevamo, e potevamo vedere anche quella che si sarebbe poi chiamata ‘la resistenza dei terroristi’: c’erano 4/5 giovani che avevano quasi nulla in termini di armi e munizioni, e che correvano come matti avanti e indietro, cercando disperatamente di fare qualcosa ma non riuscendo a fare nulla… non c’era nessuna resistenza!”. Ben nota la testimonianza del corrispondente di guerra Robert Fisk: “Quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità […]. Era stato un crimine di guerra”.
Mentre i falangisti cristiani infierivano sulle vittime civili – per due giorni consecutivi – torturando e violentando, i soldati israeliani asserragliavano le vittime e rispedivano nell’arena della mattanza quelli che tentavano la fuga. Sharon, in particolare, da una Commissione d’inchiesta israeliana fu considerato “personalmente responsabile” dei fatti, in quanto, anche quando informato, non fece nulla per impedire il massacro. Ma questo non gli impedì di continuare, al contrario, la sua brillante carriera politica.
In particolare, colpisce un’assonanza con il golpe cileno dell’11 settembre 1973 (https://www.theblackcoffee.eu/laltro-11-settembre/), il 18 settembre – ultimo giorno della strage di civili – un migliaio di palestinesi fu deportato nell’ex Stadio della Cité Sportive per essere torturato – di molti non si è più saputo nulla (anche loro, desaparecidos).
Come ha insegnato l’olocausto degli ebrei, anche voltarsi dall’altra parte o eseguire ordini disumani con la scusa dell’obbedienza – propria del burocrate (e pensiamo ad Adolf Eichmann) o del militare – è scelta colpevole di cui si è responsabili. Solo che, da settant’anni, le vittime sono diventate aguzzini e per i palestinesi non c’è alcuna terra promessa.
Ultime notizie da Israele
In questi tempi incerti, forse anche Israele dovrebbe e potrebbe cambiare rotta. Da dodici settimane si susseguono le manifestazioni in piazza, ogni sabato, contro la gestione della pandemia (la disoccupazione avrebbe superato il 20% e la contrazione economica è grave) e per chiedere le dimissioni del Primo Ministro, Beniamin Netanyahu, attualmente sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere. E se è vero che c’è un’impennata di contagi in Israele, fa specie che il Premier promulghi un nuovo lockdown proprio in questo clima di proteste, con ricadute ancora più pesanti su occupazione ed economia. Fa ancora più specie se si considera che attualmente i ricoverati sono 1.152, mentre le persone positive a casa sono 39.537 (fonti israeliane). E, dati Worldometer, al 15 settembre, Israele, su un totale di 162.273 casi, aveva registrato solo 1.141 decessi (ossia, in quel momento, lo 0,7%) e aveva già guarito 120.443 persone.
Pubblicato in originale il 16 settembre 2020
In copertina: Immagine tratta da Testimonianze del genocidio, Israele nel Libano. FLM Milano 1983 (vietata la riproduzione).