Dall’inflazione alla gestione della pandemia passando per la fame nel Terzo Mondo
di Simona Maria Frigerio
Il 3 giugno, a Rossiya TV, il Presidente Vladimir Putin (nonostante le fonti occidentali e ucraine lo diano per terminale di non si sa quale malattia, quasi fossimo tornati ai tempi dell’Urss), ha risposto ‘dal vivo’ a una serie di domande del collega Pavel Zarubin.
Invece di tacciare di menzogna le sue dichiarazioni, abbiamo voluto confrontarle con quanto sappiamo da fonti stampa occidentali.
Se è sotto gli occhi di tutti l’aumento incontrollato dell’inflazione, non altrettanto chiaro è il collegamento diretto – addotto da mass media e politici occidentali – tra crisi alimentare in Africa e stagflazione in Europa con la guerra civile in corso in Ucraina. I problemi economici sono davvero iniziati il 24 febbraio 2022? La gestione della pandemia non ha nulla a che fare, ad esempio, con l’aumento dei prezzi dei beni di consumo negli States? Ma soprattutto, il mondo marciava felice verso un futuro di stabilità socio-economica prima del Covid-19 oppure i segnali di una crisi del capitalismo occidentale erano già evidenti? E l’Africa non ha altri problemi oltre agli approvvigionamenti di grano dall’Ucraina, a parte il rifiutare gentilmente quei vaccini non sterilizzanti che non riusciamo più a smerciare alle nostre popolazioni (con il Ceo di Moderna, Stéphane Bancel, che si lamenta al World Economic Forum di Davos perché dovrà gettare nei rifiuti 30 milioni di dosi di vaccini dato che: «Abbiamo un grosso problema di domanda», come precisa il collega Tyler Patchen su https://endpts.com)?
Tornando all’intervista a Putin, vediamo qual è il suo ragionamento. Secondo lui la situazione africana ha iniziato a deteriorarsi nel febbraio 2020 (a causa della pandemia e della crisi economica conseguente). A riguardo leggiamo cosa scriveva il sito della FAO il 26 ottobre 2020: “La pandemia da Covid-19, alzando i livelli della fame e della malnutrizione, unita all’aumento degli sciami di locuste, fa da sfondo alla 31a sessione della Conferenza Regionale per l’Africa”. La stampa accreditata africana, del resto, da ben due anni denuncia le cosiddette 3 C quali cause della crisi alimentare nel continente: il Covid-19, il cambiamento climatico, i conflitti interni e tra Stati africani. Sempre la FAO, l’11 aprile 2022, aggiungeva che persino prima dello scoppio della pandemia, “vi erano 280 milioni di persone denutrite in Africa. Nel 2020, la regione registrava il più netto rialzo nella diffusione della malnutrizione – che interessava il 21% della popolazione, il che era oltre il doppio di quanto si registrava in qualsiasi altra regione” (t.d.g).
Passiamo all’inflazione. Riprendendo le dichiarazioni del Presidente Putin, la sua visione è che le autorità statunitensi si trovino di fronte a una crisi economica indotta dalle misure per contrastare la pandemia, intendendosi l’allocazione di risorse per supportare la popolazione e alcuni settori economici. Spieghiamo meglio. Secondo Putin anche la Russia lo avrebbe fatto ma “selettivamente e raggiungendo i risultati desiderati senza influenzare gli indicatori macroeconomici, inclusa una crescita eccessiva dell’inflazione”. Al contrario, gli Usa avrebbero supportato tale strategia letteralmente fabbricando dollari che, immessi sul mercato – contando sul fatto che il dollaro si pretende essere la moneta unica per gli scambi internazionali – avrebbero sostenuto la richiesta interna, scaricando gli ‘eccessi’ di valuta sull’economia globale. Questo spiegherebbe perché gli Stati Uniti premano tanto perché si usi il dollaro in ogni transazione internazionale e anche come un indebolimento delle altre valute (non solamente il rublo o lo yuan, ma soprattutto l’euro) giocherebbe a favore della ‘sicurezza indiscussa’ del dollaro quale moneta di scambio.
Per confutare o avvalorare tale tesi partiamo dalle cifre fornite da Nbc News: “Il pacchetto di stimolo economico dell’amministrazione Obama per rispondere alla recessione del 2008 ammontava a 787 miliardi di dollari; i pacchetti di stimolo economico per fronteggiano la crisi pandemica varati dalle amministrazioni Trump e Biden ammontano a circa 5 trilioni di dollari” (t.d.g.). Teniamo presente che, negli States, un trilione equivale a 1.000 miliardi di dollari. Ma cambiamo testata. Il New York Times, a maggio 2022, ammetteva che l’inflazione è una sfida, ma non solamente per i comuni cittadini bensì anche per la Casa Bianca e la Federal Reserve. Come mai? Forse andrebbe chiarito che l’amministrazione Biden ha rischiato lo shutdown non più tardi dell’autunno scorso. Il 29 settembre 2021 InsideOver spiegava cosa sia: “La paralisi amministrativa, se così si può definire, sembra essere divenuta una triste consuetudine: a partire dal 1976 il blocco delle attività amministrative si è verificato ben venti volte. Il 27 settembre in Senato era prevista la votazione per alzare il tetto del debito pubblico”. In pratica, debito pubblico incontrollato. Ovvero difficoltà a pagare gli stipendi dell’enorme macchina burocratica, amministrativa ma anche da guerra statunitense. Quindi, anche secondo la stampa finanziaria a Stelle e Strisce, gli Usa avrebbero coniato troppa moneta elargita sotto forma di ammortizzatori sociali e aiuti economici alle aziende, che avrebbe avuto una ricaduta positiva nell’acquisto di beni (ma non di servizi, visto il taglio delle attività socio-economiche), a cui si aggiungerebbe l’effetto negativo a catena della supply chain in un mondo globalizzato ove ogni prodotto è frutto di lavorazioni e materie prime provenienti da Paesi diversi (https://www.economicsobservatory.com/what-is-supply-chain-inflation-and-why-is-it-driving-up-consumer-prices-now), il che avrebbe innescato e continuerebbe a sostenere una crisi inflattiva grave. Come spiegava il collega Luciano Uggè recensendo il libro dell’economista Stephanie Kelton (https://www.inthenet.eu/2021/10/15/la-sovranita-monetaria-e-di-sinistra/) la differenza sta nell’oggetto dell’investimento: se si ‘battono’ dollari per creare servizi e occupazione si crea benessere, se li si ‘battono’ per far aumentare i consumi (soprattutto delle classi privilegiate) si traduce in inflazione.
La stampa liberal statunitense ogni tanto lo scrive ma, in mezzo a migliaia di altri articoli tutti volti ad accusare la Russia dell’attuale situazione, il peso di un’analisi attenta e a lungo termine scompare: questo meccanismo di information overload, del resto, era stato denunciato da Edward Herman e Noam Chomsky già nel 1988 – “Ciò che è evidente (e resta indiscusso nei media) è la natura limitata delle critiche, così come l’ineguaglianza enorme nel possesso delle risorse, il che si riflette sia sull’accesso ai media privati sia sui loro comportamenti e azioni” (t.d.g.).
Si può accusare la Russia almeno per la crisi del grano?
Ovviamente le coltivazioni intensive necessitano fertilizzanti. Le sanzioni, quindi, imposte da Europa e Stati Uniti contro i fertilizzanti russi ricadono sulle spalle di chi ne ha più bisogno: gli africani. L’11 marzo 2022, ad avvertire il mondo, era stato Qu Dongyu, Direttore Generale della FAO, affermando che le restrizioni economiche alla Russia avrebbero avuto ripercussioni sulla sicurezza alimentare: “Ciò è particolarmente vero per una cinquantina di Paesi che dipendono da Russia e Ucraina per un 30% e oltre delle loro forniture di grano. Molti tra di essi sono Paesi tra i meno economicamente sviluppati o a basso reddito, con deficit alimentare, del Nord d’Africa, Asia e Vicino Oriente. Molti Stati europei e dell’Asia centrale dipendono dalla Russia per oltre il 50% delle loro forniture di fertilizzanti” (t.d.g.). Di conseguenza, l’Occidente era ben consapevole di chi avrebbero effettivamente colpito le sanzioni e in quale misura – non si può fingere di non essere come minimo corresponsabili della crisi alimentare nei Paesi più poveri.
La Russia, però, come fa presente il collega di Rossiya TV, sembrerebbe impedire al grano ucraino di lasciare i porti. La risposta di Putin è che delle 800 milioni di tonnellate di frumento prodotte al mondo, l’Ucraina ne esporterebbe solo 20 milioni (il 2,5%), mentre il frumento a sua volta coprirebbe solo il 20% della produzione alimentare globale. Inoltre, secondo le autorità statunitensi, al momento le esportazioni ucraine bloccate ammonterebbero solo a 6 milioni di tonnellate. Per quanto riguarda la questione porti, il Presidente Putin afferma che i porti sul Mar Nero controllati dall’Ucraina sono stati minati – ma non dalla Russia bensì dal Governo del Presidente Zelensky (e questo è ovvio dato che sono gli ucraini ad avere il controllo di tali aree), mentre i russi e gli ucraini separatisti del Donbass hanno dato la loro disponibilità a far partire dai porti sul Mare d’Azov sotto il loro controllo – Berdyansk e Mariupol (il cui sminamento è stato completato alcuni giorni fa dalle truppe russe, che hanno restituito l’area alla Repubblica di Donetsk) – anche il grano ucraino. Gli ucraini, se volessero, potrebbero inoltre esportare il grano via Danubio e attraverso la Romania, attraverso l’Ungheria e persino la Bielorussia e i porti sul Baltico (vista anche la disponibilità data dal Presidente bielorusso in proposito). Vediamo se dette affermazioni sono o meno veritiere.
Partiamo da fonti turche (il Daily Sabah), che confermano la presenza di mine nel porto di Odessa (attualmente sotto controllo ucraino). Saranno, tra l’altro, le “forze militari turche a occuparsi dello sminamento e a scortare le navi fino in acque neutrali” – accordo controfirmato in questi giorni anche dai russi per permettere l’esportazione di frumento.
Ma quanto grano esporta l’Ucraina davvero e rispetto a quale quantitativo totale? Secondo le fonti ufficiali ogni anno se ne producono 749.467.531 tonnellate e la Cina sarebbe il maggiore produttore al mondo. Secondo https://asmith.ucdavis.edu/ la Russia ne produrrebbe l’11% e l’Ucraina solo il 3%. Secondo Forbes, però, le Nazioni Unite calcolano che in Ucraina siano disponibili 20 milioni di tonnellate di cereali già raccolti. In effetti Ucraina e Russia esportano anche altri prodotti agricoli, oltre al grano, quali l’olio di girasole, l’orzo e il mais. La visione della crisi, quindi, non va ristretta al solo frumento e, spesso, si confondono o sovrastimano alcuni dati perché si ricomprendono nelle granaglie, oltre al frumento, diversi cereali (che sono, in ogni caso, importanti per l’alimentazione di molte popolazioni). La crisi del grano potrebbe perciò essere sovrastimata, così come potrebbero apparire ingiustificati i rincari della pasta – soprattutto in Italia, come spiega Carlo Calenda su pagellapolitica.it riguardo al grano duro, indispensabile per i pastifici: “l’anno scorso l’Italia ne ha importato zero tonnellate dall’Ucraina e oltre 57 mila tonnellate dalla Russia, il 2,5 per cento sul totale”.
Ma veniamo ai raccolti nel loro complesso. Qui dobbiamo salire a 2,2 miliardi di tonnellate metriche (definizione Usa), quale produzione annua. Secondo world-grain.com il raccolto 2021/22 dell’Ucraina (sicuramente migliore di quello dell’anno precedente) dovrebbe attestarsi sulle 74,2 milioni di tonnellate (mentre nel 2020/21 si era fermato a 64,9), ossia poco più del 3% della produzione mondiale. I conti tornano con quelli del Presidente ma non con le ragioni inflattive addotte dai mass media occidentali.
E veniamo al discorso dei fertilizzanti perché è indubbio che sono indispensabili per ottenere gli attuali raccolti – soprattutto visto che la popolazione mondiale, Covid-19 o meno, si avvia verso gli 8 miliardi a passo spedito. Come precisa Putin, appena si è saputo che i loro non sarebbero più stati sul mercato, i prezzi dei prodotti agricoli sono aumentati. Ancora una volta, il peso delle sanzioni ricade sui Paesi più poveri con buona pace delle nostre coscienze di occidentali.
E veniamo all’ultimo fattore che ha causato, dopo una sequela di scelte sbagliate tutte europee e statunitensi, l’attuale rincaro dei beni di prima necessità – e non solo. Ossia la dipendenza energetica dal gas russo. In affetti, come scrivevamo anche noi alcune settimane fa (https://www.inthenet.eu/2022/04/15/la-propaganda-di-guerra-ripulisce-il-gas-di-scisto/), se l’Europa acquistava dalla Russia, annualmente, 155 miliardi di metri cubi di gas naturale, i 15 miliardi di metri cubi di gas liquefatto l’anno che potrebbero arrivare dagli States sono semplicemente ridicoli. Non parliamo del fatto che questi ultimi provengono dalla fratturazione idraulica e, quindi, da fonte altamente inquinante o che (come puntualizza Marco Corrini su lineaitaliapiemonte.it), lo shoal gas ci viene recapitato: “con le navi gasiere che per ogni tragitto verso l’Europa bruciano circa 4.000 chili di gasolio marittimo ogni ora, 96.000 chili al giorno, che per 40 giorni del viaggio di andata e ritorno dagli USA fanno quasi 4.000 tonnellate a nave”. Ma si sa che si è ‘verdi’ quando fa trendy esserlo, gli altri giorni della settimana va bene tutto pur di giustificare scelte miopi e controproducenti. Ancora di più se si torna alle 3 C della succitata crisi africana e ci si rende conto di quale impatto abbia ognuna di queste scelte sull’ambiente.
Tacciamo sull’affaire pagamento gas in rubli: senza volervi tediare per l’ennesima volta con la spiegazione del meccanismo sottostante, fidatevi. Il problema con Gazprom non è in quale valuta si salda il debito, è se si vuole saldarlo e se si preferisce versare le somme in banche che poi, applicando le sanzioni, non verserebbero mai il dovuto alle casse russe. I cittadini europei dovrebbero sapere che alcuni tra i loro Governi tentano semplicemente di acquisire beni senza versare il dovuto (il che, per le nostre legislazioni, è equiparabile a ladrocinio).
Ma i problemi – che è impensabile liquidare con la battuta del ‘condizionatore’ – non nascono ieri. Lo abbiamo già scritto, e il Presidente Putin ribadisce ciò che anche noi, nel nostro piccolo, avevamo denunciato: «Gli europei non hanno ascoltato le nostre persistenti richieste di conservare contratti a lungo termine per la consegna del gas naturale ai Paesi europei» (t.d.g.). Ovviamente anche questo è stato un fattore negativo che ha portato a un aumento dei prezzi. Ma Putin sottolinea anche un altro aspetto: «Appena il costo del gas ha iniziato a salire, anche i prezzi dei fertilizzanti lo hanno seguito dato che il gas è usato per produrre alcuni di questi fertilizzanti. Ogni cosa è connessa. Appena i prezzi dei fertilizzanti hanno cominciato ad aumentare, molte aziende, incluse alcune in Europa, sono diventate poco redditizie e hanno chiuso» (t.d.g.). Anche perché Russia e Bielorussia produrrebbero il 45% dei fertilizzanti al potassio – e gli stessi sono diventati indispensabili, come sa ogni agricoltore. Ovviamente abbiamo cercato di verificare anche questo dato e, secondo Icis.com, se il primo esportatore è il Canada con 21.625.128 tonnellate annue, il secondo nel 2021 era la Russia che si attestava a 11.832.717 tonnellate e il terzo la Bielorussia con 5.141.900 tonnellate.
Quale futuro?
Nell’attuale mondo globalizzato (come da diktat capitalista occidentale), come si può rimproverare un Paese africano perché si è dato, magari, alla produzione intensiva di prodotti non di sussistenza (allettato, forse, dalle promesse occidentali) o un altro perché ha contato sul fatto che fosse più lucroso impiegare la forza lavoro nell’estrazione di una materia prima – indispensabile alle nostre aziende – e con il margine di guadagno in positivo pensasse di acquistare sui mercati frumento od olio di girasole, tendenzialmente meno cari? Per decenni è stato inculcato a tutti e a ognuno che questa era la new economy e non esistevano alternative.
D’altro canto, citandoci nuovamente (https://www.inthenet.eu/2021/01/15/dai-burger-al-golf-quando-il-green-diventa-moda/), non capiamo perché distribuire bonus per il risparmio energetico favorendo pompe di calore e pannelli solari o fotovoltaici privati quando nel 2020 abbiamo permesso che l’Anest – l’Associazione Nazionale Energia Solare Termodinamica – si sciogliesse, buttando alle ortiche i progetti per 14 grandi centrali solari termiche a concentrazione (https://cdn.qualenergia.it/wp-content/uploads/2019/11/ANEST_il_tramonto_del_sole.pdf).
Nel frattempo, non sappiamo neppure come faremo a ripagare gli 806,9 miliardi di euro del Next Generation EU (che doveva ricomprendere anche il settore green, fatto salvo che in Italia si spende, al contrario, per militarizzare, ad esempio, la Toscana), e già Von Der Leyen parla di altri 210 miliardi per il Piano RePowerEU, da usare per renderci indipendenti dal gas russo. Le previsioni della Commissione dell’Unione Europea smentiscono, però, tale lettura del presente e, soprattutto, del futuro, visto che vaticinano di arrivare a 10 milioni di pompe di calore (il doppio delle attuali) nei prossimi 5 anni – a fronte di 129 milioni di caldaie (di tutti i tipi) installate in Europa (dati 2021).
Di fronte a certe discrepanze tra enunciato e realtà verrebbe da sorridere ma l’Italia è anche al primo posto in Europa per numero di apparecchi domestici a pellet installati raggiungendo il numero di 2,2 milioni, e Il Fatto Quotidiano fa presente che i Medici per l’Ambiente hanno già lanciate l’allarme: “Bruciare legna rappresenta il 35% del consumo totale di energia, ma copre l’84% delle spese per ictus, malattie cardiache, cancro ai polmoni e malattie respiratorie acute e croniche legate all’inquinamento” – della serie che i problemi sono ben altri. Sempre nell’altisonante piano della Commissione Europea si parla di biometano per aumentare la produzione a 35bcm (miliardi di metri cubi) entro il 2030, anche attraverso le politiche agricole comuni. Peccato che (tra tanti pareri discordanti e tanti flop nelle amministrazioni comunali), Focus nel 2015 (e, quindi, in tempi non sospetti) scrivesse: “L’utilizzo delle biomasse per il riscaldamento residenziale non porta i benefici sperati e anzi, a causa delle emissioni di particolato (Pm 2.5), incrementa l’inquinamento atmosferico e provoca danni alla salute. È quanto emerge dallo studio Enea, Gli impatti energetici e ambientali dei combustibili nel settore residenziale, presentato oggi in un evento promosso a Roma da Assogasliquidi e Anigas, le associazioni rappresentative dei settori gas naturale e liquefatto”. Più interessante sembra il percorso dell’idrogeno (per il quale si finanzierebbero progetti di ricerca con miseri 200 milioni di euro) ma le previsione realistiche sono sempre per il 2050 e non per dopodomani.
Ciò che preoccupa di più è ciò che l’Unione Europea afferma sul proprio sito ufficiale: “replicando l’ambizione dell’acquisto comune dei vaccini [grazie al quale abbiamo comperato milioni di dosi di un vaccino non sterilizzante per un virus che ormai si è diversificato e sollevando le Case farmaceutiche dai rischi penali e civili in caso di decesso o effetti avversi gravi negli inoculati, n.d.g.], la Commissione [notoriamente non elettiva e che non si sa a chi risponda, n.d.g.] considererà lo sviluppo di un ‘meccanismo di acquisto’ che negozierà e contratterà gli acquisti di gas a nome degli Stati membri che aderiranno. La Commissione considererà altresì misure legislative per richiedere la diversificazione delle fonti di approvvigionamento del gas nel tempo degli Stati membri. La Piattaforma garantirà inoltre l’acquisto congiunto di idrogeno” (t.d.g.).
A questo punto qualcuno suonerà un De profundis sulla democrazia degli Stati ‘membri’.
venerdì, 10 giugno 2022
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.
Nel pezzo: Il Presidente Vladimir Putin. Foto di Дмитрий Осипенко da Pixabay.