Intervista a un ‘artefice di cambiamenti’
di La Redazione di InTheNet
Avevamo conosciuto Carlo Infante a Orizzonti Verticali Festival, qualche anno fa, a San Gimignano. Lo ritroviamo in queste settimane con i suoi nuovi walkabout, in spazi poco frequentati eppure pregni di memorie e potenzialità, in quel di Roma. E così veniamo anche a sapere che a Narni (Scenari dell’immateriale era la manifestazione da lui ideata negli anni 80), Infante invitò Giacomo Verde a sperimentare le sue prime video-installazioni e da lì iniziò quel viaggio nell’immaginifico e nello storytelling tecnologico che sarebbe diventato il teleracconto. Partiamo, quindi, dall’oggi e dalle molteplici strade che può percorrere la creatività per tornare indietro, a quei giorni, in un certo senso pionieristici di una video-arte ‘povera’ ma anche di un modo diverso di confrontarsi con i media e i linguaggi dell’espressione artistica e teatrale.
Come si potrebbe definire la dimensione e l’azione creativa di Carlo Infante?
Carlo Infante: «La definizione che adotterei, anche se non mi entusiasma come tutte le formulette anglosassoni, è quella del changemaker (1). Ricordo che quando iniziai, negli anni 70, nel dispositivo culturale c’era qualcosa che interveniva nelle coscienze e connotava già allora il mio fare. Oggi, con Urban Experience, faccio qualcosa di molto simile. Tra allora e adesso c’è tutto un percorso nel quale mi inserisco come uno scout – quella figura che cacciava i bisonti ma era amico dei nativi americani. Mi sento così: un esploratore, più che un intellettuale, anche perché non mi piace studiare e preferisco leggere, o imparare immergendomi nella natura».
Narrare ed errare: il walkabout (talkabout+walk) nasce dal filosofare camminando?
C. I.: «Camminare filosofando è ancestrale. C’è qualcosa nello stare in posizione eretta, ossia nel passare (come fece quel primo ominide) dalle quattro zampe alle due, che ha cambiato il corso della storia. La prima cosa che è successa è che ha visto più lontano, e tutto ciò ha una valenza anche metaforica – ha qualcosa a che fare con il pre-vedere: quell’ominide ha visto per qualche decina di metri più in là degli altri. La previsione comporta cambiamenti di strategia, capacità di elaborazione. Stare eretti, poi, ha ricadute sulla respirazione, sul ritmo. E nei walkabout si aggiunge il conversare secondo un modello radiofonico. Va anche notato che parlare di fronte agli altri equivale a rappresentarci: impostiamo la voce, carichiamo a pallettoni gli argomenti… Ma nel contempo, dovendo camminare, non si può guardare sempre l’altro, occorre anche fare attenzione a ciò che ci circonda. Si crea un rapporto che definirei relativista: ci si relaziona con gli altri e ci si mette in gioco».
A Roma, le persone non si incontrano solamente per il piacere di riscoprire luoghi o conversare su un argomento, ma interviene anche l’elemento tecnologico per creare un effetto di realtà aumentata. Può spiegarcelo?
C. I.: «Prima di arrivare a questa condizione tecnologicamente evoluta partirei dall’elemento radiofonico. Le telecomunicazioni, come la posizione eretta, sono straordinarie perché espandono il nostro corpo. Il libro lo ha fatto, ma in modo metaforico, in quanto la conoscenza veniva trasmessa da un oggetto. La radio ha aggiunto una componente incredibile: la voce, che poteva arrivare a centinaia di chilometri di distanza. Nei walkabout abbiamo la prossimità tra i partecipanti – che amo definire sciame intelligente – che camminano conversando, mentre ascoltano in cuffia, oltre a ciò che dicono gli latri, dei podcast, che scelgo di trasmettere, con frammenti di paesaggi sonori. L’insieme è anche una trasmissione radiofonica con una regia in presenza, dato che trasmettiamo in streaming per farci ascoltare da chi non è con noi. La realtà aumentata inizia con i Geopodcast. Sul nostro blog (https://www.urbanexperience.it/walkabout/) abbiamo creato una piattaforma (https://www.geoblog.it/tag/softscience-2022/) dove si vede una mappa e, cliccando sulla stessa, si sentono le registrazioni dei walkabout (2). Abbiamo inoltre realizzato una piattaforma, la walkipedia (https://walkipedia.it), ossia un wikipedia dei nostri walkabout, grazie alla quale si può fare un lavoro sulle parole-chiave inserendole nei territori pertinenti».
Lei parla di azioni di ‘resilienza urbana’. La parola resilienza è entrata nell’accezione comune grazie ai fondi del PNRR – che, però, finiscono per essere usati per costruire basi militari, come a Coltano. Lei cosa intende?
C. I.: «Ho incontrato la parola resilienza nel 2009 e vi assicuro che, allora, quando la pronunciavo quasi mai incontravo sguardi che riuscivano a decodificarla. Ma da dove nasce etimologicamente questo termine? Il mondo degli psicologi l’ha fatto proprio, ma nasce dalla scienza dei materiali: è la capacità dell’acciaio di assorbire l’urto e riposizionarsi. Ovviamente è di derivazione latina, da resiliens, che significa re-salire, come risalire sulla barca quando si è rovesciata – il che comporta un colpo di reni, la capacità di misurarsi con il rischio trattenendo una certa leggerezza. Nella resilienza è presente un elemento di coraggio che mi affascina. Attualmente, al contrario, è concepita solamente in senso adattivo. Certamente ci sta questa lettura, ma andrebbe affiancata con la risposta propria della vita, la capacità di reinventarsi, di riconfigurare lo sguardo sulle cose anche perché sono convinto che la percezione venga prima della realtà. Aiutare la gente a riconfigurare il proprio sguardo credo sia il compito di noi tutti e non solamente degli artisti in special modo in un momento come questo, in cui la civiltà è ormai in panne».
Veniamo a Giacomo Verde, artista che sicuramente aveva uno sguardo altro rispetto al reale. Dal Beaubourg parigino al Festival di Narni: può raccontare la prima esperienza artistica e umana che vi ha fatti incontrare?
C. I.: «Giacomo era figlio del Movimento del Settantasette, anche se non era stato proprio un militante. Però, nella sua genialità creativa, c’era totalmente quello che lui definiva e incarnava come concetto, ossia un artivismo straordinario. Noi ci siamo conosciuti un po’ dopo, negli anni 80. Ricordo una bella conversazione a Bologna, da cui nacque il progetto del suo intervento a Narni. Fu in quell’occasione che gli parlai di ciò che stava accadendo al Beaubourg, dove si teneva un’esposizione intitolata Vidéo-brut (3), che lo interessò molto perché anche lui, in quel momento, si stava interrogando su come costruire i propri interventi installativi e credo che i primi siano nati proprio a Narni. Da quelle intuizioni sono poi germinati i teleracconti, una delle molteplici esperienze creative di Giacomo, che iniziò in quegli anni e portò al Festival. In seguito, ovviamente, li sviluppò con Giallo Mare Minimal Teatro».
Ha definito Verde una delle matrici dei performing media. Può spiegare a chi non è avvezzo alla terminologia?
C. I.: «Il termine significa mettere in relazione il corpo con i media. Ovviamente non lo concepisco come una definizione di genere perché può esprimersi in forme artistiche o creative molto diverse. Giacomo Verde è, secondo me, nella mia consapevolezza, una tra le figure di origine di questo concetto perché ha incarnato letteralmente la questione. Lui aveva un corpo a corpo con il video. Ha fatto delle installazioni e degli happening fenomenali. Basti ricordare il suo intervento al Festival di Melbourne (4). Le sue azioni artistiche – con i video – si possono tranquillamente paragonare a quelle di un Jackson Pollock».
Ha invitato Verde a fare una lezione a La Sapienza di Roma, cosa ricorda di quell’evento (5)?
C. I.: «Era un po’ di tempo che non ci si vedeva ma sapevo della sua malattia… e quello che ricordo, la percezione che allora ebbi, era la sua fragilità. Ma la fragilità di un uomo e un artista, come Giacomo, che era davvero duro: un intransigente. Anche con me, a volte, c’erano dei conflitti perché curavo dei contesti istituzionali e lui, con la sua anima eterodossa, che rifiutava tutte le ‘cornici’, non poteva e non voleva accettarli e, spesso, ci scontravamo. Tra noi c’era un rapporto sfidante che, secondo me, è un qualcosa di assolutamente positivo. Ma tornando alla Sapienza e anche a un altro incontro di qualche anno dopo, il ricordo va a questa sua fragilità che gli permetteva di creare una dolcezza intorno a una condizione che stava vivendo, rimanendo nel contempo molto tranchant, sempre molto preciso nel suo discrimine. E questa sua coerenza era anche la sua grandezza: sfidava le situazioni».
Ha scritto una frase che troviamo particolarmente azzeccata per definire Verde: “Giacomo era come un ‘trovatore’, un poeta viandante, un aedo, un menestrello digitale-esploratore che ha aperto delle strade”. Chi sono, oggi, i suoi epigoni?
C. I.: «Purtroppo non riesco ancora a individuare figure di tal guisa. Esisteranno, ma io non le ho ancora intercettate. Giovani performer e autori che sappiano giocare, come lui, con i media – con la stessa radicalità e leggerezza… Vedo operazioni ampollose e giochi barocchi intorno alle tecnologie. Il performing media ha bisogno di leggerezza e di uno sguardo eterodosso che sposti l’asse, che ti inviti a squilibrarti e a reinventare il tuo sguardo sulle cose. Giacomo era un trovatore, un cavaliere errante. Non identificherei, però, il trovatore, il menestrello con il giullare, anche se lui all’inizio della carriera ha vestito i panni del cantastorie, ma penserei a un monaco guerriero – a una figura emblematica e di rottura».
(1) Un changemaker, ossia un artefice di cambiamenti, è qualcuno che fa un’azione creativa per risolvere un problema sociale.
(2) Per capire meglio cosa sia un walkabout:
https://www.urbanexperience.it/i-primi-goal-di-softscience/
https://www.urbanexperience.it/larcadia-della-cava-fabretti-la-distopia-di-corviale-verso-la-sua-rigenerazione-e-la-smart-community-del-pigneto/
(3) Vidéo-brut, esposizione tenutasi a Parigi, dal 22 maggio al 28 luglio 1985, presso il Centre Georges Pompidou (https://www.centrepompidou.fr/en/program/calendar/event/cz6qaR).
(4) «Rivel’azione (1989) è un’azione che porta alla creazione di una installazione video, realizzata per la prima volta in Australia, al Lygon Arts Festival di Melbourne, replicata una sola volta al Festival di Arti Elettroniche di Camerino nel 1990, ripresa dall’artista nel 2010 presso la Fondazione Ragghianti di Lucca al Look At Festival», tratto da Giacomo Verde. Attraversamenti tra teatro e video (1992-1986) di Anna Monteverdi, Flavia Dalila D’Amico, Vincenzo Sansone. Milano University Press, 2022.
(5) Per la lezione di Giacomo Verde alla Sapienza di Roma: https://www.urbanexperience.it/verde/
venerdì, 13 maggio 2022
In copertina: Piccoli tesori da scoprire nell’archivio Giacomo Verde. Gli universi di senso che l’Artista creava con i teleracconti, grazie a piccoli oggetti e a riprese macro.
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