Parola di Alessandra Lischi
La Redazione di InTheNet
Incontriamo nel suo studio Alessandra Lischi, professore ordinario di Cinema, Fotografia e Televisione presso il Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa, giornalista, e profonda conoscitrice del lavoro di Giacomo Verde. Sarà lei ad aprire, domani, la mostra che si inaugurerà al CAMeC della Spezia e a lei chiediamo qual è stata la matrice comune dei lavori di Giacomo Verde, che è stato artista in grado di muoversi tra media e linguaggi diversi – dalla videoarte al teatro – ibridandoli e facendoli dialogare anche con lo spettatore.
Alessandra Lischi: «Secondo me il lavoro di Giacomo si è caratterizzato per un filo rosso sottostante, ossia la dimensione dal vivo. Anche nei lavori non teatrali c’è sempre la volontà di essere, in qualche modo, presente. Presente anche se assente, e magari nascosto in una cabina a manovrare una marionetta virtuale. Questa scelta gli derivava dal fatto di provenire dal teatro di strada: era un cantastorie e la dimensione relazionale e diretta, per lui, era sempre fondamentale. Il suo valore risiede forse in questo: nell’aver inserito in una pluralità di sguardi, di azioni e di arti, una dimensione di artivismo – insieme artistica e attiva nel sociale – e una seconda dimensione, relativa all’esserci, in grado di interloquire con tutti e di stabilire un dialogo con l’altro da sé. Ovviamente esistono lavori in cui questa dimensione si avverte meno. Penso, ad esempio, a Stati d’animo (1), opera che potrei definire pittorica – fra virgolette – e in cui lui non interveniva dal vivo ma che, nel suo percorso, resta una tra le eccezioni. Al contrario, la processualità, la capacità di stabilire e di creare relazioni e processi socializzanti erano centrali».
L’8 giugno, Anna Maria Monteverdi e Vincenzo Sansone (tra gli organizzatori della mostra), sono andati al centro diurno Gabbianella della Spezia, che si occupa della cura e del reinserimento dei malati psichiatrici, per un’anteprima della mostra che ha coinvolto gli ospiti attivamente e creativamente.
Essere in grado di dialogare con gli spettatori, come riusciva a fare Verde – soprattutto quando si hanno di fronte bambini o persone con problemi relazionali – quanto è difficile per un artista?
A. L.: «È difficile in quanto i bambini sono molto esigenti. Giacomo, però, sapeva instaurare un rapporto di fiducia. Non si poneva nei confronti degli altri con dei preconcetti o dei pregiudizi. Trattava tutti allo stesso modo, come interlocutori seri degni di attenzione, di fiducia, di sapienza. E io credo che questo si percepisse molto bene. Pensiamo, ad esempio, all’esperienza laboratoriale fatta da lui con Michele Sambin nel carcere di Padova (2). Non fu per niente semplice né dal punto di vista logistico e organizzativo né per quanto concerne il rapporto di fiducia, che era necessario instaurare con i reclusi per portare avanti un simile lavoro. Ci riusciva perché, paradossalmente, non ‘architettava’ nulla – nel senso che non si poneva di fronte all’altro da sé con dei preconcetti, nemmeno in positivo. I suoi corsi anche per insegnanti, gli interventi nei convegni così come in qualsiasi altro tipo di situazione, erano gestiti con la medesima trasparenza e il suo saper comunicare non scadeva mai nel didascalico perché era creativo e trovava sempre quel guizzo di fantasia e di sapienza relazionale che funzionava».
Quando ha incontrato professionalmente Giacomo Verde?
A. L.: «Non ricordo la data esatta ma la prima volta che lo vidi deve essere stato in uno dei tanti festival che si organizzavano negli anni 80, periodo in cui vi era un fiorire di manifestazioni dedicate al video, ed esisteva una vera comunità di artisti e autori che si spostava in Italia e all’estero per mostrare il proprio lavoro. Ho cominciato, quindi, a frequentarlo in uno di questi festival di videoteatro, come quello di Narni (3), che promuovevano tale forma artistica. In seguito, ci siamo ritrovati in altre occasioni, anche qui in Università dove tenne un corso, e lo invitammo a INVIDEO (4), un Festival nel quale più volte presentò le sue opere. Mi piace ricordare un aneddoto, ossia quando lo incontrai causalmente mentre maneggiava questa marionetta, Euclide, che vidi e con la quale interloquii senza sapere che era una sua creazione. Lui cominciò a parlare con me ma io non sapevo che era Giacomo e, però, mi misi a seguire il cavo finché arrivai alla cabina di regia dove lo trovai nascosto con i suoi guanti, i sensori e i monitor che gli permettevano di manovrare a distanza la marionetta virtuale (5). In pratica, ho seguito Verde artista dai suoi primi lavori di videoarte, passando per il teleracconto, Le storie mandaliche (6) e fino all’ultimo periodo».
Quanto è importante il dialogo artista/critico. È possibile instaurarne uno autentico?
A. L.: «Dovrebbe esistere un dialogo tra artista e critico perché il secondo senza il primo non esisterebbe ma, a volte, nemmeno l’artista – senza lo sguardo esterno del critico – riuscirebbe a vedersi con altri occhi e, quindi, a capire come situarsi. Tutto dipende dall’onestà intellettuale del critico e anche da quella dell’artista. Per quanto mi riguarda, posso dire di aver avuto soprattutto rapporti di dialogo con gli autori che ho seguito e alcuni, come Giacomo, sono diventati addirittura amici. Robert Cahen (7), Irit Batsri (8) e anche Gianni Toti (9), che purtroppo non c’è più, sono persone con le quali il dialogo non si è mai interrotto – pur sapendo che, magari, non avrebbero accolto le mie proposte anche in positivo o le mie idee. Però dal confronto è nato sempre qualcosa. Anche perché, a mio parere, il lavoro del critico non si esaurisce nello scrivere un saggio, ma deve ricomprendere la creazione di occasioni anche produttive o espositive e, questo, è già un modo per interagire. L’artista dà molto al critico dato che gli apre lo sguardo, gli dona prospettive che, nel tempo, possono e devono evolversi; e se il rapporto è un processo di scambio, allora assume grande valore anche a livello umano».
Tornando al tema dell’artivismo che, in Verde, è stato una scelta politica ed estetica. Per molti artisti, al contrario, l’arte dovrebbe essere solo un’espressione creativa delle esigenze dell’artista stesso. Lei cosa pensa?
A. L.: «L’arte è sempre politica, che lo si voglia o meno. L’arte, spesso, è la risposta che la politica in senso stretto non riesce a dare o a vedere. Per l’artivismo, l’arte non è solamente attivismo a livello politico perché, in quel caso, sarebbe propaganda e non più arte. Un’arte che, magari, non parla di politica ma che ci aiuta a pensare in modo diverso è di fatto politica. Giacomo cercava di coniugare queste due tendenze. Non voleva fare propaganda, non voleva mandare un messaggio o creare uno slogan di tipo direttamente politico. Preferiva articolare l’aspetto di ricerca estetica con un aspetto di consapevolezza politica. Pensiamo a Tutto quello che rimane (2), il video con i reclusi di Padova. Non ci troviamo di fronte al tipico documentario sullo stato pietoso delle carceri italiane. E però è un lavoro grazie al quale capiamo molto bene lo status di carcerato e che aiuta i reclusi, grazie al montaggio video, a dialogare con l’esterno – non solo con i dipinti di Giotto ma anche con un gruppo teatrale, Tam TeatroMusica. I carcerati si mettono in scena dialogando con gli affreschi di Giotto: la cosa più brutta e la più bella di Padova – ovvero il carcere e l’arte. Questo è un lavoro di fatto politico in quanto ci fa comprendere la condizione dei reclusi più di tanti discorsi. Altra caratteristica di Giacomo era di non fare cose belle, rifinite, commercializzabili – e questo lo ha penalizzato, ma è stata una scelta – bensì di creare opere (e questo credo che la mostra lo testimonierà) anche minori, di intervento, provocatorie, parte di una costellazione di lavori che non finiscono mai, ma che regalano sempre un nuovo tassello all’artivismo».
La mostra che si inaugurerà al CAMeC della Spezia cercherà di mettere in luce i diversi aspetti della ricerca quarantennale di Verde. Qual è, a suo parere, il lascito artistico di Verde?
A. L.: «Sarà una mostra che assomiglierà a Giacomo: non statica o perfetta, ma che corrisponda a quel continuo processo evolutivo proprio del suo lavoro. Una mostra con tante opere diverse che si succederanno, performance, interventi – che daranno un quadro anche in trasformazione del suo lavoro. Una mostra irrequieta, com’era Giacomo. Con tutte le sfaccettature e anche quel tocco di enigmatico che è proprio dell’arte. E le opere più divertenti, quelle giocose, ma anche le dissacranti – perché, non dimentichiamo, che era un erede del dadaismo. Il lascito di Giacomo è difficile da rintracciarsi. Dopo la sua morte, ci sono stati anni di grande isolamento per tutti. Non c’è stata quella fioritura di manifestazioni che precedentemente raccoglievano le novità e le espressioni più interessanti del momento. D’altronde, sono certa che abbia lasciato degli eredi, innanzi tutto perché insegnava, ma anche perché l’idea dell’artivismo come la portava avanti – ossia lavori di denuncia che non siano propaganda – è sentita anche da altri. Non vorrei fare un nome in particolare e, d’altronde, negli ultimi anni il lavoro di Giacomo si concentrava non in singole opere quanto in un’arte come intervento nel sociale, e magari non ne è rimasta traccia. Era molto sottile il modo in cui lui si accostava al mondo dell’arte e dell’intervento attivo. Ci sono molti artisti anche quotati che fanno lavori di denuncia in maniera artistica. Però c’è un livello di estetizzazione, o di spettacolarizzazione, che non appartiene alla filosofia di Giacomo e questo lo rendeva un po’ unico. Sono certa vi siano semi che germoglieranno – teniamo conto che, in mostra, vedremo i lavori di alcuni allievi delle accademie. Però l’approccio di Giacomo all’artivismo era talmente peculiare che è difficile dire se esistano degli eredi. E forse lui stesso, più che eredi, avrebbe voluto possibilità, potenzialità che si muovano ma su altri binari. Un compito della critica nei confronti di Giacomo, in futuro, potrebbe proprio essere quello di scoprire i nuovi Giacomo Verde».
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(1) Stati d’animo, 1990, video ispirato al Trittico di Boccioni, vincitore del premio per i migliori storyboard Opera Video, VideoTeatro di Narni
(2) Progetto Medit’Azioni, di Michele Sambin, Pierangela Allegro, Giacomo Verde/Tam Teatromusica, Laboratorio Teatro Carcere 1993, Tutto quello che rimane
(3) POW-Progetto Opera Video-Videoteatro – poi Scenari dell’Immateriale – Festival, organizzato a Narni, a partire dal 1984, https://www.urbanexperience.it/wp-content/uploads/video/INDEX_Videoteatro.mp4
(4) INVIDEO – International Exhibition of Video Art and Cinema Beyond, organizzato a Milano sin dal 1990 da A.I.A.C.E., è punto di riferimento internazionale per una vasta gamma di produzioni audiovisuali connesse con l’arte elettronica, la videoarte e le nuove tecnologie (t.d.g. dal sito: http://www.mostrainvideo.com/p.aspx?t=general&mid=4&l=en)
(5) Per approfondire il discorso sul Progetto Euclide, rinviamo a: https://www.verdegiac.org/euclide/doc/progetto.htm
(6) Chi volesse ulteriori informazioni, può leggere il breve saggio di Anna Maria Monteverdi su Storie mandaliche:
https://riviste.unimi.it/index.php/connessioniremote/article/view/13585/12941
(7) Alessandra Lischi, Il respiro del tempo. Cinema e video di Robert Cahen, Edizioni ETS, 1991
(8) Su Irit Batsry, artista visuale israelo-statunitense, Alessandra Lischi ha scritto diversi approfondimenti e recensioni. Consigliamo: Visioni elettroniche – L’oltre del cinema e l’arte del video, edito da Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2001
(9) Gianni Toti o della Poetronica, Aa. Vv., a cura di Alessandra Lischi e Silvia Moretti, Edizioni ETS, 2012.
venerdì, 24 giugno 2022
In copertina: Giacomo Verde (foto da Giacomo Verdi Archives).