I racconti di Eburnea
(tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione totale o parziale del racconto)
Si chiamava Lucrezio Dammi. I nomi sanno essere così crudeli, talvolta.
– Lucrezio, Dammi un etto di pomodori.
– Lucrezio, Dammi due mele delle tue.
– Dammi, dimmi una cosa…
La gente anziana rideva così e Lucrezio non poteva correggere la stortura. Dapprima sorrideva indulgente, ma poi aveva smesso. Socchiudeva le palpebre e ingoiava.
Il mercante di tessuti si sporse dalla porta della bottega. La sua professione pareva imporgli l’eleganza, dunque lo trovavi sempre così, grigio e slanciato nel completo nero, maggiordomo di Lady Mussola e di Lord Velluto di Manchester. Guardarlo passare era un piacere a qualunque ora. Si salutarono in silenzio, come ogni mattina, senza parlare. Dacché era sabato, aveva allestito la bancarella più presto del consueto. Di sabato non lavorano e c’è chi arriva prima. L’Angelo del Signore aveva un margine di tempo ulteriore per irrompere nel piazzale della chiesa e salvarlo. Cambiava sempre aspetto, ma Lucrezio lo riconosceva ogni volta.
– Ciao.
Guardiamolo un istante, prima che quel «ciao» lo rimetta in moto e sciupi la chiarezza d’insieme. Lucrezio Dammi sedeva sul bianco sgabello di plastica. Sedeva come un gargoyle, coi piedi uniti ripiegati sul ferro trasversale. Leggeva Machiavelli. Le spalle e il capo gli erano scesi sulla carta, come se si abbeverasse. C’era qualcosa nel suo corpo che in lettura espirava, si restringeva. Poteva perdere la metà della sua statura, assurgere alla fragilità strutturale di una ragazza. Ma adesso c’era quello e le ginocchia di Lucrezio si tesero un poco.
– Buongiorno signore.
Chiuse il libro come quando si percorre la sabbia rovente. E con la stessa celerità imprecisa si alzò in piedi e recuperò stazza.
Gli doveva chiedere…
– Cosa le servo signore?
Aveva quindici anni, il signore. Il sottile, ripugnante baffetto che affiora a quell’età di avversione. Comprò otto arance tarocche e Lucrezio lo servì senza attardarsi a tastare, senza verificare. Spesso gli cadevano le cose, spesso le urtava. Faceva tutto assai silenziosamente, perché il suo tocco era sempre appena accennato.
Il ragazzino prese il sacchetto. L’orologio di marca occhieggiava tra il palmo e il ripiego della manica. Per quanto poteva evitava di guardarlo in faccia, e non era l’unico.
Silenzio.
Più silenzio.
Lucrezio si asciugava il palmi sul grembiule.
– Signore, può portarmi il libro quando…
– Sì, ce l’ho.
Rovesciò in avanti lo zaino e tirò fuori il manuale di latino del primo anno. L’aveva sottolineato, l’aveva scarabocchiato senza misericordia. Facce urlanti, perlopiù.
– Mi dai dieci euro.
– Sì, subito signore. Grazie, signore.
All’incontro tra la sua mano e il denaro, il ragazzo perse la presa sulla vista e lo guardò. E subito il mondo si riempì di quegli infartuanti occhi celesti, che tanto erano strani su una faccia così anonima. Occhi eternamente afflitti dall’acqua, anelanti a farsi spazio tra le macchie del berrettaccio da lavoro e la sciarpa di cachemire con cui il fruttivendolo usava coprirsi naso e bocca.
– Ciao.
– Ciao.
Suo padre era avvocato. E dunque anche lui, poiché soldi e poltrone sono cose che si passano ai figli. Lucrezio Dammi lo guardò percorrere il lastricato e la mascella gli doleva nella giuntura. Poi sfogliò il testo, il suo malaffare e allora cessò pure il dolore.
– Buongiorno!
– Ciao Teresa. Cosa ti servo in questa ridente giornata?
*°*°*
La notte nel pineto ardente, giù per l’asfalto, là dove stanno i drogati. Il salone in fondo alla via, tra i pini e il vialone termale. C’era da mandare i polmoni in epilessia, con tutto quel viluppo di sale e balsamo e resina. C’era una teoria di luci intermittenti ad accompagnarti all’ingresso, tutto fitto di completi neri e grigi e cravatte e gambe di donna svelte di risate.
Giacca. Silvio, proprio Silvio gliel’aveva prestata. Dammi tese le braccia e ne guardò il tessuto. Sentiva il tessuto. I tessuti costosi, capì, si sentono.
– Sono un commerciante – mormorò. Sono Lucrezio Dammi, commerciante.
*°*°*
Ma quella era la parte che preferiva, «perché in questa notte non ci dormirà persona.»
Aveva fermato La Mandragola con lo scontrino, affinché il vento non gli girasse pagina. Gli piaceva pensare che in quel momento, nel mentre che toglieva i ciuffi alle carote Daucus, Callimaco l’ingannatore fosse ancora nel letto di Lucrezia, impossibilitato a muoversi finché lui non avesse ripreso la lettura.
Godeva di quel potere, della sospensione.
– E poi fa finta di vedersi con un altro, così lui è geloso, no? I ciuffi buttali.
– Deve stare attenta a quello che dice. Il mito di Cefalo e Procri, ad esempio…
Aveva letto Le Metamorfosi di Ovidio già tre volte.
– Ah, Lucri Lucri, tu sì che sei intelligente.
Ma aveva appena cominciato. Così dovette finirle di raccontare, che Cefalo faceva all’aurora discorsi strani, che gli piaceva distendersi al fresco dopo la caccia notturna. E allora diceva tante sciocchezze e la gente pensava che ci fosse un’altra donna. E Procri allora, povera mogliettina, era andata a controllare ma Cefalo, Cefalo e il giavellotto da caccia, e poi il fruscio nei cespugli, è un animale, è senz’altro…
– Una bestia. Lucrezio, dammene una più matura.
– Con le donne bisogna essere gentili.
Il fruttivendolo si accomodò la sciarpa costosa, non prima d’essersi pulito le mani al grembiule. Gli uscivano le parole dalle trame del tessuto, ed erano le parole della Sfinge. Perché la sua bocca era sempre stata a tutti un mistero.
– Chi, quella vacca? A sapere che l’ho sposata a fare.
– Cola, Catullo ha scritto: “odi et amo. Quare id faciam…”.
– Di sabato poi, cazzo di sabato…
– “Fortasse requiris. Nescio…”.
– C’ha da sbraità, c’ha da pulì…
– “Sed fieri sentio, et excrucior”.
Il tipo si toccò la fronte alta, prolungata dalla calvizie. L’errore di Frankenstein. Guardava Lucrezio con espressione vaporosa, in attesa. Gli occhi di lui parvero espandersi.
– Vuol dire: “Odio e amo. Perché faccia così, forse t’interessa, non lo so. Ma è così, e sono in croce”. Capisci, Cola?
– No. Quanto spendo?
Lucrezio aveva una rivista porno a casa, sotto il letto, per quando doveva sfogarsi. Ma così poco l’adoperava che i sacchi del fertilizzante l’avevano fatta morire schiacciata, come la Tarpea vestale di Roma.
*°*°*
Silvio sorrideva bello, Silvio e l’anello d’oro bianco, la chioma brizzolata come la sua, come tutta la famiglia, tutti loro che invecchiavano così presto e così male. Ma c’è chi invecchia nell’attico, chi nella cantina.
– Ma eccoti qua!
– Eh. Ciao.
– Gemma. Questo è Lucrezio, mio cugino. Fa il…
– … commerciante. Faccio il commerciante.
Silvio mandò un soffio dalla narice destra e quella gli salì appena, con imprevista signorilità. Cullò lo spumante nel cavo del bicchiere e domandò se lui ne volesse.
Perché no, disse Dammi, ma sarebbe andato da sé. E allora suo cugino gli piazzò una mano, quella dell’anello, sulla spalla. Oro bianco perché ancora si doveva sposare e nessuno doveva confondersi, nemmeno da lontano.
Lucrezio sentiva dolore ai denti.
– Vado io, insisto.
– Silvio…
– Ah, ma guarda che splendore, senti che profumi…
– Bellissimo. Silvio, grazie.
Quello sorrise, il dito sulle labbra. Vestiva di bianco e denaro, ancheggiando un poco sull’acciottolato. Lucrezio seppe che quella sera l’avrebbe distinto ovunque. La sua presenza bruciava nell’occhio, bruciava la notte come fiamma ossidrica.
– Commerciante, mh?
La signorina Gemma portava un rossetto prugna. La signorina Gemma aveva labbra appassite.
– Sì, mezzo commerciante. Ma perlopiù, ecco, leggo.
*°*°*
Poteva esser sabato, o anche lunedì. Poco cambiava.
L’arrivo di Scarpette d’oro era tutto ciò che poteva chiedere. Di tutti i potenziali Angeli del Signore, era quello più evidente.
– Raccontami qualcosa.
– Sa, stasera sono a una festa. Mio cugino, sa, fa il profumiere.
– Che bello.
– Bello, sì. Lui è un naso, si chiamano nasi, sa, quelli che fanno i profumi.
Scarpette d’oro aveva annuito prolungatamente, con una certa enfasi. Non era persona da ripetizioni. Lucrezio si andava attorcigliando le mani nell’orlo del grembiule. In sua presenza cedeva spesso alla cifosi toracica, al prolasso del mento. La tela gli era ruvida alle mani, grattava. Diventava delicato.
– Ecco, e ha fatto, creato un profumo nuovo. E ha organizzato un aperitivo, siccome poi si vuole anche sposare, sa, ha la ragazza. E così la presenta.
– Ho capito.
Scarpette d’oro aveva sempre qualcosa a sporgerle dalla borsa. Riviste d’architettura, o anche corsi di lingue. Aveva lineamenti stanchi, sebbene fosse giovane. Lucrezio non la poteva inquadrare, non poteva perché era un Angelo del Signore. E gli Angeli del Signore sono per natura ambigui.
– Avrei dovuto continuare a studiare.
Disse Lucrezio senza preavviso. Poi tirò giù la falda del cappellaccio e disse che le avrebbe regalato delle mele, tre mele, tre mele del suo albero, “tre mele rosse di Biancaneve”, che il mercato chiamava Stark, ma non lui. Per lui erano soltanto mele di Biancaneve. Mele di Scarpette d’oro.
*°*°*
Alle volte errava sul fiume, le mani dietro la schiena.
Quando passavano i ragazzini urlanti, ecco che le contraeva. E ricordava.
*°*°*
– Sei un ragazzo gentile. Sei un ragazzo carino, e non è mai troppo tardi.
– Per me lo è, signorina…
Scarpette d’oro abbassò le palpebre con quel suo fare pudico. Sotto i suoi gesti da fata, i fuseaux di pelle e la catena attorno alla coscia. Sui mocassini correva una complessa teoria di scarabei dorati.
– Ne ho visti tanti come te. Credo che sia uno spreco.
– Eppure è così giovane…
– Non è questione di età, sai. Conta il saper vedere.
Lei era così cara. Talvolta portava in spalla la custodia di un violino, perché gli Angeli del Signore suonano sempre qualcosa. Perché gli Angeli del Signore sono colti.
– Tu sei un angelo, Lucrezio.
– Sono solo un semplice ragazzo timido, signorina.
– Ne servirebbero altri.Lo sguardo gli scappò disperato. Gli scappò sul libro. Mandragola.
– Maggiorana. Signorina, le regalo della maggiorana. Viene dal mio orto, sa?
– Mi hai già dato le mele…
– Le do anche la maggiorana.
*°*°*
Alle spalle della piazza c’era la stradicciola. Le cose costavano meno, e anche il bar. Chiudendo la bancarella per andarci, gli capitava d’intercettare il mercante di tessuti, in pausa per godersi il tabacco. Gli occhi s’incrociavano affini, entrambi molto chiari, un poco sbattuti, stoici. Quegli occhi sapevano la noia di uno spettacolo che li aveva delusi.
Lucrezio ascoltò il canto del cucchiaino, nel mentre che lo batteva. Se lo portò alle labbra-mistero, si abbassò la sciarpa alla gola. Vetri, cicaleccio. Lappò la schiuma dal metallo.
– Sarebbe il caso che finisse prima della sessione aggiuntiva.
– Ma…?
– Ma i tesisti sono scostanti, è un dato di fatto.La striscia nera del caffè. Lucrezio la seguì col pensiero, giù per la sua carotide, la giugulare, la trachea raggrumata d’amaro e poi i polmoni, Gesù, il calore ai polmoni. Si tenne buono il petto poggiandovi la mano. Cifosi.
I docenti passavano ogni giorno tranne il sabato. Tranne il sabato. Dando loro le spalle, l’uomo dagli occhi infartuanti disse a se stesso che non c’erano, non c’era nessuno tranne lui e la quarta declinazione latina. Doveva pensare a quella e alla scia del caffè.
– Questa arriva con cento, si può immaginare, non è propensa a darsi da fare.
– Fructus. Fructus. Fructus. Fructuum…
– Concordo che la traduzione richiede un discreto dispendio…
– Fructui. Fructibus. Fructus…
– Guardi, i curricula sono agevolati, non ha scusanti. Tra borse di studio, sussidi di facoltà, l’appoggio dei tutor accademici e il counselor, sono tutti inadeguati allo studio. Scusi, legge il giornale? Le spiacerebbe…
Lucrezio artigliò il Corriere. Sguainò il braccio granitico e lo tenne così, a cavallo dell’aria, senza guardare in faccia, senza girarsi. Sentì borbottare un “grazie”. “Fottiti”, sussurrò. Ma quello, Deo gratias, non lo sentì.
Ci andava tutti i giorni, al bar. Per distendersi i nervi.
*°*°*
Il profumo, lo scoprì così, si chiamava “Deianira”.
– Sì, Silvio dice che ha una nota di cuore muschiata, da uomo, un tocco di cuoio che sulla pelle femminile è molto molto azzardato. Dice che è per donne coraggiose, dice.
Avrebbe voluto spiegarle il senso del nome, che il cuoio è il vello del centauro Nesso, pertanto il profumo si chiamava così, come la fanciulla che aveva tentato di sottrarre al marito. Ma probabilmente lei lo sapeva già. Non era come Cola, che l’avrebbe osservato con confuso furore. E neppure come Teresa, la cui bocca addentava l’aria.
Sì, Teresa gli dava soddisfazioni. Ma non la voleva, una come lei. Avrebbe voluto Scarpette d’oro, la stirpe degli Angeli del Signore. Perché gli Angeli del Signore son celesti, ma senza farne vanto. Son celesti e cantano, ma li percepisci appena.
Quanto l’avrebbe voluta, Scarpette d’oro.
La signorina Gemma sedeva nel buio, lo sguardo nella vasca della fontana. Aveva tutto velato, gli occhi e la pelle e la linea delle sopracciglia, come se la mano del mondo le avesse stinto i lineamenti. La bocca soltanto a tratti si torceva, subito ricomposta, nel lutto del rossetto. Parlava monocorde, come una risacca cheta. L’atto del bere le agitava un faro nel pozzo degli occhi, ma era solo un momento.
Lucrezio le sedette accanto. “Non mi sto divertendo”, disse toccandole un braccio. La signorina Gemma trasalì e lui la sentì garrire:
– Ah, no?!
– No.
“Deianira”. Soltanto i ricchi danno i nomi ai profumi.
*°*°*
Ma poi lui aveva detto di averla vista, e allora Lucrezio aveva alzato il coltello dalla zucca di Chioggia. La disperazione gli aveva pervaso gli occhi e in quel celeste gli era sparita la faccia.
– Dove?
– Alla mostra dei quadri. Non so se era lei, però dici sempre che ha le scarpe buffe e quelle c’avevano delle blatte gialle disegnate.
– Scarabei. Mocassini con gli scarabei, Cola.
Amava particolarmente quel modello. Cola cacciò su le spalle perché di Lucrezio e delle sue correzioni non sapeva che farsene.
– Era con uno. Parlavano. Ridevano. Parlò anche il Dammi, parlò ma non rise.
– Credo fosse un suo amico.
– Sì, certo.
– Ha molti amici.
– Sono tutte bestie. Quanto spendo?
– Era un suo amico.
Non poteva essere altrimenti.
*°*°*
Alle volte lo trovava là, sulla sponda del fiume. Portava la canottiera e leggeva coi piedi nell’acqua. “Il barbaro colto”, così lo chiamava il suo cervello. Aveva quella maniera commovente di contrarre le sopracciglia ogni qual volta incontrasse un passo particolarmente ostico. Allora si mordeva un labbro e la sciarpetta di cachemire glielo scopriva. E nascosta dietro la betulla, l’insegnante di storia si accarezzava il seno.
*°*°*
– Non pensa che Silvio sia a volte un po’…
Si era portata una mano alla bocca. Ritmava sul labbro inferiore, in attesa che si aprisse. Ma Lucrezio disse: “stronzo?” e allora sorrise, la signorina Gemma.
– Avrei usato un termine più specifico, sa. Direi che è troppo sicuro di sé e tende a sovrastare, a voler dire come, cosa fare, o…
– È uno stronzo.
La signorina Gemma tacque. Si portò una mano ai capelli scuri, si portò una mano e saggiò l’intensità di quell’insulto. Non era più abituata a dire parolacce. La sua professione l’aveva resa incompatibile a certe declinazioni linguistiche. Ma Lucrezio era un commerciante, dunque poteva. E aveva bevuto, dunque poteva a maggior ragione. Sentì distendersi il petto.
– Lo pensa veramente?
– Ascolti, a scuola picchiavo i ragazzini. Li picchiavo fortissimo, capisce? E siccome li picchiavo imiei decisero che non potevo fare il Liceo. I ragazzi bulli non studiano, dicevano. Ma Silvio, sa, anche lui picchiava. Lui però le ha continuate, le scuole. Ha fatto le superiori e poi la Scuola di Profumo. Ed è ancora così stronzo!
Lucrezio abbassò il flute tra le ginocchia. Aveva il cervello appeso a un grappolo di fili e sorrideva. La signorina Gemma lo guardava con labbra aride.
– Mi dica quel che pensa.
– Non ho più voglia di pensare.
*°*°*
La casa era tutta pagata e pertanto non poteva lasciarla. Fioriva di muffe a destra e sinistra, come se arrossisse. Puzzava di padre e di madre ed era la sua condanna. Lui abitava in camera e il resto spettava ancora ai morti, ai loro bastoni. I cattivi ragazzi non possono uscire di camera.
Non aveva cambiato niente, non aveva preso potere. Il letto era vecchio e cigolava a poggiarvi le terga. Non poteva conoscere il sesso, o Dio solo sa quanto quel letto avrebbe urlato, e tutti i nessuno avrebbero saputo. Esalava canfora e diserbante. Chissà se il mercante di tessuti dormiva in una stanza simile. Lucrezio pensava spesso che se la dormisse vestito, splendido nel suo nero completo. O che non dormisse affatto, o che lo facesse in piedi, come i cavalli. Può darsi che avesse capito, come lui, che pena fosse il sonno, che incalcolabile spreco. Che la montagna li sovrastava e sapessero entrambi che bisognava farsi trovare pronti. E pronto lo era sempre, ché Lucrezio non l’aveva mai visto senza il vestito nero, neppure la domenica, vedendolo passare in bicicletta per la cittadella, svolazzante come una girandola. Perché l’Angelo del Signore poteva arrivare in qualunque momento. Doveva esserci perdono anche per loro, in definitiva.
*°*°*
– Non credo che a loro importasse. Mi levavano i libri dalle mani. Già da ragazzino mi toccava andare al fiume, se volevo leggere. Sarebbe stato, sa, la fine dell’attività di famiglia. Per questo non gli importava e quando… (singhiozzando) quando l’hanno saputo, che l’ho picchiato, l’hanno subito detto, che i bambini violenti non sono fatti per studiare. E il padre di quello era pure ingegnere e sa, le scuole, le scuole hanno i muri di tela, tutti sanno tutto, tutti vedono e dicono. Il verduraio, il verduraio, se lo immagina il figlio del verduraio al Liceo? Se lo immagina, eh?
– Senta…
– Io non lo so perché l’ho fatto. Volevo che mi vedessero, volevo…
– Mi sente?
– Io la conosco. Me lo immagino, che ha fatto le scuole per signorine, probabilmente quelleclassiche. Lei si può presentare, ma io? Io non posso dire: “Sono Lucrezio, vendo la frutta”. Non era il Fato, non era il mio Fato. Io lo so, che non lo era perché se lo fosse stato, bello o brutto, mi sarebbe andato bene. E invece ci scalpito, sono anni che ci scalpito.
– Lei ha bevuto e (reggendosi la gola, gracchiando) più tardi sarà pentito.
– Non la rivedrò più, Gemma, neppure se alla fine sposasse mio cugino.
– Ma io ti rivedrò.
Un punto bianco lontano, Silvio. Se la rideva col braccio alzato. I fuochi, le pernacchie celesti. Ecco le facce degli ospiti azzurre, e viola, e giallo spumante. E tutto andava avanti e loro no.
– Io ti vedo.
Aveva una bella pelle, la signorina Gemma. E sorrideva.
*°*°*
C’è un fiume e il fiume si chiama Eveno.
Abito là. Traghetto le persone. Traghetto lei.
Mi è bastato vederla di lontano, tutta avvolta di vento e la stoffa che le ansimava addosso. Oggi tira la brezza e la corrente è impervia.
Ne ho visti a bizzeffe, di uomini come suo marito. è passato oltre il fiume senza degnarmi. Come se avesse importanza, povero stupido individuo. Si crede salvo nell’anima perché è forte e violento. Sua moglie invece odora di ginestra, rosmarino.
– Ti porto in groppa, sali.
Punge come il rosmarino. Ma sono io, mi sento… delicato.
Signor Fiume, fatti crudele. Signor Fiume, rallentami il passo. Io non ho requie per queste sue gambe. Io non ho requie, non la voglio lasciare.
– Quello è il tuo sposo?
– Sì. Eracle.
– E tu sei…?
– Deianira.
Dev’essere stato il nome. Mi fa male il cuore. Parlo sul serio, mi duole da morire. Ho una parte umana, sebbene dimezzata. E pertanto, come per i ciechi, si dispera più acutamente. L’Eveno mi sbriciola la sabbia, me la toglie dal passo. Mi sento portar via, venire, svenire. Abbasso la mano, l’addome, il pelo. La metà equina, la dannazione.
«Bestia, perché ti sei fermato?»
Sapete, i centauri non si possono masturbare. La mano non arriva, è così. Gli uomini possono. Ma le bestie siamo noi.
– Perdonami.
E corro, e galoppo seguendo il fiume. Deianira strilla e scalcia e batte i pugni. Anche a Europa è toccato, ma il toro che l’ha rapita era Zeus, dunque era giusto, no? C’è chi nasce Zeus e chi nasce centauro. Gli dèi possono farsi bestie, ma le bestie non faranno mai che loro stesse. Guai altrimenti, guai.
Ammazzami, Eracle. Ammazzami, se hai coraggio. Colpisci forte, come…
– Un melone. Lucrezio Dammi, Dammi un melone. Alzò gli occhi da Ovidio. Deglutiva a vuoto.
– La dovete finire con queste battute.
Glielo doveva dire.
*°*°*
“Glielo dirò domani”.
Avrebbe cominciato parlandole della festa. Le avrebbe descritto il profumo, che le sarebbe piaciuto. Che c’erano donne belle e strazianti come certe stelle fioche. Avrebbe parlato come la resina, penetrandole l’animo sensibile con la sua esattezza. E Scarpette d’oro avrebbe rizzato la faccia, di colpo estatica.
– Ti vedo!
Sì, avrebbe detto così, “ti vedo”.
– Salve.
Tremò. Era il mercante di tessuti. Visto da vicino era ancora più elegante, perché più tattile. E certi tessuti, Lucrezio l’avrebbe saputo quella sera, certi tessuti si sentono.
– Salve, signore. Cosa le servo?
– Soltanto una mela. Rossa. Stark.
– La mela di…
– Biancaneve, sì.
Annuì una volta sola, con garbo. Aveva ciglia lunghe e definite e un netto, nobile principio di stempiatura. Lucrezio selezionò la mela migliore, poi la lucidò col panno di cotone. Non si erano mai parlati prima, in tutti quegli anni. Salutati ogni giorno, mai parlati.
– Posso farle una domanda? Quello si girò inarcando le sopracciglia.
– Dica.
– Mi pare un signore molto elegante.
– Devo.
– Vede, io stasera sono in un posto elegante. Ho paura di non sapermi comportare.
– Segua la sua natura. L’eleganza è se stessi in misura ridotta.
Lucrezio consegnò la mela. Il mercante si mosse per armeggiarsi in tasca, ma lui lo arrestò. «Regalo», disse.
– Me stesso in misura ridotta, dice.
– È un uomo pensoso? Pensi un poco. È vivace? Lo sia poco, con garbo. Ha un’indole aggressiva? La riduca a un energico comizio. L’eleganza è ridurre se stessi.
– Come ci vado, come fruttivendolo?
– Se si sente fruttivendolo, ci andrà come mezzo fruttivendolo.
– Lo erano i miei, ci si sentivano. Ma io… lei come ci andrebbe, signore?
L’uomo magro soppesò la domanda. Sotto le palpebre abbassate l’occhio girava, gonfiando l’onda carnale.
– Mio padre era ingegnere. Ma ci andrei come commerciante. Mezzo commerciante. Perlopiù, ecco, uomo di gusto.
Addentò la mela. Lucrezio lo guardava, ma non ascoltava più granché, si era fermato assai prima che quello finisse di parlare.
E sussurrò:
– Io ti vedo.
– Eccola. Arrivederci.
Non rispose.
In effetti l’aveva conosciuto per così poco. Normale che non se ne fosse rammentato a vista. Aveva cambiato scuola quasi subito e non l’avrebbe mai pensato, Lucrezio, che crescendo sarebbe diventato così alto, il figlio dell’ingegnere.
Ma non aveva granché da imputargli, bisognava essere limpidi. I suoi avrebbero trovato scusanti migliori per non mandarlo al Liceo. Non era colpa del figlio dell’ingegnere, sebbene l’avesse sempre provocato, chiamato “verduraio”, “ehi, verduraio”, “verduraio, è un cavolo del tuo orto o è la tua testa?”. E giù risate.E poi decise, Lucrezio, decise che quello là non era chi pensava. Era un figlio d’ingegnere, ma non di quell’ingegnere. Meglio ancora, non esisteva. Non c’era nessun mercante di tessuti, proprio nessuno. Se l’era immaginato.
E in quel momento, proprio di fronte a lui, là sul limitare della piazza, Scarpette d’oro stava per forza baciando il niente.
*°*°*
Volevo una donna colta. La volevo tanto. Le donne colte sono come Deianira: imprendibili. La signorina Gemma insegna storia. La signorina Gemma sposerà mio cugino.
Ma io l’ho sposata per primo.
*°*°*
Dapprima non l’aveva capito, le era parso un uomo qualunque. E poi le aveva detto del fiume, e la sua bocca si era schiusa un poco.
Gemma aprì il fermaglio. Cornucopie di capelli bruni.
– Le donne sono strane. Le donne sono sane. Non so quale frase è corretta. Entrambe, probabilmente.
Lucrezio Dammi non poté rispondere. Aveva letto decine di libri difficili, ma la dialettica umana gli sfuggiva ancora. Peraltro, era ubriaco e il cielo, sì, era come scrutare un abisso di strass nero.
Soltanto sentiva un peso e Gemma era su di lui. Si sbottonava.
– Lo sai, ti ho visto tante volte al fiume. Leggevi. Tu leggi spesso, come fanno loro, quindi non guardi. Ma non sei loro, fortunatamente. E nemmeno un mero fruttivendolo. Sei… mezzo.
“Sono in mezzo”, pensò lui. Le guardava le gambe. Lo pungevano come rosmarino.
E poi rise, stava ridendo. E rise più forte, con una punta d’isteria. Era libero e ubriaco e i suoi erano morti crepati e Silvio si poteva fottere, e l’orto si poteva fottere, e Scarpette d’oro si poteva fottere, o fottersi il figlio dell’ingegnere, che importava?
Infine, l’Angelo del Signore era arrivato anche per lui.
“Ammazzami, Silvio” pensò. “Ammazzami ora, se hai coraggio”.
– Lucrezio. Prendi.
E finalmente, Lucrezio Dammi prese.
venerdì, 6 maggio 2022
In copertina: Foto di Xandra Iryna da Pixabay.