Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
E finalmente arrivò l’ultimo giorno di scuola! Come al solito ci riempirono di compiti per le vacanze che, a quel punto, ci sembrarono un po’ meno allettanti e, come ogni anno, invidiammo quelli di quinta elementare che, è vero che dovevano fare l’esame di Stato, ma poi avrebbero avuto tre mesi secchi di libertà assoluta.
Come ogni anno la nonna ci liquidò, al nonno e a me: ci diede le solite vecchie valigie di similpelle con cinghia di sicurezza e si prese due settimane di vacanze da noi. Nel senso che noi partimmo per San Giuliano Mare e nonna se ne rimase a casa a godersi la pace e lo zio qualunquista.
Quell’anno si aggregò anche mia madre. A lei, in estate, prendeva quasi sempre questo ‘estro’ materno, che la portava a rivendicare il suo ruolo genitoriale per due settimane. Anche se poi sapevo già che tale ruolo si sarebbe ridotto a importunarmi col cappellino perché perdevo sangue dal naso e non dovevo prendere il sole in testa, ma il cappellino si sudava nel giro di mezz’ora e poi cominciava a prudermi la testa e poi si bagnava con gli spruzzi di mare e io finivo per raffreddarmi perché avevo perennemente la testa bagnata e così starnutivo senza tregua e ricominciavo a perdere sangue e lei urlava e mi schiacciava il cappellino sulla testa e io glielo buttavo a terra, in mezzo alla sabbia, e… in breve il nonno evitava la tragedia greca – e lo spargimento di altro sangue sacrificale – portandomi via dalle sue grinfie, a fare il bagno o sull’altalena. Come mi piaceva l’altalena… Mi piaceva spingermi talmente in alto da rischiare di capovolgermi (e qualche volta ci andai vicina). Mi sembrava di volare libera, senza vincoli, finalmente lontana da tutto e da tutti.
Mi piacevano anche i bomboloni che, però, mia madre non mi comprava perché mi rispondeva che ero già grassa abbastanza – la pediatra aveva voglia a dirle che non era vero: per lei ero grassa e brutta e venivo malissimo in foto, mentre mia cugina era così ‘espressiva’ (nemmeno lei aveva il coraggio di usare il ‘bella’ per mia cugina, con tre denti in croce a quel tempo e il naso schiacciato come quello di un boxeur)! D’un tratto mi accorgo che, a distanza di anni, continuo a considerarmi non fotogenica ma, quando riguardo le immagini di allora, mi sembro carina, magrina e con le occhiaie da far spavento, biondina e con due occhioni sproporzionati e chiari, un po’ tristi. Niente bombolone quindi, ma ogni tanto il nonno tirava fuori qualche cento lire dalla sua magra pensione e mi comprava il ‘cocco bello’, con lei che si lamentava che mi sarebbero rimasti i filamenti tra i denti (e a quei tempi, senza filo interdentale, significava che mi sarei divertita per ore a mettermi le mani in bocca) oppure il ‘gasosino’, come chiamavo fin da piccola la gazzosa – altro cruccio per l’impiegata con la manicure e la messimpiega perfette perché mi faceva venire la carie ai denti. A quell’epoca la carie ai denti era di moda: ci davano persino delle pillole rosa a scuola per combatterla. Io le sputavo sempre e in ogni dove – al gabinetto, nel fazzoletto, in un angolo del cortile (se le distribuivano nell’ora dell’intervallo) e, se non trovavo di meglio, nel palmo della mano e poi cercavo di liberarmene appena possibile (peggio di Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo, film che ovviamente non vidi quando uscì ma che vide mia madre, obbligata dalla zia più alternativa, e che non le piacque. Come non le piacque Madre Courage, sempre idea della zia che frequentava il Piccolo e andava alla Festa dell’Unità, ma poi votava Dc. Ricordo mia madre che si lamentava: «Sì, sì certo, è un vero capolavoro… Ma tutte quelle ore con ʻsta donna che tira il carretto…» e si riprometteva di non farsi più convincere). Tornando alle pillole rosa: fiumi di fluoro che io gettai, senza sapere che anni dopo avrebbero scoperto che era nocivo, rovinava lo smalto e corrodeva i denti. Era il mio piccolo atto di sfiducia nel sistema: odiavo che qualcuno mi imponesse qualcosa anche se era ‘per il mio bene’. Allora, come oggi.
La meglio cosa in pensione (come si chiamavano allora gli alberghetti senza pretese che sorgevano, uno accanto all’altro, tutti uguali, sulla costa romagnola), era la colazione. Per me, che ero abituata al pane raffermo di uno, due, perfino tre giorni prima, inzuppato nel caffè e latte, quella michetta friabile di forno che potevo spalmare di burro e quella sostanza colorata, che chiamavano marmellata, era una goduria. Mia madre beveva il suo espresso che non era mai buono come quello del Biffi Scala, dove andava ogni mattina prima di entrare in ufficio; e ogni mattina, in pensione, ce lo ripeteva a me e al nonno: «Non il Biffi Galleria, mi raccomando: il Biffi Scala!». E ogni mattina il nonno e io ci guardavamo di sottecchi come a dire: “Ma perché non te ne sei restata a Milano?”. Il massimo della pruderie la metteva in scena dopo la tiritera che il burro le faceva schifo e mi faceva ingrassare, la marmellata mi faceva venire la carie e mi faceva ingrassare e però preparava un’altra michetta spalmata, l’avvolgeva in due o tre kleenex (dato che a quel tempo i tovaglioli erano di tessuto e non te li potevi portare via) e se la nascondeva nella borsa del mare quasi avesse commesso il furto del secolo! Sarà pure stata ʻna monnezza, ma era gratis come merenda dopo il ‘bagnetto’ (mia madre amava i vezzeggiativi) e, quindi, andava benissimo: bastava non farsi scoprire dai camerieri, che l’avrebbero considerata una pezzente. La sua premura materna finiva lì. Il cappellino e la michetta. Per il resto passava le giornate stesa come una lucertola sul lettino della spiaggia a prendere il sole, mentre divorava gialli e racconti di spionaggio. Le piaceva anche essere servita a pranzo e a cena e quando facevano il barbeque nel cortiletto della pensione. Non che lei, a casa, cucinasse mai… Lei era un’impiegata di concetto sposata a un geometra: aveva la colf per pulire casa e nonna che le preparava da mangiare. Le sue belle unghie non si sarebbero mai spezzate.
Ma in fondo io ero fortunata. Con G. dei piani alti, che viveva coi genitori, e B. nipote dei friulani, eravamo le uniche bambine che d’estate lasciavamo il quartiere, almeno per due settimane, per andare in ferie. Sapevo già che quando sarei tornata a fine mese al Giambellino l’afa mi avrebbe tolta l’aria e scorticata fino alle ossa, soprattutto di notte, quando le lenzuola fradicie di sudore mi si attaccavano addosso e cominciavano a sfregarmi via la pelle. Ma non c’era modo per il nonno e me di convincere mia madre a posticipare le due settimane: «La pediatra sostiene che i bambini devono andare al mare a giugno perché il sole è meno forte». “E così si beccano quello di luglio, in piena testa e senza cappellino, nel cortile di via degli Apuli!”, pensavo io guardandola torva, ogni volta che si ripeteva come un disco rotto. Costava di meno, tutto qui. Ma lei non si sarebbe mai abbassata ad ammetterlo.
Quell’anno, però, quando fummo a casa facemmo festa. Eravamo partiti con un Presidente che si chiamava Leone e tornammo con Sandro Pertini e la sua pipa! Un pezzo di Resistenza, di quei valori in cui credeva il nonno, arrivò al Quirinale: nonostante la morte di Moro, l’Italia sembrò credere nuovamente in un’unità fondata sulla giustizia sociale e l’antifascismo. Il nonno si sentì meno solo quando generi e figlio si coalizzavano a sparar ‘cazzate’. Del resto tre su tre sarebbero finiti nelle braccia della Lega e a riempirsi la bocca di ‘Roma ladrona’ e a chiedere a gran voce che ‘terroni e negher’ tornassero a casa loro… Compresi i nonni? Compresa io?
A me di Pertini in quegli anni piaceva la pipa. E poi, alla finale dei Mondiali, quando per una notte l’Italia fu di nuovo unita, ancora la pipa – sempre di Pertini ma anche di Bearzot. Peccato che nessuno dei grandi la fumasse da quelle parti… mi sapeva di buono anche se non ne avevo mai sentito l’odore. Mi sapeva di vecchi che ti raccontano le loro storie per insegnarti a non fare i loro errori, per insegnarti a gridare, tutti i 25 Aprile in manifestazione: «Ora e sempre Resistenza»; mentre il nonno, per tutta la giornata, ascoltava a finestre aperte e a tutto volume, Bella ciao, La Badoglieide (che mia madre gli aveva proibito ascoltassi ma io sapevo a memoria) e, soprattutto, Fischia il vento.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 1° luglio 2022
In copertina: Foto di Barbara Bonanno da Pixabay.