Da I racconti del tempo che non sarà più
di Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione anche parziale)
Mi guardo intorno in questo mondo apparentemente arcobaleno, ma realmente grigissimo, dove dobbiamo essere tutti ossequianti del pensiero politically correct. Guardo questo mondo dove i telefilm sembrano usciti dalla pesa di un alchimista ubriaco. Un nano o un paralitico, una afro-americana, una donna ma Wasp, un uomo bianco a capo della squadra perché dà più sicurezza (come il dentista o il dottore della pubblicità) e poi la femme fatale perché anche l’occhio ha le sue ragioni e alla ragione non si può negare lo share.
Un mondo di crediti sociali dove siamo cittadini modello se buttiamo il vetro nel secchiello verde e i coperchi di latta nel sacchetto della plastica, e mangiamo carne solo due volte la settimana e ridiamo con la mano sulla bocca, e non accavalliamo le gambe a meno di non portare i pantaloni ma, in ogni caso, non mostriamo la suola. Attenti a non turbare, a non offendere, a includere artificialmente in una bolla di menzogne che anche noi gonfiamo con il nostro linguaggio da educande.
Una Milano-mondo più falsa di una moneta da 3 euro, tutta apparenza e sciccheria d’importazione, che ha svenduto la propria anima di ringhiera per quei grattacieli tutti uguali, anonimi, come Bangkok, New York, Kuala Lumpur o il Garibaldi.
Eppure c’è stato un tempo diverso. Sporco, sgradevole, osceno. Quando l’osceno scandalizzava perché esisteva ancora un’etica. Non quella moralità pruriginosa hollywoodiana da all black se sei del #MeToo. Ma un’etica del lavoro onesto, della povertà dignitosamente condivisa, del quartiere che si sgretola nell’afa di luglio tra vecchi abbandonati ai piccioni e bambini, nella sabbia, a costruire castelli in giardini pubblici dove i cani pisciano laddove i pargoli giocano.
C’era il Giambellino. C’erano gli anni Settanta. C’era quell’odore di primavera che invadeva giardini spelacchiati, dopo mesi di sonno profondo sotto coltri di smog e nebbia. E c’era quell’umanità di cui ricordo ogni volto, ogni nome, come quelle immaginette dei morti che la nonna esponeva su comò e comodini ogni 2 Novembre con i ceri accesi a ricordare, commemorare – prima che le zucche celtiche della tv spostassero la festa di due giorni rendendoci tutti così Wasp e così Scream!
C’erano la lattaia e suo marito, che tentava sempre le bambine con le caramelle molli alla liquirizia in barattoli di latta e le Galatine che si scioglievano in bocca in un batter d’occhi lasciandoti il retrogusto dolce del latte condensato a stelle e strisce, che la Plasmon ci aveva abituati a suggere al posto di tette sparite in uffici efficienti e puliti o fabbriche efficienti e sporche. Ma il marito della lattaia non andava mai seguito se ti invitava in cantina. La cantina era la strada verso i ratti delle case popolari ma anche verso un buio che non c’era bisogno che i grandi ci descrivessero. Non ci si andava. Se ti invitava, c’era l’amica a riportarti al centro del cerchio per giocare a nascondino o sul gradino di 1 2 3 stella! Il Mottarello si comprava in due e in due si comprava il latte se la nonna se l’era dimenticato. In due: tu e la tua amica. Insieme – sempre. O almeno fino al prossimo litigio.
E poi c’era la signora M. Al pianterreno con il suo barboncino. Lei in nero dalla testa ai piedi, fin dagli anni Cinquanta. Anche il suo barboncino era nero. Sozzo. Entrambi sozzi. Non si sapeva chi puzzasse di più tra i due. Lei si sedeva per l’intero pomeriggio su quella panchina in quel giardinetto dove l’albero era posizionato sempre quel mezzo metro troppo in là rispetto alla panchina. E lei restava lì, con la schiena ritta, in nero, tutta compita, con il suo cappello per sghimbescio sulla testa, a distribuire briciole di pane – raccolte in un sacchetto – ai piccioni più sozzi di lei e del suo barboncino nero – che d’estate diventava bianco di polvere. L’afa soffocava e lei sudava per ore. Ma imperterrita, restava fino all’ultima briciola. Finché anche il cane non riusciva più a starle al fianco e allora si afflosciava all’ombra, giusto quel mezzo metro più in là. E il nonno passava e sempre le si avvicinava e le stringeva la mano e le chiedeva come stava e lei faceva cenno di sì col capo e non rispondeva, ma la sua bocca masticava una frase che non udivamo e poi proseguivamo e io volevo turarmi il naso ma sapevo che il nonno non avrebbe gradito e così trattenevo il fiato… 5/10/15 secondi.
All’ultimo piano c’era la signora del palazzo. Quelli che stanno all’ultimo piano sono sempre i padroni della ferriera. La signora era pure lei vedova e aveva questi capelli eternamente grigi e in piega: voluttuose ciocche che la lacca aveva imbalsamato come i presidenti sul Monte Rushmore (avevo visto Intrigo Internazionale) e io la guardavo ammirata perché i riccioli della nonna erano sempre scomposti e, col caldo, le si impiastravano sulla fronte e dietro al collo. Ma la signora Z. era a un altro livello. Mia madre mi raccontava che quando era piccola era lei che le dava i soldi per il biglietto del tram per andare a scuola, qualche mattina, quando faceva troppo freddo o era nevicato e il suo cappotto era più intirizzito del bucato steso da sua madre – mia nonna – sul filo della speranza di un raggio di sole. O forse non era buon cuore. La signora Z. aveva questa figlia, ignorante come una capra ma con i polmoni d’acciaio, alla quale lei – mia madre – doveva dare ripetizioni ma lei, i polmoni, se li era giocati anni prima e non li avrebbe recuperati mai più – per quanta cultura e sapienza attingesse dalle tettarelle della scuola statale italiana. E allora la signora Z. le regalava un biglietto ma se la figlia, dai polmoni rosei come il culo di un neonato si avvicinava troppo o stava per bere dallo stesso bicchiere dall’amichetta/insegnante, la ritraeva con un gesto che voleva dire tutto. Violetta muore sempre – per quanto canti a squarciagola.
Qualche anno dopo, all’ultimo piano, venne la camorra. Messo sottochiave Vallanzasca, chiusa la partita della Mala, arrivarono gli S. Proprio dove prima stava la signora con la messa in piega perfetta e i grembiuli scollati a fiorellini. Lei se n’era andata in centro – traduco: si era spostata di un paio di chilometri verso la metropolitana di Inganni e poteva immaginarsi di arrivare alla Madonnina più celermente. E un giorno alla nostra porta bussarono i poliziotti. Era l’ora dell’arrivo dello zio per il pranzo. Sbatte il vetro e pensiamo che sia lui, magari con la solita sigaretta in mano accesa e la fretta di correre dalla nonna, in cucina, a rubarsi un boccone di pane fresco da intingere nel sugo che bolle da ore in un pentolino fino quasi a prosciugarsi. E sembra ieri, e sembra un milione di anni fa (come Ryu, il ragazzo delle caverne: preistoria). E io mi appendo alla maniglia per fare entrare lo zio e invece mi trovo un mitra. Puntato. Dritto sul mio nasino. E mio nonno grida dove sono finita. E loro gridano un nome che io non conosco. E due altri poliziotti col mitra stanno sulle scale e mi guardano. Io sono dall’altra parte. Ma la loro qual è? E la mia qual è? E arriva il nonno e si mette a urlare anche più di loro e mi strappa via dall’ipnotica canna del mitra che ancora mi fissa e gli grida che noi non conosciamo nessuno, che non sappiamo niente, che sono una bambina (non sembra che loro mi considerino tale) e chiude la porta, anche quella di legno, con tutti i chiavistelli e io mi chiedo come farà, lo zio, a entrare con la sua sigaretta accesa per inzuppare il pane nel pentolino del sugo.
E c’era il signor B., sempre al pianterreno, ma in un altro palazzo dello stesso cortile. Lui stava sempre con la canottiera. Bianca. Pulita. Attaccata alla pelle come una pezza. Seduto su una sedia di plastica bianca a leggere Il Corriere della sera. Allora credevo esistesse solo Il Corriere della sera. Anche a casa nostra, il nonno leggeva Il Corriere della sera del giorno prima che lo zio gli regalava. Non ho mai capito perché non leggesse L’Unità dato che era comunista. Credo che non avesse i soldi per comprarselo. E mio zio era qualunquista, quindi Il Corriere della sera era perfetto. Un colpo al cerchio e uno alla botte e il nonno poteva imprecare contro i padroni e contro suo figlio che non capiva una ‘mazza’. E tutto era come sempre: tranquillo. Ma torniamo al signor B. ed evitiamo di fare il Tristram Shandy, che non ho il talento di Sterne. Il suo unico scopo nella vita era stressarci la vita. Appena arrivavamo in cortile a giocare, fossero le due, le tre, le quattro del pomeriggio, non gli andava mai bene. Era sempre troppo presto. Urlavamo troppo. Correvamo troppo. Giocavamo troppo. E poi tutta quella promiscuità…
I P. erano quelli con la puzza sotto il naso. Loro erano friulani. Noi eravamo tutti ‘terroni’. Certo, la nipote, la B., poteva anche giocare con me in cortile, dato che eravamo coetanee e non c’era niente di meglio. Ma la nonna non aveva il loro balcone piastrellato, con quella bella veneziana che faceva ombra in estate e manteneva la frescura in sala da pranzo. Noi ci scioglievamo al sole rovente che si infiltrava tra le fessure delle tapparelle di fronte ai piatti fumanti che la nonna sfornava in qualunque stagione. Loro sembravano sempre usciti da un frigorifero. L’appretto sulle camicie del signor P. gli dava un aspetto di freschezza – come di verzura di stagione appena colta, come una melanzana lucidata col Pronto. Anche quando biciclettava in giro, con la nipote nel cestino tutta impacchettata con fiocchi e bijoux, lui profumava di nord. Di alta montagna. Allora non sapevo che erano arrivati pure loro, dal Friuli, con le pezze al culo, come tutti noi.
E poi c’era O. Era tossico. Non tossicodipendente. Tossico e basta. Era magro come un chiodo e portava sempre la stessa maglietta di cotone bianco a mezze maniche. O almeno a me sembrava sempre la stessa. Non andavano ancora di moda le t-shirt con le facce dei cantanti stampate sopra. Era solo una maglietta da muratore sul corpo di un tossico. Ciondolava. Ogni tanto usciva sul balcone e si fumava una sigaretta guardandoci dietro a occhi liquidi, sotto una massa di riccioli neri appiccicosi. Ci vedeva? Noi lo guardavamo e invidiavamo la sua evasione.
E poi… in quell’anno di grazia c’eravamo tutti. Non eravamo le sfumature di un arcobaleno politically correct. Eravamo brutti sporchi e cattivi? No, eravamo proletari, sapevamo dove stavamo e che era meglio quello che rubava in banca di quello che era arrivato e aveva iniziato a spacciare eroina, striando le nostre fontane di sangue. E loro ci avevano chiuso le fontane. Così noi bambini, se uscivamo dal cortile e andavamo per strada, non sapevamo più dove andare a bere e i soldi per il chinotto o il gasosino mica ci cascavano dalle tasche e così era dura correre un intero pomeriggio sotto il sole…
Ma in quel Giambellino ci stavamo dentro tutti in quell’anno di grazia.
To be continued…
venerdì, 13 maggio 2022
In copertina: Foto di Matteo Bellia da Pixabay.