Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
La settimana prima di Natale era la mia preferita in tutto l’anno. La scuola finiva e quando si sarebbe tornati in classe avremmo avuto qualche ora in più di luce: non sarei più uscita che era ancora notte e, soprattutto, anche se frizzanti, le giornate di gennaio spesso erano tra le migliori dell’anno, a Milano, perché limpide e terse o, se si vuole scadere nella retorica manzoniana, tra le poche in cui il “cielo di Lombardia così bello, quand’è bello” pareva liberarsi del grigiore plumbeo dello smog e tornava azzurro.
In quel periodo (come in occasione della fiera Campionaria, che portava con sé una settimana di film trasmessi a ogni ora del giorno), la tivù regalava il meglio di sé – come Atlas Ufo Robot, i varietà (da Portobello con Enzo Tortora e Io e la Befana con Mondaini e Vianello ma anche Che combinazione! con Delia Scala, che in casa piaceva a tutti), e sapevo già che non sarebbe mancato Eduardo (quell’anno, il 30 dicembre, avrebbero trasmesso Le voci di dentro). Mentre, nei giorni precedenti, si era già messo in scena Natale in Casa Cupiello – ma in via degli Apuli, e il presepe che occupava l’intera parete della sala ne era la prova (ma anche questa è un’altra storia https://www.inthenet.eu/2020/12/25/a-me-piace-o-presepe/). Sotto l’albero (una concessione ai gusti di figlie e generi, che si sentivano molto British e pretendevano che lo cospargessimo pure di fiocchi di neve fatta con la bambagia), quest’anno c’era pure un orrendo angioletto dorato che mi aveva regalato un compagno di Catechismo e che non mi piaceva – per l’esattezza, né lui né l’angioletto.
La nostra routine in quelle giornate prefestive era quasi tutta concentrata sulla preparazione del cenone della Vigilia: la sera del 24 era consacrata al cibo – rigorosamente al pesce e rigorosamente cucinato dalla nonna. Però quell’anno arrivavano L., la sorella del nonno, con i due figli e i relativi coniugi e nipoti, così il piccolo appartamento di via degli Apuli cominciò a lievitare. Già nei giorni precedenti ci avevano consegnato diversi pacchi: cartoni che contenevano friselle preparate giù, che poi avremmo immerso in acqua e aceto e condito con pomodori, aglio, origano e olio; vasi di olive in salamoia, pomodori secchi e melanzane sott’olio, capperi e acciughe sotto sale. Quando alla fine arrivarono loro, i parenti dalla Puglia, il 23 mattina – con le orecchiette fatte in casa, le cime di rapa, l’aschquànd per preparare il calzone barese, le fav e fogghie, e i pasticciotti per la prima colazione – io cominciavo già a sentirmi male, quasi che tutti quegli odori mi avessero saziata a tal punto che mi girava la testa e sentivo perfino una punta di nausea.
Il nonno mi prese per mano e mi portò in soggiorno a leggere con lui il giornale: considerava la cucina l’universo delle donne e, a noi, non ci doveva interessare. Verso mezzogiorno, ci prendemmo una pausa: «Andiamo a comprare il pane», sentenziò il nonno infilandosi la giacca, mi imbottì ben bene come l’omino Michelin e insieme ci avventurammo fino alla nostra panetteria preferita, in Largo dei Gelsomini: la moglie e la figlia servivano e il marito sfornava in continuazione. Allora il pane non era industriale, congelato e poi cotto o riscaldato in giornata. Allora il pane usciva davvero infocato dal forno. E le farine usate erano tutte diverse: quella integrale del pane pugliese era impastata in modo che non salisse ma formasse una spessa crosta in superficie, mentre la pasta scoppiava in bolle altrettanto croccanti. Le michette erano nuvole d’aria e appannaggio dello zio (che vista la mal parata aveva deciso di andare al lavoro persino il 23 dicembre, pur di non farsi ‘tirare scemo’ da tutte quelle femmine urlanti). A me spettava la biova con la sua mollica soffice e bianca, il nonno preferiva la parigina che si metteva sotto l’ascella quasi fosse davvero un francese, e la nonna i panini all’olio o al latte perché non sopportava la dentiera di sotto e aveva bisogno di pane morbido da masticare con le gengive (la dentiera della nonna, a dire la verità, meriterebbe un libro a parte: se la toglieva in giro per la casa, a ogni ora del giorno, e la lasciava lì dove si trovava: a volte come un soprammobile, altre in qualche bicchiere, magari con un po’ acqua, e se non stavi attento capitava di ritrovartela in bocca! Era uno spasso… io e lo zio ne ridevamo a crepapelle e, a volte, giocavamo a nascondergliela e lei no, non si arrabbiava mai per la dentiera: era solo un obbligo sociale, ne avrebbe fatto volentieri a meno).
Come sempre, il tragitto durò il doppio del tempo che ci sarebbe voluto perché il nonno si fermava a salutare tutte e tutti e per ognuno aveva una parola, faceva una domanda che non era la banale: «Come sta?», alla quale si risponde: «Bene» solo per convezione o perché scappa. Si informava davvero di questa o quella figlia dell’amico, della nipote della vecchia conoscente, dei reumatismi o del problema al cuore (allora tutti erano malati di cuore ma morivano di cancro; tranne la nonna, che aveva sempre la pressione bassa e i medici pontificavano che il suo cuore avrebbe retto ancora cent’anni e, invece, morì d’infarto). Il nonno riceveva anche un sacco di complimenti perché era ancora un bell’uomo – un Clark Gable con i suoi baffetti e i capelli imbrillantinati. Ogni tanto, qualche vecchia si credeva molto furba e mi chiedeva: «A chi vuoi più bene, alla nonna o al nonno?». Nessuna accennava mai a madri o padri, almeno avevano quel buon gusto… E io, sempre troppo sincera in questo mondo di falsi, rispondevo da ‘prima della classe’ prontamente: «Al nonno!». E giù lagne che non era la risposta esatta (andavano di moda i quiz di Mike allora) e che avrei dovuto rispondere: «A entrambi». Il nonno faceva di sì col capo e mi guardava un po’ imbronciato ma quando la vecchia di turno se ne andava, mi stringeva più forte la mano e mi sorrideva: noi ci intendevamo e vivevamo nel nostro universo/mondo – nessuno ci avrebbe mai separati.
Quando arrivammo a casa, però, ci attendeva ben altro dramma! Casa nostra, del resto, era tutta un teatro. La nonna gridava e la sorella del nonno pure. E anche sua figlia e le due nipoti. Non sapevo dove fossero finiti tutti i maschi della famiglia ma pensavo che, come il nonno e me, avessero deciso di salpare per altri lidi… Alla fine andammo in soggiorno e vedemmo la nonna inginocchiata, con la testa cacciata sotto alla poltrona di stoffa dura come il marmo (niente a che fare con quelle di pelle ‘vera’ della mamma) che solitamente occupava lo zio. «Che fai lì così, Desdè?», le chiese il nonno cogliendola di sorpresa. Lei girò il capo e picchiò la testa contro l’asse di legno che reggeva il bracciolo. “Ahi, che male”, pensai, ma non dissi niente perché ancora non capivo cosa stesse succedendo e l’ultima volta che la nonna aveva urlato tanto era stata quella in cui aveva spostato il mobile del soggiorno e un’intera parete di scarafaggi era crollata sul pavimento sparpagliandosi per tutta la casa. Allora il dramma era proseguito per ore, a colpi di ramazza e scopa, finché l’ultimo combattente aveva deposto le armi e la nonna aveva liberato via degli Apuli dai ‘nemici neri’. Poi, con la coda dell’occhio, finalmente lo vidi: la causa di quello scompiglio. Il capitone era sfuggito dalle mani della nonna e, invece di finire in pentola, era scappato in soggiorno. Provai pena per lui – anzi lei, perché il capitone è l’anguilla femmina, come mi aveva spiegato il nonno. Le donne strillavano come oche perché avevano ribrezzo del ‘serpente’, il nonno usava la ben nota moneta da cento lire imburrata sul bernoccolo della nonna, la nonna si lamentava ma lo lasciava fare (rassegnata come me, quando mi toccava) e io mi avvicinai all’animale e lo afferrai con i miei guanti di lana, che facevano presa sulla pelle viscida, poi lo portai in cucina e lo decapitai con un colpo secco, usando il coltello affilato per tagliare il manzo. La nonna, da sotto il bernoccolo approvò col capo. Il nonno mi guardò fiero. E le altre donne del gruppo credo abbiano pensato che non ero tanto normale ma per il resto della loro permanenza a Milano mi trattarono con molto rispetto e perfino gentilezza.
Le undici portare del 24 dicembre furono rispettate. La nonna mangiò poco o nulla e si ‘tenne’ per il panettone, che le piaceva da matti anche se era tutto tranne che milanese. Io spiluccai poco, come al solito in quelle occasioni: erano due giorni che le mie narici mangiavano e non ne potevo più. Come centrotavola il capitone in umido fece il suo bell’effetto e la mia unica soddisfazione fu di sapere che lo avevo catturato a mani ‘nude’. Quella sera mi ripromisi che mai e poi mai avrei mangiato anguille: i serpenti mi piacevano e mi piacciono ancora e trovo barbaro mangiarli – come mangiare un cane o un gatto o un cavallo. In fondo anch’io, come la nonna, stavo sviluppando i miei tabù alimentari e me li sarei portati dietro tutta la vita. Durante la notte, però, mi svegliai di soprassalto, camminai furtivamente tra quei corpi di ospiti, sdraiati come profughi sul pavimento dell’anticamera e del soggiorno, e andai al frigorifero. No, non crediate avessi fame. Avevo avuto un’illuminazione: sapevo dov’era finita la scarpa di plastica della divisa da infermiera della mia Francie (una Barbie meno pettoruta e truccata). La trovai proprio là, nel frigorifero, vicino al contenitore dei formaggi. Non mi ricordavo di avercela messa. Forse era stata una cugina per farmi dispetto. Non sapevo come fosse finita su quel ripiano ma l’averla ritrovata fu il miglior regalo che potessi ricevere quel Natale.
Il giorno di Santo Stefano la nonna si diede ai ravioli in brodo e io dovetti passare la mattina ad aiutarla a chiuderli, uno a uno. Dato che da due giorni ero praticamente a digiuno, fece un’eccezione e mi preparò un bel piatto di spaghetti al sugo perché sapeva che, quelli, li avrei mangiati di sicuro e che appena se ne fossero andati tutti sarei tornata a posto. E così fu. Il 27 mattina la casa si svuotò e nonno, nonna, io e lo zio qualunquista fummo abbandonati con una valanga di avanzi che avremmo finito intorno alla Befana. E però la sera si festeggiò, con tanto di spumante e panettone, anche se non era più o non era ancora la serata ‘giusta’: il Franchismo era finito per sempre. Pensai a quando il nonno mi aveva letto le pagine di Hemingway, quei quattro racconti che erano stati pubblicati qualche anno prima, pensai ai vivi e ai morti e a coloro che sono chiamati a raccontare perché non si perda la memoria.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 12 agosto 2022
In copertina: Foto di Jason Goh da Pixabay.