Da Julian Assange a Valery Kuleshov: la stampa libera è solo una chimera
di Simona Maria Frigerio
Nei conflitti armati accade spesso che i reporter muoiano. Pensiamo a Gerda Taro, uccisa durante la Guerra civile spagnola – donna indipendente, militante antifascista, incurante del pericolo perché condivideva la visione del suo compagno di vita, Robert Capa: “Se una foto non è buona, non eri abbastanza vicino”. Ma pensiamo anche a sabato 15 maggio 2021 (durante l’ultimo conflitto israelo-palestinese, durato dal 6 al 21 maggio, in cui perirono 2 minori israeliani e 66 minori palestinesi), quando l’esercito israeliano bombardò e distrusse l’edificio di Al-Jalaa, nel centro di Gaza, che ospitava molte testate, tra le quali Associated Press e al Jazeera – adducendo la presenza, non ci risulta provata, di Hamas. Così come possiamo ricordare il bombardamento statunitense dell’8 aprile 2003 sul quartier generale di al Jazeera a Baghdad, durante la Seconda guerra del Golfo; o quello della Nato sulla tivù di Belgrado – decisamente voluto, come informava un articolo de La Repubblica, in cui si riportava che un ammiraglio britannico, la settimana precedente, “aveva annunciato che la loro televisione, la Rts, da quel momento figurava nella lista dei «bersagli autorizzati»”.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi. E però oggi è Julian Assange a rischiare la vita non sotto bombardamenti voluti o errori perpetrati con le cosiddette bombe ‘intelligenti’, bensì estradato in un Paese che si dice ‘democratico’ ma il cui Presidente, Joe Biden (lo stesso che oggi vuol continuare ad armare gli ucraini senza nemmeno chiedersi, quando l’ultimo ucraino sarà morto, chi imbraccerà i suoi fucili), quando ricopriva la carica di vice di Obama, nel 2010, bollava Assange come «terrorista high-tech». Dopo che un tribunale inglese ha formalmente approvato l’estradizione del fondatore di WikiLeaks per reato di spionaggio, la decisione è ora nelle mani del Ministro degli Interni, Priti Patel. Anche se sono sempre possibili ulteriori appelli andrebbe sottolineato quanto ha dichiarato alla stampa britannica l’ex leader dei laburisti, Jeremy Corbyn, ossia che spera che Patel comprenda l’enorme responsabilità di cui è investita, ovvero di difendere la libertà di parola, il giornalismo e la democrazia, liberando Assange. Tutto questo perché: «Non ha fatto nulla più che rivelare al mondo le politiche e i piani militari oltre agli orrori della guerra in Afghanistan e in Iraq e penso che meriti di essere ringraziato per questo».
Sul fronte della guerra in Donbass, invece, registriamo un altro fatto che dovrebbe allarmare, ossia le accuse di terrorismo mosse dall’ex Segretario di Stato per l’edilizia abitativa, Robert Jenrick, nei confronti del giornalista e blogger Graham Phillips – a seguito dell’intervista al mercenario inglese Aidan Aslin, che è stato ingaggiato dall’esercito ucraino ed è ora sotto custodia russa. Chiunque abbia guardato l’intervista (tra l’altro, richiesta dallo stesso Aslin) si renderà conto che l’unico motivo dell’accanimento di Jenrick può essere il fatto che emerge un quadro non idilliaco soprattutto del battaglione Azov – i cui membri stanno tenendo in ostaggio (secondo fonti ucraine si tratterebbe di ‘presenza volontaria’) civili, tra i quali minori, nell’acciaieria Azovstal da usare come scudi umani. Inutili le offerte dei militari russi di una resa dignitosa, non solamente con la salvaguardia della vita ma anche le cure mediche necessarie e, ovviamente, tutte le garanzie della Convezione di Ginevra. Ma chi è Robert Jenrick? Secondo un interessante articolo di The Guardian, lo stesso, il Primo Ministro inglese, Boris Johnson, oltre al miliardario Richard Desmond sarebbero coinvolti in un imponente scandalo edilizio (la riqualificazione dei Westferry Printworks a Londra) e, nel 2021, Jenrick non è stato riconfermato in carica proprio da Johnson – dopo aver ammesso che la “sua decisione di garantire i permessi di edificazione non era legale” (fonte: Indipendent) e le accuse, da parte laburista, di uno scambio di favori. Jenrick era già stato criticato – da politici, associazioni della società civile e dai palestinesi – per la sua dichiarazione pubblica del 2020 in cui sembra non vedesse l’ora che l’ambasciata britannica in Israele fosse trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme (seguendo, quindi, le orme degli statunitensi). E sempre ad aprile, mentre invitava gli inglesi a restare a casa e rispettare il lockdown, il Daily Mail affermava che se n’era andato a 240 km da Londra in una seconda casa e poi si era recato in visita dai genitori. I suoi contatti e le sue amicizie con il Conservative Friends of Israel hanno dato adito ad altri pettegolezzi e accuse di do ut des e – last but not least – è stato criticato anche per l’approvazione di un progetto per una nuova torre da 17 piani a Notting Hill (che era stato rifiutato già tre volte precedentemente) e, peggio ancora, è stato criticato da Alan Jones, il Presidente del Royal Institute of British Architects, per la sua proposta di estendere i Permitted Development Rights, che Jones afferma equivalgano a permettere lo “sviluppo di futuri slum”. Dato che non condividiamo la politica di gettare fango su una parte in causa per favorire l’altra, eviteremo di proseguire nell’espunto di tutte le critiche della stampa made in UK nei confronti di Jenrick degli ultimi anni.
Nel frattempo, però, a parte i casi succitati, andrà ricordato che Valery Kuleshov, giornalista indipendente e blogger, è stato ucciso a Kharkov in circostanze ancora da chiarire anche se il dito, al momento, è puntato sui nazionalisti ucraini; mentre il giornalista Gonzalo Lira – contattato anche grazie al tam-tam internazionale da Alex Christoforou – ha dichiarato in un video (su quei social che sono a ogni passo demonizzati dai media mainstream) di essere trattenuto dai nazionalisti ucraini, dal 15 aprile scorso, di non avere accesso al proprio computer o cellulare e, quindi, che qualsiasi cosa sia stata pubblicata a suo nome dopo tale data non è sua anche se a suo nome, e di non essergli, al momento, permesso lasciare la città di Kharkov.
E nel frattempo non scriviamo nulla delle continue accuse di filo-qualcosa per chiunque non sposi la linea ufficiale, quella del Governo Draghi per intenderci, attualmente positivo al Covid e che pontificò: “Il Green pass è una misura con la quale i cittadini possono continuare a svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”, ossia i trivaccinati (come pensiamo sia il nostro esimio Premier).
sabato, 23 aprile 2022 – Speciale Guerra
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.