Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
Avete mai odiato davvero qualcuno? Con tutte le vostre forze, forse senza nemmeno sapere perché? Quando si è bambini le emozioni sembrano più intense – come i colori prima che la cataratta ce ne privi. Si piange a dirotto e si ride a crepapelle. Ci si picchia di brutto e quando si è femmine si usano i più sporchi trucchi: si tirano i capelli, si sferrano calci negli stinchi, si mira agli occhi o agli occhiali e, se tutto fallisce, si sputa in faccia. Ecco, quell’odio viscerale io lo provavo per il nipote della signora S., sempre del pianterreno (che pareva il piano più abitato del caseggiato: quasi che dagli altri piani non scendesse mai nessuno in cortile). Lei indossava perennemente delle vestaglie senza maniche a grandi fiori che, un tempo, dovevano essere state sgargianti ma ormai erano unte, macchiate e scolorite, dalle quali uscivano come proboscidi due braccia e due gambe nerborute e pelose, più simili a tronchi ben piantati per terra che a membra di una donna che, allora, mi sembrava vecchissima – ma avrà avuto forse una sessantina d’anni. Lei rideva quando guardavo torva il suo adorato nipote con la zazzera bionda che sarebbe potuto sembrare un bel bambino, in superficie, ma dentro nascondeva qualcosa di putrescente. Rideva e mi stuzzicava: «Chi disprezza, compra!» Ma non era il nostro caso. Lui non era l’uva e io non ero la volpe – o viceversa, come vi pare più gender fluid. Lui era l’antipatia e l’invidia incarnata e io la sua nemesi.
S. – il nipote di nonna S. – era un debole che eleggeva, a scuola, il bullo della classe a suo idolo e se lo ‘lisciava’ facendogli da Igor (come Martin Feldman in Frankenstein Junior ma senza far ridere); e, in cortile, scoppiava dall’invidia per W., il nipote della vecchissima portinaia che pareva essere stata teletrasportata – come il mio adorato signor Spock – da qualche paesino dell’entroterra siciliano o calabrese. Tutta in nero, con il foulard nero calato su rughe che le solcavano il volto come fiumi impetuosi in una valle arida, un colorito giallastro da bile o da sole, e la schiena ricurva, stava tutto il giorno in guardiola a controllare i passanti, senza salutare mai nessuno – nemmeno gli inquilini che vivevano lì, come i nonni, fin da prima della Seconda guerra mondiale. Sembrava persa nel tempo, forse un suo tempo/ricordo, che non abbandonava mai, come l’immaginetta del marito spillata sul petto. E io me la immaginavo giovane, mentre ballava con quel soldato un ultimo valzer e quel soldato doveva assomigliare tutto a W., suo nipote: zazzera pece e occhi carbone, pelle scura come fosse appena arrivato dall’altra sponda del Mediterraneo – diametralmente opposto a S. nel cuore come nei lineamenti, nella carnagione come nel temperamento. E io guardavo quel suo naso aquilino, quelle membra scattanti su un corpo troppo magro e già allampanato e quei denti “come un gregge di pecore tosate” (la mia nonna aveva una passione tutta sua per il Cantico dei Cantici, anche se quella frase persino allora mi sembrava riuscita male: la lana è sporca e giallastra e pensavo che non potesse essere un gran complimento dire a qualcuno che aveva i denti sporchi e giallastri), che però significava candidi come il sorriso della Durban’s durante il Carosello. S. lo invidiava al punto che l’avrebbe preso a botte se non ne avesse avuto timore finché un giorno lui sparì, con la sua nonna che era stata sfrattata perché alle case popolari avevano deciso che le guardiole andavano chiuse e costava meno avere una donna per le pulizie metà giornata – che forse avrebbe pure lavato qualche volta le scale dei palazzi, ma non avrebbe avuto W. come nipote. Non vidi nemmeno quando lui andò via e non potei salutarlo e, sebbene sapessi che avrebbe vissuto solamente un paio di caseggiati più in là, sulla stessa via, capii che non l’avrei mai più rivisto e mi scese una lacrima di stizza e disperazione. La prima lacrima di stizza e disperazione. Da allora odiai S. con la potenza delle emozioni dei bambini per i quali non c’è un domani, e non c’è una ragione, e non c’è nemmeno un rimedio. S., che era rimasto, e ghignava all’idea che adesso sarebbe stato il ‘reuccio’ del cortile, con la sua zazzera bionda da nordico e i suoi occhi slavati – e la sua nonna abbondante e dritta come un fuso, che ne vantava le doti come se fosse stato un pezzo di manzo che tutte le bambine e le adolescenti del quartiere si sarebbero volute servire su un piatto da portata.
L. era la figlia della signora a mezzo servizio che doveva pulire le scale. L. aveva avuto la polio e camminava a fatica con le gambe magre costrette in una specie di gabbia che mi avrebbe ricordato quella che doveva indossare un mio compagno di scuola, qualche anno dopo, in piena faccia, per raddrizzare i denti. Quali marchingegni mostruosi usavano in quegli anni per ‘correggerci’! Sembrava fossimo venuti tutti un po’ male, eravamo nati tutti un po’ storti: chi le anche, chi le gambe o i piedi – in dentro o in fuori – chi i denti o le orecchie a sventola e qualche labbro leporino, che ancora si vedeva in giro a sfregiare visi butterati o semplicemente sporchi, e poi nasi adunchi o bitorzoluti, occhiali di plastica spessi come fondi di bottiglia, corpetti imposti dopo averci rifilato l’intervento in diretta tivù sulla scoliosi di una ragazza, e scarpe ortopediche. Loro, gli adulti, quella massa informe di menti che non capivamo e non ci importava nemmeno di capire, partorivano queste gabbie nelle quali ci rinchiudevano rovinandoci l’infanzia e l’adolescenza. Apparecchi di ogni sorta con pezzi di metallo che uscivano dal nostro corpo, dalla nostra bocca e si legavano con bende color carne che si sporcavano in una sola giornata di smog e fumo delle ciminiere che ancora eruttavano in tutta Milano. E tutto questo per essere un giorno (ma quando mai?) forse ‘perfetti’. Ma L. avrebbe avuto bisogno di ginnastica, di massaggi, di sport e non di quella ferraglia che l’aiutava a salire le sei rampe di scale fino al loro appartamento, dove le case popolari li avevano rinchiusi per anni, pur sapendo che L. era poliomielitica; ma le case popolari sembravano non sentirci e lei saliva e scendeva quelle scale buie, affannata e sola, reggendosi al corrimano, trascinandosi dietro gambe e ferraglia, e le case popolari restavano mute, lontane, infischiandosene. Come lo Stato italiano.
O. viveva anche lei ai piani alti. Ma col patrigno. La madre se l’era trovato non si sa dove e doveva essere molto felice di esserselo trovato anche perché lui aveva regalato un monopattino rosso fiammante a O., che noi nemmeno ce lo sognavamo! Ma O. non sembrava felice. Non da quando c’era il patrigno. Non che O. fosse mai stata davvero dei nostri. Era più piccola. Ma non così tanto da doversene prendere cura. Più piccola quel tanto da non afferrare subito una battuta o da non riuscire a correre come avrebbe dovuto se era nella tua squadra quando si giocava a bandiera. Ma andava bene a elastico perché le sue gambe, per quanto lunghe, non lo erano come le nostre e quando si arrivava a saltare ad altezza coscia, lei perdeva sempre. Il monopattino era una figata. Lo volevamo tutte. Ma a me erano toccati i pattini a rotelle. Quelli che non volevo, non avevo mai chiesto e temevo più del mal di denti: io avevo chiesto quelli per il ghiaccio e di andare a lezione per danzare come Alexander Gorshkov e Lyudmila Pakhomova. Ma cosa ti regalano i ‘padri veri’? Quello che non vuoi – a differenza dei patrigni che cercano di ingraziarsi la mocciosa per sistemarsi con la madre. E così io mi feci una sola corsa coi pattini, caddi, piansi, li restituii al mittente e non me li rimisi mai più. Ma O. passava interi pomeriggi, quando il patrigno era a casa, giù in cortile col monopattino rosso fiammante e noi la invidiavamo e però noi potevamo salire quando volevamo per far merenda o se c’eravamo sbucciate un ginocchio o a bere un bicchiere d’acqua del rubinetto se avevamo sete. Lei no.
G. era davvero bellina. Era andata a vivere all’ultimo piano nella casa che era stata della sua nonna. E ci viveva con i suoi genitori: il che la rendeva unica. Persino col padre. Fatto ancora più unico. E lui a volte, il sabato, scendeva persino da quel suo appartamento al terzo piano e se la portava via, la G. La portava al parco a giocare con lui mentre la mamma puliva casa. Oppure se la prendeva in braccio, tutta fresca e pulita e vestita di bianco e se la coccolava, abbracciandola di fronte a noi. E noi li mollavano lì, a scambiarsi effusioni come nei telefilm alla tivù e tornavamo a sudare nelle nostre magliette che, il sabato, erano stazzonate da un’intera settimana di giochi in cortile, e gli voltavamo le spalle perché loro non ci appartenevano. Loro erano come il signor Spock, di un altro mondo.
Il nonno era comunista e ve l’ho già detto ma lui non si faceva problemi a salutare la signora M. col barboncino nero, vedova di un fascista, o il signor T., tutto elegante, che andava in giro con l’immaginetta del Duce spillata sul petto (come quella del marito della nostra portinaia: identico amore). Il nonno aveva l’animo settato sul motto: “Vivi e lascia vivere” e come un flâneur, coi suoi pantaloni con la piega rigorosamente stirata di fresco e la camicia dal colletto inamidato, si girava tutti i giorni il quartiere salutando tutte e tutti. Sempre sorridente. Con i suoi baffetti alla Clark Gable. Con la sua aria charmante. Con quel suo passo da ex ballerino di tango figurato. E io lo guardavo e lo ammiravo e poi guardavo me stessa, sempre impiastricciata di qualcosa, con le ginocchia e le palme sbucciate, e la bocca che scopriva quei miei dentini, sì quelli “come un gregge di pecore tosate” e il naso col cappero che era salato quando lo mettevi in bocca, dopo essertelo per bene impastato tra le dita, e io avrei voluto essere proprio come lui, come il mio nonno, ma quando lo vedevo stringere la mano a quell’uomo con la spilletta del Duce, l’unico che lo facesse, mi chiedevo se “Vivi e lascia vivere” fosse anche il mio motto – io che sapevo già odiare e che no, non dimenticavo e no, non perdonavo mai.
Quando arrivarono quelli della camorra (e pure questo ve l’ho già raccontato) S., che allora aveva 14 anni, si mise con uno spacciatore, uno che stava bene, che vestiva bene, che non era solo un tossico da strada che spacciava per procurarsi la droga per farsi, e lei prese a fumare (le sigarette) e a truccarsi e a vestirsi e non scendeva più in cortile a chiacchierare di ragazzi come faceva prima con G. (che le era coetanea). Prima stavano ore sugli scalini a raccontarsela (mentre noi cercavamo avidamente di afferrare brani di discorsi che capivamo solo a metà): questo è più figo di quello e quello ha il motorino più veloce e si fa tutta la via impennando e quell’altro è già maggiorenne e c’ha la Lancia Beta marrone che se la rimirano tutti in quartiere (e pure io mi sgranavo gli occhi quando la vedevo). E poi venne lo spacciatore in completo, con l’automobile, più grande tanto più grande, e lei stava di sopra, in casa di sua madre ad aspettarlo il sabato pomeriggio e la madre doveva andarsene. Anche la sorella doveva andarsene. E lei lo aspettava di sopra e non scendeva più in cortile con noi e G. smise anche lei di scendere perché con noi, più piccoli, si annoiava. E un giorno S. era incinta: che ne avrebbe fatto?
Adesso che avete conosciuto almeno i personaggi principali, sarà ora di raccontarvi cosa accadde in quell’anno di grazia…
To be continued…
Il primo capitolo per chi se lo fosse perso:
venerdì, 20 maggio 2022
In copertina: Foto di Jill Wellington da Pixabay.