Intervista ad Alice De Toma, presidente di Tomax Teatro
di La Redazione di InTheNet
Domani sera, sul palco di piazza San Francesco, a Bologna, andrà in scena lo spettacolo I giudizi degli altri, diretto e interpretato da Alice De Toma, affiancata da Massimo Giudici e Reina Saracino. Un lavoro intenso, questo dei Tomax Teatro, sul tema della ‘follia’ declinata nei corpi e nelle esistenze di due poetesse, Alda Merini e Sarah Kane, e del danzatore dei Ballets Russes, Nijinsky.
A poche ore dalla messinscena, abbiamo intervistato De Toma per capire, innanzi tutto, come mai Alda Merini, Sarah Kane e Vaslav Fomich Nijinsky. Perché proprio questi tre personaggi, anche se la cosiddetta follia è entrata nelle vite di molti artisti (pensiamo ad Artaud o a Van Gogh, solo per citarne due tra i più noti).
Alice De Toma: «Come in ogni nostro lavoro non c’è nulla studiato a tavolino. Non sono io ad avere scelto i personaggi ma in qualche modo sono stati loro a scegliere me. Il primo studio su questa tematica avvenne su richiesta della Rete Viola di orientamento antipsichiatrico di Giuseppe Bucalo: ci chiese di produrre un paio di sketch per un convegno. In quel periodo stavo leggendo le drammaturgie di Sarah Kane e pensai che non fosse una coincidenza. Il convegno infatti, semplificando molto, poneva l’accento sul potere di cura dell’amore e dell’accettazione in antitesi ai soli psicofarmaci. Nei testi della Kane ciò che mi ha colpito era proprio il medesimo messaggio, la mancanza di amore e di accettazione sostituita da una lunga lista di prescrizioni mediche. Scrissi inoltre uno sketch tratto da testimonianze di pazienti psichiatrici che sentivano le voci. Quando ci rendemmo conto della potenza degli sketch decidemmo di trasformarli in uno spettacolo: Il secondo a entrare nell’opera fu Nijinsky. Scelsi Nijinsky perché i suoi diari evocano qualcosa di incredibilmente moderno: il pensiero che Dio risieda dentro l’uomo, che la connessione con la natura sia un sentiero di connessione al divino, unito alla enorme sensibilità che traspare dalle sue parole hanno spinto le porte per entrare. La nuova attrice entrata in compagnia mi spinse poi a inserire una terza figura. Scelsi Alda Merini per tre ragioni molto pratiche, a dire il vero: la prima è che l’attrice era donna e mi serviva un personaggio femminile, la seconda che volevo inserire una figura italiana che potesse suscitare l’interesse del pubblico, e attraverso la quale fare conoscere anche quelli meno noti alle masse come la Kane e Nijinsky, la terza è stata dettata dalla volontà di attraversare le arti in maniera trasversale e, quindi, attraverso Alda fare entrare la poesia, dato che già la danza e il teatro erano rappresentati dagli altri due personaggi. Altra discriminante è stata l’esistenza di diari di questi artisti: attraverso una lettura attenta dei diari possiamo avere accesso alla parte più intima dell’anima dei personaggi. Nel caso di Nijinsky, oltretutto, i diari erano privati, la scelta della pubblicazione è avvenuta a posteriori, pertanto si accede a una essenza dell’anima difficilmente accessibile. Non ho scelto Van Gogh perché volevo dare voce a figure meno conosciute, quanto ad Artaud… se dovessi inserire una quarta figura sceglierei senza dubbio lui. Purtroppo però ogni produzione deve fare i conti anche con questioni molto meno artistiche: più numeroso è il cast di uno spettacolo tanto meno è vendibile, poiché, ahimè!, in ambito culturale più che mai le logiche di acquisto spesso si basano su criteri diversi dalla qualità».
Nelle note di regia si legge: “Quando un folle, inteso come colui che esce dal sistema, viene seguito dalle masse diviene un rivoluzionario. Quando un folle viene emarginato dalle masse diventa un caso psichiatrico su cui accanirsi”. Quasi mezzo secolo dopo l’approvazione della Legge Basaglia, è ancora così?
A. D. T.: «Premesso che, a mio avviso, l’arte non deve dare risposte ma spunti di riflessione, aprendo così la mente e il cuore invece che stigmatizzare concetti, posso dare una mia risposta strettamente personale, senza che questo implichi in alcun modo inserire una morale nell’opera. La legge Basaglia ha comportato la non ghettizzazione dei pazienti dal punto di vista prossemico e ha riconosciuto loro la possibilità di essere inseriti nel tessuto sociale aprendo le porte ai rapporti umani e alla comunicazione. Tuttavia, per citare Basaglia stesso: “Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione”. Quindi, al di là della chiusura dei manicomi (passo sicuramente importante), ciò che mi premeva indagare era se davvero stiamo affrontando diversamente la questione a livello di pregiudizi e stereotipi sociali. Il fatto che i tre personaggi scelti abbiano avuto esperienze di manicomio è una conseguenza inevitabile del periodo in cui sono vissuti esseri di così alta sensibilità, ma non è la realtà dei manicomi che mi interessava rappresentare. Mi interessava estendere la tematica alla vita di tutti noi, di tutti i giorni, equiparando queste anime sensibili a quelle di tutte le persone che faticano ad adeguarsi ai modelli sociali basati sulla competizione, sull’individualismo, sull’arrivismo, dove la dimensione del fare si è sostituita alla dimensione dell’essere. Mi interessava riflettere sulla logica binaria che domina la nostra società: normali/malati, sani/pazzi. Tutti noi siamo un po’ sani e un po’ malati, ognuno di noi ha zone d’ombra che, se non accettate, possono divorare la parte sana. Non a caso lo spettacolo si chiama I giudizi degli altri. Ne parlano tutti e tre i personaggi ma è qualcosa che risuona dentro ognuno di noi. È cambiare la mentalità della gente la sfida più difficile: essere accettati per quello che si è e trasformare la diversità in una risorsa che davvero consentirà, un giorno, di dire se siamo riusciti, come diceva Basaglia, a “fare diversamente”».
La vostra Compagnia si pone come obiettivo, anche attraverso i laboratori, di affrontare temi importanti, dal contrasto delle diseguaglianze alla legalità. Un impegno artivista, il vostro? E come si costruisce uno spettacolo su simili tematiche senza rischiare di scadere nel pedagogico?
A. D. T.: «Mio nonno, Mario Anderlini, era un partigiano medaglia d’argento al valore ed è da lui che nasce il mio/nostro impegno attivista. Il teatro è un mezzo potente per cercare di dare il proprio contributo in maniera significativa al mondo, perché coinvolge organicamente corpo-cuore-pensiero, tanto dell’attore che di chi è spettatore. Costruire uno spettacolo su queste tematiche senza cadere nel pedagogico è molto semplice per il nostro modo di lavorare. Non partiamo mai da una morale che vogliamo trasmettere, o da un effetto finale che vogliamo ottenere, o dalla presunzione di voler educare il pubblico. Iniziamo anche noi spesso senza sapere molto dell’argomento e man mano che procediamo con il lavoro di ricerca costruiamo il puzzle del quale non conosciamo il risultato finale. Va componendosi sotto i nostri occhi, man mano che raccogliamo testimonianze, ascoltiamo testimoni, impariamo, ricerchiamo. E le cose, magicamente, quando lasciate parlare, sono in grado di parlare meglio di noi. Lasciamo ‘fluire’ insomma, e ci stupiamo ogni volta del risultato».
In Tasche vuote ritornate alla Resistenza. Tematica centrale nella nostra società o solo conservazione della memoria (sebbene chi non ha memoria, difficilmente avrà futuro)?
A. D. T.: «Assolutamente la prima. Conoscere la storia, conservare la memoria serve sicuramente, ma è attualizzarla che può fare la differenza. La nostra costituzione nasce dal sangue della Resistenza e, come diceva Calamandrei: “Non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé”. È necessario alimentarla quotidianamente e comprendere l’enorme fortuna di vivere in una società libera e democratica. Spesso le giornate della memoria sono mera retorica perché tendono a ‘ricordare’ un evento passato, mentre il teatro ha il potere di attualizzarlo. Non è un caso che il teatro nasce dal rito e, come il rituale, ha il potere evocare una concezione del tempo mitico invece che lineare: gli eventi non sono infatti scanditi in passato, presente e futuro, ma sono ciclici ed eternamente presenti».
Domani salirete sul palco di piazza San Francesco, a Bologna, proprio con I Giudizi degli altri. Ritornare al teatro e, ancor più, alla piazza, quanto conta per chi fa il vostro mestiere e per noi tutti, spettatori, dopo due anni e mezzo di restrizioni all’incontro?
A. D. T.: « Noi, a dire il vero, abbiamo organizzato una rassegna teatrale estiva anche l’anno scorso a Villa Spada, nel rispetto di tutte le normative e con i relativi contingentamenti. Ma siamo sicuramente la categoria che ha sofferto di più nel periodo della pandemia, non solo a livello economico ma anche psicologico perché l’attore non lavora per vivere ma vive per lavorare, perché tramite il lavoro conosce e afferma se stesso e gli altri in maniera autentica e senza maschere».
Il titolo è tratto da Charles Bukowski: “Some people never go crazy. What truly horrible lives they must lead!” (t.d.g.).
venerdì, 29 luglio 2022
In copertina e nel pezzo: Due scene de I giudizi degli altri (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa della Compagnia).