… nel Calderón di Pasolini
di Francesca Camponero
“Secondo me nessuno dei testi di Pasolini è una tragedia, non c’è mai uno spirito tragico nel senso classico, probabilmente a causa di quel ricorso ritornante allo sdoppiamento. Per scrivere una tragedia bisogna esista un eroe e se si tende a una tragedia interiore difficilmente esiste, non c’è”, queste le parole di Luca Ronconi pubblicate nell’introduzione al testo di Stefano Casi, I teatri di Pasolini. Leggendole verrebbe da pensare che Ronconi non avesse gran stima di Pasolini per lo meno come autore di opere teatrali eppure lui stesso fu uno dei pochi a rappresentare alcuni dei testi teatrali pasoliniani come il Calderón, dandone ovviamente una sua lettura del tutto personale. Anche su Calderón, messo in scena dalla Scuola di Teatro del Tst (Corso 1992-93), Ronconi esprime le sue perplessità affermando che la protagonista Rosaura che si stripla in tre figure non ha una propria identità definita e questo (aggiungo io) se stiamo attenti a quanto detta Aristotele nella sua Poetica non va bene affatto per la resa di una tragedia. Infatti Ronconi risolve la sua regia del Calderón facendo interpretare Rosaura a tre attrici differenti.
Ma Calderón resta comunque uno dei testi migliori tra le opere teatrali di Pasolini. Lui stesso, sicuro che fosse una “delle più sicure riuscite formali”, recensirà l’opera in risposta alla giovane “nuova sinistra” (che giudicò Calderón “dal punto di vista politico” di una “rilevanza nulla”), e ribadirà come il tema del dramma sia lo scontro tra individuo e potere: “In tutti e tre i suoi risvegli, Rosaura si trova in una dimensione occupata interamente dal senso del Potere. Il nostro primo rapporto, nascendo, è dunque un rapporto col Potere, cioè con l’unico mondo possibile che la nascita ci assegna” – queste le sue parole.
Di ispirazione per l’opera, composta nel 1967 e pubblicata nel 1973 (l’unico dramma teatrale pubblicato in vita da Pier Paolo Pasolini), fu La vida es sueño (1635) di Calderón de la Barca considerata da Pasolini come un esempio di “sorprendente modernità” sin dalla sua prima giovanile lettura. In un articolo del 1942, una cronaca del viaggio a Weimar che Pasolini fece in occasione di un raduno della gioventù universitaria dei Paesi fascisti o gravitanti attorno al fascismo, i nomi di Calderón e Velázquez risultano per la prima volta affiancati. Molti anni dopo, La vida es sueño diventerà per Pasolini un tramite per affrontare il presente, quello del 1967, riletto proprio alla luce di quanto di peggio la cultura celebrata in quel viaggio a Weimar aveva prodotto.
La visione sul dramma principe del Siglo de Oro adottato da Pasolini è “di scorcio”, proprio come quella di Velázquez sullo stanzone ne Las meninas. La tela di Velázquez per Pasolini, citando uno scritto di Roland Barthes, è a “canone sospeso”, cioè genera una sospensione di senso conferendo all’osservatore una libertà interpretativa. Questo territorio è lo scenario perfetto per il gioco metateatrale proposto in Calderón. Pasolini sposta infatti l’attenzione dal protagonista originario, il principe Sigismondo, rinchiuso in una torre dal padre per via di una profezia (come nell’Edipo di Sofocle), al personaggio secondario di Rosaura, delle cui vicende lo stesso autore offre la sua versione metaforica: nelle prime due parti Rosaura si risveglia dal sonno Calderóniano aristocratica e sottoproletaria (adattandosi poi alla realtà di tale risveglio), nella terza parte, risvegliandosi nel letto di una piccola borghese dell’età del consumismo, l’adattamento le riesce molto più difficile. “Il marito piccolo-borghese, benpensante, non fascista ma peggio che fascista”, come scrive Pasolini, è indigesto da sopportare, ne derivano l’alienazione e la nevrosi.
“Solo le persone sane e senza dolore possono vivere rivolte verso il futuro! Le altre – malate e piene di dolore – sono lì, a mezza strada, senza certezze, senza convinzioni e magari tuttora, almeno in parte, vittime del conformismo e dei dogmi di una storia ancora più vecchia, contro cui hanno tanto combattuto”, così lo speaker “contraddittorio, ambiguo e scomposto”, nient’altro che Pasolini stesso, come si esprime all’inizio dell’opera – e nel segno della diversità si svilupperà tutto Calderón. Il potere non perdona “queste persone” e se le accetta lo fa soltanto se si riempiranno del bene borghese. Amaramente come tutte le sue altre tragedie si chiude anche Calderón in cui la contestazione del ʻ67 e del ʻ68, nuovo tipo di opposizione al potere, non è altro che l’albeggiare di un nuovo secolo di cui la classe operaia non è stata che un sogno, nient’altro che un sogno.
venerdì, 27 maggio 2022
In copertina: Pier Paolo Pasolini in uno schizzo di proprietà di Francesca Camponero (tutti i diritti riservati. vietata la riproduzione).