Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
L’interminabile elenco di specie di pesce, carni, formaggi, insaccati, frutta e verdura del romanzo fiume di Zola – autore amato dal nonno, che mi insegnava a leggere tra le righe la feroce critica alla borghesia che si riempie la pancia e svende i propri ideali per un panino al burro – per me si traduceva nei mercati che frequentavo coi nonni, aiutandoli a portare a casa i sacchetti della spesa. C’era quello rionale, in via Odazio, che allora odorava di suq. Buio e umido anche sotto il sole rovente di luglio, due erano i banchi che attiravano sempre la mia attenzione. Il primo era quello della macelleria, dove la nonna mi insegnava a riconoscere i tagli della carne: quello adatto al polpettone, all’arrosto o la carne da farsi tritare fresca al momento per le polpette fritte – che lei riempiva di aglio e prezzemolo – oppure per quelle piccoline, da cuocere nella salsa, per condire le melanzane al forno o la pasta imbottita. Purtroppo allora i tagli per la bistecca erano pessimi. Quelle ‘sole da scarpe’ che ci vendevano, potevano pure andare bene in pizzaiola, ammollate dal lungo passaggio nella salsa e aromatizzate col prezzemolo che la nonna coltivava nei vasetti sulle finestre del soggiorno (come il basilico, entrambi ingrigiti dallo smog e dalla canna fumaria della fornaia), ma sebbene la nonna le pestasse col batticarne con energia e con tutta la sua mole, appena le si metteva in padella con l’olio, cominciavano ad arricciarsi intorno al nervo meglio della tendina zoppa – e per masticarle ci volevano buone gengive e migliore volontà. L’altro banco, dove mi imbambolavo finché il nonno non mi trascinava fuori dall’edificio basso, impregnato di odori, era quello della drogheria. Allora lo zucchero ma anche la farina, il caffè (in grani da macinare) e lo zafferano, i fagioli borlotti e i cannellini ma anche le fave e i piselli secchi, erano conservati in grandi contenitori di latta o in sacchi di juta e versati con la sassola in cartocci di carta oleata. I nonni, mentre io annusavo le foglie di tè e scoprivo il colore dei grani di pepe o invidiavo la signora che si faceva riempire i fazzoletti ricamati con la lavanda da mettere nei cassetti (noi ci mettevamo la naftalina), si fermavano sempre e a lungo dal formaggiaio. I caciocavalli appesi li rapivano; il provolone era una guerra tra più o meno piccante; la ricotta, la nonna la preferiva romana; le burrate che si scioglievano in bocca erano appannaggio mio – ma il nonno preferiva il primo sale, mentre la nonna voleva la treccia perché era più adatta da stendere sulla pizza e lo zio qualunquista chiedeva sempre la mozzarella di bufala (un punto su cui concordavamo); il grana, andava bene grattugiato per fare i ripieni per i carciofi, le melanzane o il polpettone, mentre il parmigiano per noi era troppo caro; la fetta di fontina non poteva mancare perché piaceva al nonno, anche se era valtellinese; e poi c’erano quei formaggi che guardavamo con un certo disgusto, come il gorgonzola o il taleggio: la nonna ricordo che, quando le arrivava l’odore alle narici, si metteva il fazzoletto con una goccia di colonia al mughetto – che si portava sempre dietro – al naso, mi prendeva per una mano e mi trascinava via offesa (in tutti i ‘sensi’).
D’estate c’erano i mercati settimanali del mercoledì e del giovedì: bisognava andare a entrambi per procurarci tutti i perini maturi che servivano per preparare almeno centodieci, centoventi bottiglie di salsa da conservare in solaio per l’inverno. Pomodori che andavano stracotti in quel bugigattolo di cucinino con la finestrella aperta sia d’estate sia d’inverno perché l’infisso in ferro era ormai talmente incrostato, con le successive mani di pittura, che non si chiudeva più. Si bollivano i pomodori maturi per ore e poi si passavano, a mano, nel setaccio per eliminare semi e bucce. Si versavano nelle bottiglie, si aggiungevano qualche foglia di basilico e un dito d’olio. E poi le bottiglie si avvolgevano in vecchi stracci e si mettevano a bollire sul fuoco, negli stessi pentoloni della salsa, appena lavati e pronti all’uso. 40 gradi, fuori, e forse 50 in quei due metri quadrati di un locale troppo stretto e non abbastanza lungo. A parte luglio e agosto, però, il mercato all’aperto settimanale era il giovedì e, quando era tempo di scuola – a meno che non fosse festa o non stessi tanto bene – non potevo di certo andarci, ma altrimenti era il mio preferito. Fin da piccola mio era il compito di portare a casa i limoni, che il nonno comperava sempre dal cieco – che non li contava ma li metteva in un sottovaso di plastica verde e me li versava direttamente in un sacchettino, che era sotto la mia responsabilità. Poi c’era la pescivendola, che sapeva molto di Zola, e vendeva le alici che versava nei cartocci oleati immergendo direttamente le mani nei pescetti, mani unte e annerite da quella che doveva essere una pratica quotidiana che pareva piacerle tanto da inzaccherarsi di sangue fino ai gomiti. Intorno, le latte con le sarde e il baccalà sotto sale, oltre allo stoccafisso appeso a un filo tirato da una parte all’altra della bancarella. Il tizio delle mele ormai conosceva la nonna e sapeva che quelle rosse farinose, quelle che non voleva nessuno, erano le mie: ne teneva sempre una decina da parte – a volte erano anche un po’ ammaccate o perfino marce, ma a me piacevano così. Tutti conoscevano i miei nonni e loro conoscevano tutti.
La nonna aveva poi tutta una serie di tabù alimentari che non mi spiegava ma erano legge. Le nespole si davano ai maiali, i maiali erano animali sozzi. Logica conseguenza, non si mangiavano nespole e non si mangiava maiale.
Novembre trascorse in attesa del Natale: quell’anno sarebbero saliti dalla Puglia la sorella del nonno con tutta la sua famiglia e il cenone della Vigilia sarebbe stato ancor più imponente – si prevedevano oltre dieci portate… Nel frattempo, l’unica vera novità furono le cinghie per legarmi al letto: una delle tante idee di mia madre, che amava leggere riviste femminili e alla quale il marito aveva persino regalato l’enciclopedia Essere mamma – della Fabbri Editore – che aveva avuto più successo del Cucchiaio d’Argento (visto che lei non era andata oltre friggere i sofficini Findus e scaldare il sugo della nonna per condire gli spaghetti – più sul crudo andante che al dente). Una sera si presentò a casa nostra, invece che col ‘bacetto’ Perugina, con queste cinghie e spiegò al nonno che, siccome durante la notte mi scoprivo, dopo avermi coperta doveva legarle alle sbarre del letto e così non avrei preso freddo. La nonna la guardò inorridita e fece segno di no col capo ma il nonno acconsentì: a tutti gli effetti ero ‘sua’ (di lei) figlia e poi non è che proprio doveva legare me… Così, quella sera, la camicia di forza la misero al mio lettino. La notte, come sempre, ebbi caldo. I caloriferi alle Case popolari andavano quasi sempre e sotto le coperte, verso mezzanotte o l’una, si iniziava a sudare. I materassi e i cuscini emanavano pure loro calore perché erano imbottiti di lana – che facevamo cardare, ogni anno, per liberarli dalle farfalline che si formavano dentro (forse la famosa provetta era come un materasso?). Insomma, a un certo punto, tra il sonno e la veglia riuscii ad arrampicarmi con le gambe fino al bordo del lenzuolo e a superare l’ostacolo con un autentico colpo di reni. Mi riaddormentai tranquilla ma quando si fece l’alba e iniziò a fare davvero freddo non riuscii a ricoprirmi. Il nonno, quella mattina mi trovò scoperta, gelata e quando mi svegliai avevo la febbre e il mio naso colava: s’infuriò come non l’avevo mai visto. Chiamò mia madre, prima che andasse in ufficio, e le disse di venire subito da noi che doveva restituirle qualcosa. L’accolse sulla porta con le cinghie in mano: non erano sue e non poteva buttarle nella spazzatura, così le restituì alla legittima proprietaria e le disse di non farsi mai più venire idee strambe come quella, che non ero un cane che andava legato al guinzaglio e che sarei rimasta a casa l’intera settimana perché mi ero raffreddata e mi era salita la febbre. I successivi sette giorni fui perfettamente felice.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 5 agosto 2022
In copertina: Foto di Martin Winkler da Pixabay.