La produzione di Irem Tok, artista di Istanbul
di Sharon Tofanelli
Il più delle volte funziona così: prima il mucchio, poi la dispersione.
Raramente conosciamo un artista da solo. Occorre che un nome spicchi nel gruppo, che una tale opera colga l’occhio al lazo, che ne interrompa il forsennato sgroppare per lo spazio. Dopodiché, siamo pronti a seguirlo. Smonta le tende, se ne torna a casa. E se qualcosa ci è piaciuto, andiamo dietro alla sua pista dorata. Così funziona spesso e di ciò ringraziamo i festival.
Irem Tok ha debuttato nel nostro paese lo scorso giugno. Chi si è lasciato cogliere dalla rassegna di Giungla e dalle sue sperimentazioni, ha potuto conoscere l’artefice turca in una delle serre principali. La presenza discreta di Hydromancy, la sua opera, rivelava subito la caratteristica di spicco di questa artista defilata e provocativa al contempo, quasi che le sue grida ci arrivassero per infrasuoni, spacciandosi per silenzio.
Con la sua ʻdivinazione dell’acqua’ – dal greco antico hydor, acqua, e mantīa, divinazione – Tok conduceva il visitatore di fronte a uno dei suoi tipici diorami. Una distesa di muschio, feticci di terracotta e asperità aliene; dizionarietti italo-turchi, sparpagliati sul tavolo e sforacchiati con meticolosità, diventavano le archeologie, i capricci, il pittoresco di questo paesaggio di gusto marziano. Su di un lato del piano, un tablet riproduceva in loop la danza dei microorganismi del lago, che l’artista aveva prelevato e studiato al microscopio. Soltanto in seguito, una volta assorti nelle minuzie del diorama, era possibile rendersi conto dei minuscoli esseri umani che costellavano il tavolo, intenti alle azioni più disparate: pastori e relativo gregge, minatori, giardinieri muniti di motosega. Nessun mondo alieno, insomma. Soltanto la realtà consueta, che stavamo osservando impugnando male il cannocchiale.
Irem Tok, nata a Istanbul nel 1982, si approccia all’arte come farebbe un ricercatore. La paziente, muta osservazione delle cose si riflette in una tecnica che richiede molto tempo, molta attenzione ai dettagli. Al di là della digitalizzazione che ha pervaso anche il campo dell’arte visiva – e Irem Tok, come si vedrà, si è dedicata anche al NFT (non-fungible token) – l’artista turca mantiene la propria affezione nei confronti del lavoro manuale, spaziando dal disegno al modellismo e includendo molteplici elementi. Già presente tra gli artisti invitati, tra 20 maggio e 20 giugno, alla V Biennale di Mardin (sud-est della Turchia), proponeva una formula ormai caratteristica della sua poetica, che quasi sempre comprende la consumazione – fisica e intellettuale – del libro, la quintessenza della conoscenza. E non un libro qualunque: Irem Tok ha assalito l’Enciclopedia Larousse, componendo i suoi diorami nelle pagine escavate e ricavando un ventaglio di copertine aperte, come le valve di tante ostriche, su paesaggi preziosi.
«L’Enciclopedia», scrive lei, «i libri di storia, i dizionari mi attraggono coi loro contenuti e anche come oggetti. Nelle mie opere, le enciclopedie trovano posto come simboli di conoscenza e cultura. Proprio come strati geologici, taglio le pagine dei libri e concepisco scenari naturali. Scavo ogni pagina come un archeologo che cerchi di penetrare la storia del mondo e dell’umanità. Su ogni nuova superficie incontriamo un tempo purificato dal passato, un momento di cui essere testimoni».
Domando all’artista della sua infanzia, alla ricerca di quel dato, quell’oggetto da cui il filo si è dipanato. Si ritiene che alla base di ogni percorso vi sia un Paradiso Perduto che ci sorride alle spalle.
«I libri erano molto importanti per me quando ero bambina, in particolare le enciclopedie. Non potevamo viaggiare molto ed ero molto curiosa nei confronti del mondo. Non c’erano molte risorse e stavo imparando dalle enciclopedie. Ma poi capii che il mondo non poteva essere esplorato così. Allora cominciai a tagliare e scavare i libri e a creare il mio mondo dentro di essi».
Ed è evidente, osservando le sue opere, che le realtà che Tok realizza di volta in volta si abbeverano del contesto in cui l’artista le ha ideate: se Hydromancy comprende riproduzioni in scala delle architetture lucchesi – immancabile la Torre Guinigi – per Heian No-Mori (foresta pacifica), concepito nel 2018 per un progetto a Kamiyama (Giappone), era stato necessario apprendere la ceramica nipponica e adoperare il blu caratteristico della tradizione locale. In tal senso, anche considerando il lungo percorso di ricerca che precede la costruzione in situ delle composizioni, ogni creazione di Irem Tok è un atto conoscitivo.
La disputa tra la piccolezza umana e l’immensità della natura è un elemento cardine, esemplificato dall’amore che dichiara per Dersu Uzala, pellicola russo-nipponica del 1975. Qui, l’amicizia tra il civilizzato Arsen’ev e l’uomo delle pianure è spezzata da un fucile, il dono che Arsen’ev fa a Dersu Uzala e che ne causerà l’assassinio. Domando all’artista se reputa possibile una tregua tra la natura e l’umanità, col suo portato illuminista di dover conoscere, dover sapere, dover scrutare nella gola della balena anche a costo di cadervi dentro come Giona.
«Pensavo potesse esservi una tregua, ma ora non sono più tanto speranzosa. I primitivi pensavano che il mondo che abitavano fosse vivo. Sebbene non fosse scienza, avevano una connessione interiore con la natura. […] Temevano di ferirla perché non pensavano che appartenesse a loro. […] Oggi, grazie alla scienza, possiamo vedere le creature invisibili che vivono in acqua e nel suolo. E in effetti avevano ragione, il mondo in cui siamo precipitati era vivo. Ma abitiamo una realtà in cui il rispetto per la vita è andato perduto. Nelle mie opere, provo a instaurare un mondo in cui scienza e magia vivono assieme».
Ed è difficile non pensare alla magia scorrendo le pagine dei suoi quaderni. Irem Tok spende molto tempo documentandosi su codici, lapidaria, testi di botanica e riproduzioni boschiane, che copia in delicati acquarelli. L’atto del guardare ed essere guardati è un punto chiave della sua intera produzione. I numerosi viaggi alla ricerca della quiete, via dalla magniloquenza di Istanbul, imprimono ricordi importanti, come quello dichiarato in un’intervista del 2013, in occasione di un allestimento al MAK (Museum for Applied Arts) di Vienna (1). L’artista, che si era recata in Bavaria per concepire una serie di installazioni, descrive la vista della propria città dall’aereo, “come se andassi in un pianeta differente”, “un luogo nefasto all’interno di un tornado, dove la gente combatte per sopravvivere”. E tuttavia, “che accoglie la mia famiglia e i miei cari, nonostante la sua precarietà”. Visione, questa, che potrebbe essere alla base dei suoi successivi diorami. Quanto al dualismo tra interconnessione e distruzione, è sintomatico che per Where I Fell Into Earth, 2016, presso la PILOT Gallery i Istanbul, l’artefice turca sia partita dai fuochi dell’Etna e dalla flora che da sempre, nonostante la violenza del vulcano, persiste a vivere e alimentarsi sulle ceneri. Non ci è dato sapere se Irem Tok conosce La Ginestra leopardiana. Le affinità col poeta di Recanati ci sono, pur mitigate da una concezione più ottimista della natura.
E altre cose le troviamo andando più indietro, sebbene non sia possibile parlare dell’intero corpus delle sue opere. Citiamo Fade Away, 2011, la personale della Galleria Outlet, ancora Istanbul. Qui Irem Tok, che aveva concluso gli studi accademici nel 2007, già manifestava la sua poliedricità tecnica: animazioni realizzate con la tavolozza digitale, miniature, installazioni minimali. La poetica del piccolo, ambizioso essere umano si incarnava nel paracadutista con la pietra legata al piede, oltre che nei soggetti grafici: donne coraggiose, magari autoritratti ideali, assorbite in atti di eroismo impossibile – si pensi a Seaward, lei che si precipita in mare munita di mascherina e boccaglio, tutta sola di fronte al naufragio di un transatlantico all’orizzonte. E soprattutto, colpiva in quella sala espositiva il periscopio che calava dal soffitto, sbucando poi dal pavimento del piano superiore. Scrutare e scrutarsi, di nuovo.
Domando infine all’artista cosa penserebbe della colonizzazione spaziale. «Siamo parte di questo mondo», risponde. «[…] Un mondo come nei film di fantascienza potrebbe essere possibili, ma l’idea di lasciare la nostra casa, la Terra, suona triste. Ho letto un libro di Yuri Gagarin a proposito della preparazione degli astronauti, i test che devono superare, come si sentono una volta nello spazio. Racconta che una delle sfide più ostiche è quella di gestire il senso di solitudine».
«Ho notato qualcosa nei documentari. Loro [gli astronauti] hanno un contegno maturo, calmo e stranamente sereno. Magari osservare la terra dallo spazio li rende così. Magari in quella oscurità stanno fronteggiando la propria stessa fragilità».
“Sta natura ognor verde, anzi procede […] / Passan genti e linguaggi: ella nol vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto” (Giacomo Leopardi, La Ginestra).
(1) Link all’intervista in questione: https://viennacontemporarymag.com/2013/03/21/bavaria-istanbul-an-interview-with-turkish-artist-irem-tok/
Per informazioni più approfondite, link al sito dell’artista (http://iremtok.com/) e alla sua pagina Instagram (https://www.instagram.com/irem_yok/)
venerdì, 5 agosto 2022
In copertina e nel pezzo: Courtesy of the artist ©Irem Tok.