“Tutti questi corpi sono mondi et senza numero”
di Sharon Tofanelli
Un giovane organismo si è installato nella città. Abbiamo provato a conoscerlo.
Lucca è un posto bizzarro, un sistema di scatole cinesi. Tra torri e tegolati, i giardini si arroccano dietro i muraglioni, conducendo esistenze furtive. L’Orto Botanico, giardino tra i giardini, lo si può anch’esso osservare dall’alto, spiare. Lucca addomestica le sue giungle come un peccato inconfessabile, ma irrinunciabile.
Ma questa Giungla non accetta classificazione. Tutt’altro, pare che sia giunta a scardinare la preesistente. “Tutti questi corpi sono mondi et senza numero”, come scrisse Giordano Bruno: tale è il titolo di questo piccolo caleidoscopio.
A ridosso del baluardo, dove si aprono i sotterranei murari, la polifonia della Forêt des gestes, installazione dell’artista francese Ariane Michel, chiama a sé il visitatore. Ancor prima di entrare nell’Orto, il coacervo di richiami e fruscii lo trascina a lato. I suoni si arrotondano nelle volte del passaggio, quasi una caverna. Nell’ombra e nel bagnato, la riproduzione artificiale suggerisce una foresta, un’oasi. La visione degli impianti e dell’ascensore fa stridore con quel che si può udire. Eppure, nulla a confronto col momento in cui gli occhi incrociano la proiezione del video sulla parete, tanto rarefatta da notarsi appena inizialmente. Si è così costretti a confrontarci col fatto che a produrre i suoni sia la manipolazione di strumenti, plastiche e piatti; che la foresta ci ha illusi di esistere, come la favola bella di D’Annunzio.
Ariane Michel, una produzione ufficialmente riconosciuta alle spalle, lavora sul rapporto tra natura e artificio. Nelle sue video installazioni ci sono cani erranti in scenari post alluvionali; gufi confusi di fronte alla sarabanda di Place de la Concorde; il lavoro certosino di un riesumatore di mammuth. Narrazioni minime e senza epilogo che si intessono da millenni ai margini dell’epopea umana, costringendoci a capovolgere il nostro punto d’osservazione e frustrando la nostra attesa colma di aspettative. Lo strumento tecnologico penetra la dimensione naturale richiamandosi ai suoi tempi, ai suoi modi. In un certo senso, un figlio dei boschi potrebbe aver girato queste opere.
Percorrendo il Giardino, ecco infine la serra centrale. Endymion, creatura di Bertrand Dezoteux, replica in loop i suoi quattordici minuti di proiezione. Il folle volo narrato dall’artista del digitale ha in sé caratteristiche da “fan-art di un film Pixar” – così Bertrand stesso lo definisce in un’intervista. Assumendosi il titolo della saga fantascientifica di Dan Simmons, Endymion è la villeggiatura allucinogena di un trio familiare, le cui voci sono un prestito dell’artista, di sua nonna e di suo padre. È stato appunto il padre, con la sua passione per l’opera di Simmons, a pilotare uno dei nodi principali del cortometraggio, realizzato servendosi di una grafica volutamente low-tech, non esente da una certa nostalgia da prima epoca digitale.
Giunto fin qui a seguito di una formazione accademica, Dezoteux ha individuato in Salvador Dalí il modello espressivo delle proprie ambizioni. L’applicazione di una poetica surrealista al medium digitale è d’altronde evidente in tutti i suoi corti, unita all’utilizzo del collage: al 3D si giustappongono fotogrammi o disegni, per esempio. E alla povertà del mezzo visivo si accompagna un sonoro dettagliato e realistico, che contribuisce, come già nell’opera di Ariane Michel, a creare una discrepanza tra gli occhi e l’apparato uditivo. Sviluppatasi in seguito a una serie di interviste condotte in seno alla famiglia, l’opera propone un dialogo disomogeneo e straniante, dando voce alla sostanziale incomunicabilità che avvilisce i rapporti tra gli esseri umani, veri e propri pianeti di labile interconnessione; e consentendo al video artista di comporre una sorta di antropologia del digitale. E la Luna?, domanderà il lettore. Rispondiamo: c’è forse qualcosa di più perturbante, freddo e amoroso al contempo del nostro satellite? La Luna dei folli e dei poeti erranti. La Luna che, scrive Apollodoro, s’innamorò di Endimione.
A fianco è Hydromancy, di Irem Tok, artista dei diorami. Un paesaggio alieno si estende sul tavolo, costrutto di muschi, forme ceramiche e libri straziati dai buchi. Su uno spicchio del piano, un tablet. Video a riproduzione continua di microrganismi acquatici, che la creativa turca ha prelevato dal lago dell’Orto. Ecco uno strano pianeta, o un segmento ravvicinato del nostro. Una realtà catturata al microscopio, che il visitatore studia a lungo, girandogli attorno, col sentimento della casa di bambola, o dei primi presepi. La vista progressivamente si aguzza. Ecco gli umani, eccoli, eccoci. Minuscoli. Improvvisi. Era il nostro il mondo che si palesava così estraneo. Ancora una volta, come nella foresta dei falsi suoni, il senso è rimasto ingarbugliato nel proprio istinto catalogatore. Sembrava tutto così chiaro, ma il cannocchiale era al contrario.
Sono le 21 in punto. Un telaio sta al centro della serra e ai suoi piedi, gomitoli e matasse. La donna inserisce un filo nella grata e inizia a intrecciare. Alle sue spalle, una proiezione di strade, persone, città. Un uomo cammina in cerchio e ad ogni giro che compie, un quadrupede gli si accoda. Si leggono brani, manifesti, atti poetici. Parole colme d’insofferenza e sete. La notte è anche un sole, “calderone, convivio e focolare irrequieto” (così la brochure), ordisce così la sua trama di fili, immagini, canti. Questo è anarcorporeös, collettivo errante. Alcuni si portano al telaio, altri consegnano matasse al primo sguardo complice in platea. Dal pubblico qualcuno si fa avanti. I colori scorrono sulla grata, le parole scorrono nello spazio. Collage di versi e morsi di frasi, rovesciati a cascata fino a diventare pura estetica, puro rito, pura cantilena. È la Notte di San Giovanni, il rigoglio della natura. Si accendono falò, si canta al solstizio. Il gesto danza sul telaio, più veloce, più veloce. È l’obbedienza al gioco, al rituale che, scrive Huizinga, dà la struttura al grande Caos.
Terminata la performance, i tessitori si allontanano con riluttanza. L’arazzo colorato campeggia nella serra. L’istante è trascorso, adesso torneremo alle rispettive solitudini.
Fino alla prossima Giungla. Ce n’è una per ogni Giardino. E c’è un Giardino per ogni città.
Tutti questi corpi sono mondi et senza numero
Esposizione collettiva – progetto nato nell’ambito di GIUNGLA. Festival d’arte contemporanea e scienze
a cura di Irene Panzani e dell’Associazione S.o.f.a. APS (Shared Office for the Arts)
Orto Botanico di Lucca
da giovedì 23 a domenica 26 giugno 2022, dalle ore 10.30 alle 19.30
Ariane Michel: La forêt des gestes (2019)
Irem Tok: Hydromancy (2022)
Bertrand Dezoteux: Endymion (2020)
giovedì 23 giugno, ore 21.00
Manifesto Brutal. La notte è anche un sole
di e con anarcorporeös
(Giorgia Frisardi, Mattia Pellegrini, Jesal Kapadia, Marco Fellini, Corrado Chiatti, Eleonora Biagetti ed Edoardo Pellegrini)
venerdì, 22 luglio 2022
In copertina: Il finale della performance La notte è anche un sole (foto di Sharon Tofanelli).