La stampa tra pressioni politico-economiche e minacce alla vita
di Simona Maria Frigerio
Non brilla il nostro Paese in fatto di libertà di stampa se, nellʼindex di Reporters sans frontières, scivola penibilmente dal 41° al 58° posto su 180 nazioni censite.
A livello di contesto politico, nonostante esista la libertà di stampa formale, RSF fa presente che le azioni legali per diffamazione e la “tentazione di autocensurarsi o di conformarsi alla linea editoriale” impediscono ai nostri giornalisti di essere completamente indipendenti.
Inoltre la pandemia avrebbe reso più “complesso e laborioso, per la stampa nazionale, lʼavere accesso ai dati in possesso dello Stato”. La precarietà del lavoro non migliora la situazione quando si pensi allʼindipendenza di giudizio e informazione, mentre – sempre secondo RFS – la “polarizzazione delle posizioni riguardo alla pandemia da Covid-19 in seno alla società italiana ha avuto effetti negativi anche sui giornalisti, soggetti ad attacchi fisici e verbali durante le proteste contro le misure prese dalle autorità”. Resterebbero, infine, sempre a rischio i giornalisti d’inchiesta, che da anni denunciano le connessioni tra crimine organizzato e politici locali.
Queste alcune delle motivazioni date da RSF per il pessimo risultato ottenuto dalla nostra stampa, ma basta guardare ai risultati dello share per quanto riguarda l’informazione televisiva e delle vendite di quotidiani e periodici per rendersi conto che la situazione è persino più grave. Se La Verità è forse l’unico quotidiano a salvarsi in edicola – grazie a una visione critica sia rispetto alla gestione della pandemia sia dell’attuale posizione anticostituzionale dell’Italia di fronte alla guerra in Donbass – va molto peggio per le testate storiche. Il Corriere della Sera perde il 9% sull’anno, registrando un -54% nell’ultimo decennio (con buona pace di penne quali Massimo Gramellini, resosi ben noto al grande pubblico recentemente con il suo elogio su rete pubblica del generale Vyacheslav Abroskin – quello che voleva dare la sua vita per i bambini di Mariupol, forse ignaro che i suoi commilitoni stavano usando bambini e civili quali scudi umani alla Azovstal). Mentre la posizione filo-contiana de Il Fatto Quotidiano non ha giovato alla testata di Marco Travaglio che – secondo Affaritaliani.it – registrerebbe, in dieci anni, “un crollo del 60%”. L’Unità esce una sola volta all’anno e le motivazioni ve le avevamo già spiegate (L’assordante silenzio intorno a L’Unità – IN THE NET); non aggiungiamo, infine, nulla sulla crisi del Gruppo Gedi – ossia La Repubblica e L’Espresso – per cui vi basti leggere: Il saluto del direttore Marco Damilano ai lettori dell’Espresso – L’Espresso (repubblica.it).
Sulla stessa scia i talk shaw politici che, come scrive, Vigilanzatv.it, martedì 30 marzo registravano, ad esempio, meno del 5% di share sia quando si trattava di #Cartabianca condotto da Bianca Berlinguer (945.000 spettatori su Rai3 in prima serata), sia nel caso di DiMartedì, condotto da Giovanni Floris (1.080.000 spettatori sempre in prime time ma su La7). Le concause possono essere molte, dall’eccessivo bombardamente mediatico dei due anni trascorsi al clima terroristico che contraddistingue ormai la nostra informazione – sempre prona al disastro e alla comunicazione in chiave negativa. Basta vivere qualche giorno lontani dall’Italia per rendersi conto che la pandemia, in molti Paesi europei, come Spagna o Portogallo, ed ex quali il Regno Unito, è ormai considerata malattia esantematica stagionale – e di influenza non si discute in televisione a ogni ora del giorno e della notte. Mentre la guerra in Ucraina, in Spagna, è trattata come uno tra le decine di conflitti che sono in corso nel mondo in questo momento e non come il nuovo spauracchio per una popolazione già stremata dal lockdown e dalle misure restrittive del green pass base e super (che è stata la ciliegina sulla torta delle vessazioni, che la nostra politica ha regalato a una popolazione molto terrorizzata e ben poco informata).
Eppure fare di ogni erba un fascio non ha senso. In un Paese democratico la stampa è organo imprescindibile di quel sistema di pesi e misure che dovrebbe garantire la libertà decisionale del cittadino, il quale non può esercitarla senza consapevolezza. Come il lavoro del magistrato o del legislatore (laddove si viva ancora in uno Stato di diritto e non di perenne emergenza), quello del giornalista può e deve fare la differenza – informando, investigando, denunciando e criticando.
Di giornalisti e giornaliste che rischiano la loro vita per esercitare il proprio mestiere con dignità, convinzione e rispetto della verità, ne esistono.
Proprio in questi giorni l’Ambasciatrice della Palestina in Italia ha denunciato l’uccisione della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, mentre si trovava nel campo profughi di Jenin per un possibile raid israeliano.
“Uccisa a sangue freddo dalle forze di occupazione israeliane, che continuano a massacrare la popolazione palestinese nella totale indifferenza della comunità internazionale”, specifica Abeer Odeh e aggiunge: “Non vi erano scontri né disordini. Vi erano soldati israeliani e giornalisti disarmati – ricordiamo il collega del quotidiano Al-Quds ferito – che indossavano il giubbotto identificativo della stampa e facevano il loro lavoro. Un lavoro che la potenza occupante soffoca ricorrendo anche alla violenza per mettere a tacere chi cerca di fare luce sui suoi crimini: sono più di 100 i giornalisti palestinesi uccisi da Israele durante l’occupazione più lunga del mondo, cominciata nel 1967”.
L’appello dell’Ambasciatrice è che gli italiani come popolo, il Governo e la stampa “si facciano promotori di una iniziativa internazionale capace di far rispondere Israele delle violazioni che ha sin qui commesso impunemente, ponendo termine all’occupazione israeliana della nostra terra”.
L’Ambasciatrice, inoltre, annuncia l’apertura di un libro di condoglianze da lunedì 16 a mercoledì 18 maggio, dalle ore 13.00 alle ore 16.00, nella sede di viale Guido Baccelli, 10 a Roma.
Purtroppo, nel mondo della realpolitik, esistono due pesi e due misure. Laddove per Anna Politkovskaja si sono spesi profluvi di parole, si sono scritti libri e testi teatrali, le si sono dedicate vie e targhe e intitolati premi, non crediamo si farà altrettanto per Shireen Abu Akleh o gli altri cento colleghi palestinesi. Perché? Perché Israele è un alleato di ferro degli Stati Uniti nellʼarea mentre i palestinesi, come i tibetani o gli abitanti del Donbass (prima dello scoppio della guerra civile) sono popoli sacrificabili sull’altare di un ordine mondiale – economico e geopolitico – diretto da uno Stato, come gli Usa, da anni sull’orlo del default – con un tetto del debito federale che l’8 febbraio 2022 era arrivato alla cifra record di 28.500 miliardi di dollari e con un Presidente, Joe Biden, che evitava lo shutdown firmando una legge di stanziamento di fondi aggiuntivi (un problema da nulla, in ogni caso, se poi si decide di racimolare qualche altro miliardo per rinfocolare una guerra civile su suolo europeo).
Lo Stato di Palestina e i suoi giornalisti in questo scacchiere non contano – come ha dimostrato il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese, esploso nel maggio 2021. Nessuno in questi anni ha mai pensato di usare epiteti di varia natura per etichettare i Premier israeliani succedutisi, nessuno pretende che rispondano dei crimini eventualmente commessi contro il popolo palestinese di fronte a un tribunale internazionale o alla storia, e siamo purtroppo certi che nessuno vergherà pagine di dolore per una donna e una giornalista, Shireen Abu Akleh, che faceva il proprio mestiere – che è informare e denunciare, non compiacere e propagandare – con impegno e rispetto della verità dei fatti.
venerdì, 13 maggio 2022
In copertina: Foto di Janeb13 da Pixabay.