Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
La brezza marzolina dissipava le nubi o almeno così credevamo. Nessuno aveva più parlato di O. Ogni tanto i grandi bisbigliavano sotto voce ma, se mi vedevano, si zittivano. Questa volta, però, non avrei fatto la figuraccia di due anni prima con la nipote dei friulani, non avrei chiesto alla mamma di O., come avevo fatto con lei: «Come sta (in quel caso) tuo padre?» per sentirmi rispondere: «Ma sei scema? Mio padre è morto!». Come potevo spiegarle che non me l’aveva detto nessuno? Che mi avevano solo detto che «il papà di B. non sta bene. Non chiederle nulla. Ma sii carina con lei».
Se tuo padre sta male e la tua amica del cortile – che vedi tutti i giorni e con la quale litighi un giorno sì e l’altro anche, che a tua nonna non piace perché ha quell’accento tanto terrone, e che se puoi molli a giocare da sola per dedicarti all’amica figa che viene a trovarti da fuori, dai quartieri ‘bene’ – non ti fa nemmeno una domanda di ‘cortesia’ (come dicono i grandi quando ti insegnano a essere falsa), tu che pensi? E così io – dopo tutto questo ragionamento più abbozzato che realmente sviluppato – feci la domanda che una vocina dentro di me mi sconsigliava di fare. Del resto, non l’ascoltavo mai quella vocina… Come quando ero caduta dalla tavola a testa in giù perché mi ero sporta troppa e sapevo che stavo perdendo l’equilibrio e mi sarei dovuta fermare ma volevo essere come mia cugina, al centro dell’attenzione: in ospedale con una commozione cerebrale perché era caduta da non so cosa. E così non ascoltai la vocina e caddi. E però non arrivò l’autoambulanza a sirene spiegate e nessuno chiamò mia madre – interrompendole il sonno, che le serviva per rigenerarsi, in vista della successiva giornata in ufficio – né pensarono che avessi bisogno di andare dal dottore: no, per me bastò molto meno. Mio nonno mi prese per un braccio, mi portò in cucina, trovò 100 lire nel portamonete, ci mise su del burro e mi rischiacciò dentro il bernoccolo.
Quel giorno con B. mi beccai, perciò, lo ‘scema’, me lo assaporai tra palato e lingua – come facevo col sangue, quando mi mordevo l’interno della bocca – e, come tanti altri bocconi amari che mi sarei inghiottita, non risposi niente. Nemmeno ‘mi spiace’. Perché non era vero. Come poteva esserlo? Io non sapevo cos’era un ‘padre’. Avevo sempre fatto senza, poteva farcela anche lei.
Ma la volta che si spense la sigaretta di O., ero pronta: verità è bellezza.
Il 16 marzo tutte le preoccupazioni dei grandi per i ‘tossici in strada’ finalmente finirono nel dimenticatoio e, in casa nostra, si tornò a urlare. Il nonno ricominciò a battere i pugni sulla tavola facendo tremare piatti e bicchieri, la nonna a tirare ciabatte di plastica che non colpivano mai il bersaglio e, per un po’, i generi qualunquisti ebbero la meglio sul vecchio stalinista: avevano rapito Moro.
Per giorni mi chiesi cos’era o chi era questo Moro. Con una nonna che si chiamava Desdemona e in una casa, palcoscenico da melodramma, la favola del ‘Moro’ di Venezia me la sciroppavo fin da piccola, quando il nonno m’imboccava il pane inzuppato nel latte e caffè (vero, non quella sbobba di cicoria che rifilavano le zie già politically correct alle mie cugine), raccontandomi trame di opere liriche mischiate a testi teatrali, favole dei fratelli Grimm o di Andersen e film di Amedeo Nazzari (sempre con Yvonne Sanson), oltre a una sequela di racconti popolari o della sua infanzia e giovinezza – tipo quando era Bersagliere con ‘la piuma sul cappello’, letteralmente. C’era una buona dose di truculenza nel Moro che strozzava Desdemona, ma non più di quanta stava racchiusa nei piedi amputati infilati in due belle scarpette rosse o nei cuori di Hansel e Gretel, che spingevano la strega nel forno e la bruciavano viva. In quel periodo, poi, il fuoco cominciava ad attirarmi, dalla brace della sigaretta alle fumate papali (ma questa è un’altra storia e non farò lo spoiling).
Così mi vedevo ‘il Moro rapito’ come un melodramma e, nel frattempo, i due generi della domenica a pranzo – che venivano solo per sedersi a tavola e farsi servire, dalla nonna, i piatti preparati con quello che poteva comprare la misera pensione d’invalidità del nonno – blaterare contro di lui come se fosse stato un ideale a sparare in mezzo alla strada, o a rinchiudere quel vecchio dai capelli bianchi in una prigione senza sbarre. Le mogli ogni tanto si intromettevano fingendo di prendere le parti di ‘papà’, rimproverandoli che lo facevano ‘inquietare’ e lui doveva restare tranquillo perché era ‘malato di cuore’. Fesserie! A quell’epoca tutti i vecchi erano malati di cuore non perché lavoravano dall’età di sei anni o si erano fumati catrame ed erano finiti, più di una volta, in qualche roggia completamente ubriachi, ma perché quella era la scusa per non litigarci, anzi per non parlarci proprio, e soprattutto per non doverli ascoltare. Le figlie non ne volevano sapere di storie di guerra o della povertà dei braccianti in Calabria. Meglio: non ne volevano sapere dei poveri e tanto meno della Calabria – loro che si erano imborghesite sedendosi dietro a una scrivania e sposando dei diplomati. Avevano fatto di tutto per perdere l’accento, per stringere la O, per sposare due nordici che le avevano elevate di rango ed erano così accondiscendenti da trascorrere qualche domenica a pranzo dai suoceri ancora tanto terroni (e lui così ottusamente comunista).
Mia nonna, a fine pranzo si rubava la poltrona, prima che gliela scippasse uno dei due generi, e stava lì, con le gambe appoggiate su una sedia, dopo aver servito almeno quattro o cinque portate, senza nemmeno guardarli – come se non esistessero, come se due marziani fossero atterrati nel nostro soggiorno, ma lei sapeva che, presto, se ne sarebbero andati. Non spiccicava manco una parola. Men che meno in italiano. E se le fosse scappata – per stizza di ritrovarsi a Milano, dove non ci voleva stare – se la sarebbe rimangiata come facevo io coi miei bocconi amari. Il nonno non vedeva l’ora che se ne tornassero a casa loro e lo lasciassero in pace coi suoi libri, col suo giradischi, con me. Io pure non li sopportavo perché erano tempo perso: il tempo in cui il mio nonno e io potevamo giocare insieme e io potevo togliergli i peli dalle orecchie con la pinzetta, mettergli la brillantina sul ciuffo, stringergli il nodo della cravatta, coccolarmelo tutto, il mio bellissimo nonno – e dimenticarmi la voce gracchiante di mia madre che, sulla porta, fingendo una preoccupazione per me che le si addiceva quanto il suo visone spelacchiato, mi ammoniva che dovevo stringere le O e allargare le E. Quanto tempo avrei perso, anni dopo, per dire perché e non perchè – alla milanese…
Anche quando se ne andarono, quella domenica di marzo, il nonno continuò a rimuginare tra sé su quelle pagine del Corriere della Sera e poi davanti al telegiornale e poi ancora, durante la notte, lo sentii cavarsi i dubbi come aveva fatto coi denti, a uno a uno, da solo, con le pinze. Con me era stato più creativo, a volte gli era bastato un colpo di pollice, altre volte aveva lasciato che li facessi dondolare io per settimane, giocandoci, e una volta – in cui il dentino marcio era particolarmente ostico – me lo aveva fissato a un filo annodato alla maniglia del bagno e poi aveva sbattuto la porta. Per quanto possa sembrar strano, i denti che mi crebbero – nati da piccoli prototipi tutti cariati – non avrebbero mai avuto bisogno di un dentista. Comunque, quella notte, il nonno si cavò pure l’ultimo dubbio e quando si addormentò, che era ormai quasi l’alba, la sua fede nel partito era tornata immacolata come la neve – quando non cade a Milano.
To be continued…
I capitoli precedenti per chi se li fosse persi:
venerdì, 10 giugno 2022
In copertina: Foto di Kinkate da Pixabay.