Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
Aprile dolce dormire. Soffro fin da bambina di un bioritmo decisamente da vampiro. All’età di due anni e mezzo mia nonna, dalla disperazione, mi caricò di botte per insegnarmi che, oltre alla veglia, esiste il sonno. Mio zio passava le nottate nelle balere e, poi, quando arrivava a casa (potete immaginare a che ora) si fumava un’altra sigaretta e poi un’altra ancora e si faceva un giro del caseggiato e poi riprovava a lanciare sassi alla finestra del soggiorno per sapere, da mia nonna, se mi ero addormentata. Di tutta questa fantasiosa narrazione non ricordo niente ma la soddisfazione con la quale la raccontava la nonna – che avrebbe sprecato gli anni seguenti a mancare il bersaglio con le sue ciabatte – ogni volta che non riusciva ad agguantarmi, mi spingeva a crederle. Quello che so per certo è che, comunque, la sera non riuscivo mai ad addormentarmi e il Librax che mia madre aveva costretto la pediatra a prescrivermi, serviva a poco. Giusto a imbambolarmi ancora di più il mattino dopo. In tempi in cui non si credeva ancora che esistesse la pillola per ogni male, mia madre era all’avanguardia – e per fortuna che le sue letture si limitavano ai gialli Mondadori e ai libri di spionaggio; se avesse mai scoperto l’ADHD – l’iperattività che sembra oggi il maggior cruccio del genitore modello, che vuole figli inebetiti davanti allo schermo o drogati di socialità tutta digitale – penso mi avrebbe fatta rinchiudere. Pure a me…
Quell’aprile era tutto un pioppo fiorito e a ogni piumino bianco il mio naso rispondeva con uno starnuto secco che, alla fine del tragitto casa/scuola, mi permetteva di entrare in classe sveglia e già incazzata con il mondo. Da lì a un mese sarebbe stata approvata la Legge Basaglia ma, al momento, la mia nonna ombrosa era sempre sul chi va là. Non erano passati tanti mesi dall’ultima volta che l’avevo vista impazzire. Ma mica impazziva davvero! Urlava il suo dolore, la nostalgia della sua Calabria, inveiva contro suo padre che l’aveva fatta sposare a mio nonno per un suo (del menefreghista progenitore) ‘debito d’onore’, che l’aveva svenduta come una delle loro capre un tot al chilo. Piangeva sulla sua, sulla nostra miseria, su quella città fredda dal cuore arido, sulle medicine che la stordivano ma non la curavano di quel male – che le era cresciuto dentro al cuore e le serrava il petto e le labbra. E quando non ce la faceva più lo urlava, quello strazio, con l’irruenza di un fiume in piena trascinando con sé tutti e tutte. E per prime quelle sue figlie che non riconosceva, non le appartenevano e che, per la vergogna di avere una madre in camicia da notte che urlava sul balcone tra la frutta marcia e le rose infestate dagli afidi (la nonna era la regina del pollice grigio), chiamavano l’ambulanza per farla rinchiudere al Paolo Pini. «Vedrai mamma che starai subito meglio», le mentivano, falsamente premurose. Ma io lo sapevo che lì le friggevano il cervello: quando tornava a casa aveva ancora i segni e per qualche settimana sembrava un morto che cammina, con gli occhi spenti e una lacrima secca sulla guancia.
Erano passati pochi mesi da quell’ultima volta: mi ricordavo ancora il suono lancinante della sirena. Mi ricordavo quei due uomini – uno biondo e giovane che pareva il figlio dei friulani e l’altro molto più vecchio, tozzo e scuro come i fratelli del nonno – che l’avevano legata come una salsiccia da appendere a un gancio con la camicia di forza, bianca come i loro pantaloni, le loro scarpe di tela un po’ sdrucita, i loro camici. Quel bianco accecante e asettico, lo avrei sempre odiato, come quella puzza di disinfettante che si mischiava al rancido di cibi stracotti e che assomigliava all’odore del mio asilo di suore – nere, fuori e dentro. E sì, io mi ricordo mia nonna, seduta sul letto, abbattuta come una bestia ferita, che mi voltava la schiena, piegata, disfatta, inascoltata, vinta. E muta. Finalmente muta per le sue figlie che restavano in soggiorno, che non vedevano l’ora che tutto fosse finito, che quella vergogna si allontanasse da loro come una piaga infetta. Ma io no, io restavo là. Restai là fino all’ultimo, sulla porta della camera da letto. Io me lo bevvi fino in fondo quel dolore amaro e lancinante che mi saliva dalla gola e mi bruciava gli occhi. E oggi vorrei avere avuto il coraggio di entrare in quella stanza, di oltrepassare quella soglia e abbracciarla, la mia nonna, e trattenermela accanto e stringerla e non permettere a nessuno di portarmela via: appoggiare la testa su quel ventre gonfio di droghe legali, ma morbido e accogliente come quello di una madre. La mia sola madre. “Ma io vigliacca ti tradii”.
A me in fondo andava meglio. Io muovevo solo le gambe sotto il tavolo, non stavo mai ferma, non avevo mai sonno e mi avevano già punita tante di quelle volte, anni prima, perché non facevo il sonnellino quotidiano… le poche volte che i grandi erano riusciti a trascinarmi all’asilo dalle suore, che mi strattonavano per un braccio quando mi beccavano a parlare sulla brandina polverosa e mi spingevano dietro alla lavagna e mi costringevano a stare in piedi, in silenzio, con le braccia penzoloni lungo i fianchi per due intere ore – finché non finiva la tragicommedia del pisolino ‘rigeneratore’ (quasi fossimo star del cinema spazzatura). Adesso mi davano la pillola magica perché io no, non urlavo, la mia rabbia cresceva dentro rancorosa ma muta. «Carogna, carognetta, vipera velenosa, scimmia» erano i ‘deliziosi’ nomignoli che mia madre mi cuciva addosso. Poi, per farsi perdonare, mi regalava un Pocket Coffee o un Bacio Perugina e pensava di avermi comprata con poco. Ma io ricordavo. Anche la nonna ricordava e, insieme, navigavamo a vista.
In cortile i giochi si stavano facendo più crudi e violenti. Ogni tanto si univa a noi una bambina dell’ultima scala, L., che sembrava una zingara (allora distinzioni tra rom e sinti o altre definizioni ‘gentili’ non esistevano e però non gli bruciavamo i campi e, se venivano a vivere alle case popolari, ci giocavamo pure insieme). L. e io detestavamo sopra ogni cosa i maschi che tentavano di alzarci le gonne per vederci le mutande e, quindi, ci armavamo. Svuotavamo le Bic dalle cannucce dell’inchiostro, facevamo palline con la mollica ammollata di saliva, ci inserivamo dentro le puntine, private della testina, e poi le soffiavamo in faccia a chiunque si avvicinasse troppo. Miravamo agli occhi, alle orecchie, alla bocca. E loro scappavano e non tornavano più. Le ‘civette’, invece, emettevano gridolini fingendosi scandalizzate e oltraggiate ma godendo delle attenzioni. Io, soldato Jane, e la zingara ce ne andavamo via insieme, a braccetto, tra insulti volgari e parole che nemmeno capivamo. Ma sapevamo che loro, al contrario, avevano capito che esistono almeno due tipi di femmine – quelle che ci stanno e quelle no. Prima lezione del diventare maschi adulti.
Altre volte, quando il cortile si riempiva, potevamo organizzare le due squadre per giocare a Bandiera. Ma se battevi un maschio dovevi prevedere la zuffa. Il suo piccolo ego soffriva se era preso in giro. Il figlio della panettiera era alto un metro e un tappo, aveva gambe corte e denti storti (sua madre sembrava l’unica al mondo a non tenerci di raddrizzarglieli), e perciò si faceva spalleggiare da un altro, importato dal 5, un cortile dirimpetto ma non uno di noi. Un giorno di aprile la brezza leggera mi favorì e acchiappai la bandiera soffiandogliela letteralmente da sotto il naso. Seguirono i soliti epiteti e quelle parole che ormai avevamo capito cosa significassero: bastava dirle una volta di fronte alla mamma per beccarsi un ceffone. Così, qualche giorno dopo, quando l’intruso si mise a sgommare nel nostro cortile, schizzando ghiaia a ogni frenata in curva – che si infilava nelle gambe come pallini di piombo ad alta velocità (come quei pallini di piombo che mi ero ritrovata tra i denti l’unica volta che un padre portò alla nostra tavola della cacciagione, per lo schifo della nonna e mio) – io presi un sasso e glielo tirai in fronte. Lo colpii. Non gli feci tanto male ma un sottile rivolo di sangue gli scese sul naso e lui, piagnucolando, corse da mammà. Non lo rivedemmo più. Il figlio della fornaia, senza il suo bodyguard, smise pure lui di venire in cortile. Non vi nasconderò che le presi, dalla signora del Pocket Coffee e da suo marito, perché le bambine beneducate non tirano i sassi. Ma io non ero una bambina beneducata, ero una carogna. E l’intruso era una spia e un mammone.
Intanto tutta quella mia generazione, che aveva respirato l’aria della rivolta, si stava abbandonando all’abisso di Dallas e alla glorificazione dei petrolieri a Stelle e Strisce. God save America!
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 17 giugno 2022
In copertina: Foto di Nikon-2110 da Pixabay.