Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
Quel venerdì 14 luglio la canicola era davvero opprimente. Finita la festa, restava l’afa. La nipote dei friulani era via: con l’amica dei quartieri alti e la ‘di lei madre’ trascorreva il mese di luglio in camper e, poi, ad agosto, la ‘sua propria madre’ avrebbe portato lei e l’amica, per un’intera mesata, in qualche sperduto paesello di montagna – al fresco. Probabilmente le loro madri non avevano la mia pediatra… rimuginavo più torva che mai.
Sedevo su un gradino della scala che conduceva al portone d’ingresso del mio palazzo e S. si manteneva in equilibrio, sulle punte dei piedi, tra due scalini quasi di fronte a me. G. stava piazzata un gradino più su: aspettavamo che il sole calasse e l’area abbandonata in fondo al cortile diventasse praticabile per un Quattro Cantoni. Là in fondo l’erba sfuggiva a qualsiasi controllo e, protetta da un tetto di rami fronzuti, era l’unica zona verde del cortile in quel luglio tutto paglia e arsura. Certamente ci avrebbero assaliti le zanzare ma l’umidore del fogliame spesso ci avrebbe dato l’illusione della brezza e l’energia per tornare a correre.
Aspettavamo che O., quella del monopattino rosso fiammante, si unisse a noi e poi avremmo strascicato i piedi fino alla meta. Ma O. quella settimana scendeva in cortile sempre tardi, quasi all’ora di cena. Sua madre era via per lavoro per una settimana e, quando rientrava il patrigno, lei doveva seguirlo controvoglia di sopra. Immaginavo che fosse costretta a cucinargli qualcosa. Lui faceva i turni, tornava verso le tre e forse non aveva ancora pranzato. Osservavo O. entrare nel pianerottolo della sua scala e sparire nel buio. Quando scendeva era più morosa e torva del solito. Il suo sguardo sfuggente sotto la zazzera bionda si faceva sottile, i suoi occhi erano due fessure di odio e la sua rabbia si sfogava sul monopattino sempre meno fiammante e sempre più ammaccato.
Quel giorno, me la ricordo ancora, scese con un abito nuovo, lindo, di un bianco abbacinante e con una catenina d’oro con un cuoricino che non le avevo mai visto. Non le chiesi niente. La vidi attraversare il cortile e dirigersi verso S., che la ignorava voltandole le spalle. Lo afferrò all’improvviso. S. Perse l’equilibrio precario, restò per un attimo spiazzato e O. lo fece finire, in un batter d’occhi, nell’unica pozzanghera rimasta dall’acquazzone della notte prima. S. si rialzò guardandosi i pantaloncini fradici e macchiati di fango. Sentii la rabbia montare nell’aria. G. mi chiese se avevo fame. Io avevo sempre fame ma feci segno di no con la testa: «Io vado su, mi aspetta il panino con burro, zucchero e cacao. Peggio per te!». Pensai che forse avrei potuto corrompere anche la nonna per una merenda decente ma no, non potevo schiodarmi da lì, come il giorno della sigaretta: io volevo vedere tutto. S. si alzò in piedi e prese O. per i capelli, che teneva poco più lunghi dei miei e la buttò nella stessa pozza che si era quasi prosciugata. Lei si rialzò senza un lamento, si guardò l’abito chiazzato di grigio e marrone e scoppiò a ridere. E rideva, rideva, irrefrenabilmente, contagiosamente, tanto che G. – che era rimasta impietrita – non pensò più al suo panino e perfino S., dopo essersela per un attimo presa a male – come se lei stesse ridendo della sua mascolinità – scoppiò a ridere: forse quella fu l’unica volta che noi due ci sentimmo in sintonia. Certo la mamma di O. non sarebbe riuscita a sbiancare quell’abito alla lavanderia a gettoni (dove andavamo anch’io e la nonna tirando il carrello della spesa carico di lenzuola ogni due settimane. Lo stesso carrello col quale portavamo a casa pomodori maturi per la salsa, in estate, e arance mature per la spremuta, in inverno). Ma magari la mamma di O. l’avrebbe mandata in giro con l’abito macchiato, come faceva a volte, eppure lei non pareva preoccuparsene. E noi non le chiedemmo nulla.
«Tua madre torna stasera?», feci scivolare alla fine tra due silenzi. Lei fece segno di sì con la testa: «Deve essere già rientrata». Guardò verso il suo portone mentre mi rispondeva e, in un attimo, scomparve. Per un’intera settimana non la rividi: la madre la mise in punizione perché non voleva denunciare chi l’avesse spinta nel fango. Il vestito finì dritto dritto nella spazzatura e, dopo otto giorni, O. tornò in cortile come se nulla fosse. Qualche tempo dopo, però, anche la catenina d’oro scomparve: forse si spezzò il gancio ma di sicuro finì nel tombino delle fogne e nessuno pensò mai che valesse la pena metterci le mani. E poi, verso fine luglio, tutto il caseggiato fu svegliato dalle urla della mamma di O. Il patrigno finì in mezzo alla strada e le sue cose furono sparpagliate a piene mani dal secondo piano, a una a una, direttamente in strada, insieme a una valigia mezza aperta che, sul marciapiedi, si aprì del tutto spargendo mutande e camicie tra cacche di cane e cacche di piccione. Nessuno chiese niente. Le finestre, persino con quell’afa, furono accostate – ma con delicatezza. E a settembre O. regalò il monopattino alla cuginetta che compiva sei anni.
A fine mese, però, ci attendeva un altro piccolo grande ‘dilemma’. Per noi quattro rimasti a ciondolare nell’afa in attesa dei temporali agostani, il clou delle nostre giornate indolenti era risolvere il problema della ‘bambina in provetta’, come la chiamava la tivù. Non che non sapessimo come nascono i bambini, un’idea abbastanza vaga e schifosa ce l’avevamo, maschi e femmine – ma il prima e la provetta erano tabù. S., quella che stava con lo spacciatore era incinta, quindi qualcosa avevamo origliato dei suoi discorsi con l’altra ‘grande’ del cortile ma, tutto sommato, ci piaceva rimanere nella nostra beata ignoranza: il mondo degli adulti appariva lontano e mortalmente noioso, noi avevamo il nostro e non andava oltre un’alzata di gonna, una bella azzuffata nel prato e un bacio sulla gota di qualche prozia che doveva proprio abbracciarci lasciandoci quel retrogusto di saliva e vecchiaia.
«Tu cosa pensi della provetta? Come sarà?», mi chiese G. meditabonda. Era più piccola di due anni e si capiva che il suo mondo era più piccolo.
«Come quella degli esami del sangue ma più grande», le risposi. Anche se non capivo bene come aveva fatto una bambina a crescerci dentro… come una nave in bottiglia o, forse, come in una incubatrice? A quel tempo pensavamo davvero che nelle incubatrici si crescesse: gambe, braccia – come le code alle lucertole.
«Ma come ci è entrata dentro?», si grattò la testa S.
Feci spallucce, anche G. e O. non riuscivano proprio a immaginarselo. I grandi evitavano l’argomento come la peste. La tivù non dava spiegazioni: di certo c’era solo la ‘provetta’.
Alla fine cambiammo argomento. Dopo due giorni di elucubrazioni che non portavano a nulla ci arrendemmo: meglio tornare ai Quattro Cantoni – almeno lì ci si divertiva.
To be continued…
I pprecedenti capitoli per chi se li fosse persi:
venerdì, 8 luglio 2022
In copertina: Foto di Wyraziznak da Pixabay.