Cosʼha partorito il femminismo?
di Simona Maria Frigerio
Nel campo femminista esistono due correnti, una che rivendica la parità, lʼeguaglianza, il fatto che uomini e donne siano – aldilà di disparità socio-economiche, culturali o meramente fisiche – sostanzialmente uguali (visione condivisa anche da quei marxisti che, nel superamento del sistema capitalistico, vedevano una risposta storica anche alle disparità di genere). La seconda (ricordiamo il saggio della filosofa e psicanalista Luce Irigaray, Speculum, del 1974 che, in ogni caso, va ben aldilà di una divisione manichea) presuppone una differenza intrinseca e una visione e sensibilità verso il mondo e la sessualità diverse, dove femminile e materno riassumono concetti di positività, crescita, accettazione e rispetto in contrapposizione con un maschile e patriarcale (più che paterno) portatore di negatività, urgenza di comando e possesso, sopraffazione e violenza. Il discorso è sia storico sia psicologico, culturale e ovviamente filosofico e politico.
Ma le donne sono davvero diverse? Già in precedenza avevamo dimostrato come questo assunto non ci pare comprovato e come lʼidea che la donna di potere, in una società maschilista e patriarcale, sia costretta ad assumere posizioni e atteggiamenti non propri per emergere non ci convince (1) – basti guardare alla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che, se da un lato rivendica il proprio ruolo di madre di numerosa prole, dallʼaltro si fa fotografare col giubbotto antiproiettile mentre minaccia sanzioni e ritorsioni, prendendo parte attiva in una guerra, invece di porsi come pacificatore e mediatore super partes internazionale.
Il dubbio che sorge, a questo punto, è a cosa e a chi serva unʼimpostazione della differenza di genere allʼalba non più degli anni 70 bensì del 2020. Siamo certi che il pensiero della differenza giunto a etichettare un essere umano ʻgender fluidʼ solo perché per qualche stagione si preferiscono i calzoni e poi si torna alla gonna – non esagero e, a proposito, vi invito a leggere lʼarticolo dellʼUniversità di Harvard: (2) – sia una conquista per la libertà e la ricerca della felicità a cui ogni essere umano aspira (statunitense o meno che sia)?
Facciamo un salto pindarico: so che vi chiedo molto ma provate a seguirmi. Nel mondo del teatro italiano esiste una molteplicità di categorie: di tradizione, teatro-danza, di ricerca, fisico, terzo teatro, classico, sperimentale, e così via. Stessa cosa per lʼuniverso coreutico: una pletora di caselline da depennare quando si voglia accedere ai finanziamenti del Fondo Unico dello Spettacolo e, se non si corrisponde perfettamente ai desiderata del Ministero, si rischia di non ottenere i fondi anche per un progetto valido. Traslando, siamo certi che sia una conquista affermare che in Europa si rispetta ogni differenza di genere e continuare ad allungare la sigla LGBTQIA+, che adesso include anche gli asessuati o agender e in quel + non si sa quante sfumature di senso (o di sesso)? Inserire ogni comportamento (o preferenza, perfino limitata nel tempo) in una specifica categoria di genere ci avvicina alla libertà o ci condanna a nuove catene che ci auto-imponiamo credendo di essere alla moda o avant-garde? E ancora, siamo sicuri che sia una buona idea che gli esseri umani per auto-definirsi nel mondo (a livello sociale ma anche politico) debbano per forza e supremamente rifarsi al genere – proprio e altrui? Il nostro modo di sentire, pensare, interpretare lʼuniverso di riferimento dipende esclusivamente da come ci poniamo di fronte alla sessualità? Se sono eterosessuale, oppure LGBTQIA+? Oppure se sono maschio, femmina, oggi uno e domani lʼaltro, eccetera?
La questione della diversità cavillosa può portare allʼaffermazione di diritti unici, ad esempio, con i casi (soprattutto nel mondo anglosassone dello spettacolo) dei cosiddetti non-binary che vogliono essere appellati con il they/them al singolare. E qui, spiace – non saremo politically correct – ma si rasenta il ridicolo. Ogni volta che ci troviamo di fronte a una donna, ad esempio, coi capelli corti dovremmo chiederle se si sente binary o non-binary e, in conseguenza della risposta, appellarla she/her o they/them? Doppiamente ridicolo se si pensa alle battaglie fatte per la privacy (o a quelle mistificazioni della politica clintoniana che prevedevano, ad esempio, il donʼt ask, donʼt tell per i militari non eterosessuali statunitensi). La domanda seguente sarebbe cosa succederebbe se, domani, a quella fluidità di genere (o allʼennesima categoria alla moda) cominciassero a corrispondere non più solamente diritti positivi esclusivi (come lʼappellativo cosiddetto neutro anglosassone che, stranamente, è contestato dalle femministe italiane le quali pongono lʼasterisco anche a termini ambigeneri come artist*), bensì diritti negativi o addirittura doveri esclusivi. A una donna non-binary in un futuro distopico (ma non per questo fantascientifico) potrebbe essere preclusa la maternità fintanto che indossa i calzoni: se non si riconosce nel supremo ruolo/categoria di donna/madre perché dovrebbe avere il diritto di procreare? Potrà sembrare un ragionamento per assurdo ma viene da pensare che solamente ventʼanni fa le coppie omosessuali rivendicavano gli stessi diritti di quelle eterosessuali: sposarsi e avere figli (adozione, inseminazione artificiale, più recentemente madre surrogata), mentre adesso sono finiti nel non-binary e ci si domanda se questo giovi davvero alla loro ricerca di libertà e felicità di cui scrivevamo.
A nostro avviso occorrerebbe tornare al principio. A quel dualismo maschio/femmina, dio-padre-logos (o filosofia/razionalità/produzione) contrapposto a terra-madre-riproduzione che, oltre a derivare da correnti femministe, discende da concezioni, in realtà, fortemente patriarcali – quali le religioni monoteiste, ma non solo. Perché, nel 2022, dobbiamo ancora pensare alla donna come suprema figura ʻmaternaʼ quando il mondo è pieno di figure ʻmatrigneʼ? A questo punto perché non coniugare lʼaggettivo materno solamente al femminile e cancellare la forma maschile dai dizionari?
Essere se stessi, senza per forza volersi identificare con un genere che è esso stesso definito e viziato da secoli di pregiudizi idelogici e imposizioni socio-culturali, sarebbe davvero improprio? Questo Occidente che si auto-definisce paladino delle libertà non è, al contrario, un nugolo di regole e legislatori che vogliono decodificare e incasellare ogni comportamento per sottrarlo al libero arbitrio e rinchiuderlo nei recinti di una falsa libertà, che è accettazione passiva di codici non propri? Il sentirsi accettati solo se e nella misura in cui ci si adegua a un pensiero unico sempre più invadente e onnipresente è sinonimo di libertà? O di un esacerbarsi del bisogno di omologazione?
(1)
venerdì, 2 settembre 2022
In copertina: Foto di Tongpradit Charoenphon da Pixabay.