Roberto Rinaldi e il suo impegno per “informare, promuovendo una società inclusiva”
di Simona Maria Frigerio
Da anni Roberto Rinaldi approfondisce il tema del teatro in carcere e da anni i suoi scritti come giornalista e critico sono volti a indagare la complessità del reale e, in particolare, dell’istituzione totalizzante par excellence (ovviamente il carcere) e le ricadute sulla psiche, sulla socialità ma anche sulla maturazione dei reclusi se e quando si confrontano con la creatività – che è sì mezzo per esprimersi, ma anche attività che comporta un’assunzione di responsabilità a livello personale e collettivo.
Negli scorsi mesi Rinaldi ha terminato un impegnativo studio in materia – Il teatro dentro le mura: un varco verso una società inclusiva – che, se ha trovato un primo sbocco quale tesi presso l’Università degli Studi di Padova, si spera avrà un futuro editoriale non solamente di settore.
Lo studio parte dall’analisi di tutti i soggetti coinvolti nel teatro in carcere. In primis, lo spettatore (senza di esso non si potrebbe nemmeno parlare del rito laico del teatro), che «come cittadino… si deve confrontare con persone in regime di detenzione superando ogni forma di pregiudizio e/o stereotipo». In secondo luogo, vi è la «relazione che si viene a instaurare tra il regista e i detenuti» e, altrettanto importante, «il rapporto di fiducia con l’amministrazione carceraria. Il teatro non è solo attività di svago, ma svolge un importante valore terapeutico, agisce nel profondo e implica un percorso di consapevolezza».
Ovviamente questo percorso è possibile sia grazie all’articolo 47 della nostra Costituzione, che prevede la cosiddetta rieducazione del condannato dato che, per il nostro ordinamento, lo scopo della «pena detentiva è quello di modificare e trasformare il comportamento del detenuto, agendo sulla riclassificazione e trasmissione di nuovi valori»; ma soprattutto grazie alle realtà impegnate sul nostro territorio – Rinaldi ricorda infatti, che dal 2011, esiste un Coordinamento nazionale teatro in carcere presieduto da Vito Minoia, composto da oltre cinquanta realtà teatrali distribuite in quindici regioni italiane.
Prima di entrare nel merito degli argomenti è però importante comprendere come la visione spesso fornita dai mass media possa, non solamente, distorcere la nostra percezione della pena detentiva come mezzo atto alla rieducazione, ma anche impedirci di considerare il luogo carcere come spazio dove sia possibile creare bellezza. Da una parte il sovraffollamento (l’Italia, ci ricorda ancora Rinaldi, «è la nazione in Europa con il numero più alto di detenuti») e, dall’altra, il fatto che la stampa si occupi del sistema carcere solamente quando si registrano azioni criminali, rende difficile andare oltre lo stereotipo del luogo in cui recludere e punire.
Da San Quentin a Volterra
Si entra nella dimensione storica tornando a quel 1957 quando, in California, Rick Cluchey fondò la prima Compagnia di detenuti, la San Quentin Drama Workshop. Da quell’illustre precedente, Rinaldi si sposta a Volterra, dove ha seguito il lavoro della Compagnia della Fortezza, diretta da Armando Punzo, fuori e dentro il carcere – grazie all’articolo 17, Legge n. 26, luglio 1975 n. 354, che «ammette a frequentare gli istituti tutti coloro che dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera».
Nata nel 1988 «con un progetto di un laboratorio teatrale curato dall’Associazione Carte Blanche», nel 2003 arriva – per la Fortezza – il salto di qualità con il riconoscimento dell’attività, come lavorativa, per i membri della Compagnia che, a questo punto, sebbene detenuti possono uscire dal carcere per andare in tournée (come previsto dall’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario). Infine, ecco la notorietà presso il vasto pubblico televisivo grazie alla puntata Anime Salve di Domenico Iannacone, trasmessa su Rai 3 il 30 dicembre del 2018.
Dalla Storia con la S maiuscola, Rinaldi si sposta a quella più intima e personale di un singolo detenuto, denotando grande sensibilità e capacità di far comprendere al lettore come un recluso non smetta di essere persona e, anzi, come le sue necessità e le sue aspirazioni siano vicine alle nostre. Come racconta Vincenzo Fagone all’Autore: «Dentro il carcere devi resistere e allenare la mente, altrimenti quando […] esci non sei più nulla. Il filo che divide il nostro mondo da quello di fuori è molto sottile. Il carcere toglie l’umanità ma fare teatro ce la restituisce» e, più oltre, è lo stesso Rinaldi ad allargare nuovamente il discorso dal personale al politico, quando fa presente che, nel sito del Ministero della Giustizia, è spiegato come «l’esperienza del gruppo teatrale consente […] di sperimentare ruoli e dinamiche diversi da quelli propri della detenzione, sostituendo i meccanismi relazionali basati sulla forza, sul controllo e sulla sfida con quelli legati alla collaborazione, allo scambio e alla condivisione».
Rieducare permette il reinserimento e, quindi, un arricchimento della società stessa. Laddove la reclusione sia considerata (come negli Stati Uniti, ad esempio) solamente quale pena o mezzo punitivo, è la società, in fondo, a risultarne perdente in quanto si priva di potenzialità umane che, se ben indirizzate, potrebbero essere messe nuovamente in circolo a favore dell’intera comunità.
Dalla terra ferma al mare
Ci spostiamo geograficamente – anche se di pochi chilometri – con l’analisi della realtà presente nella Casa di reclusione dell’isola di Gorgona. Qui si alternano diverse attività lavorative connesse sia con la sussistenza degli stessi detenuti (l’orticoltura, l’apicoltura e l’agricoltura) sia con la salvaguardia di un ambiente ancora incontaminato, grazie alla manutenzione del patrimonio paesaggistico dell’isola.
L’Autore ha visitato la struttura in occasione della messa in scena dello spettacolo Ulisse o i colori della mente, «ideato dal regista e drammaturgo Gianfranco Pedullà, insieme ai suoi collaboratori Francesco Giorgi e Chiara Migliorini». Proprio qui, Rinaldi aggiunge un tassello alla nostra conoscenza del teatro in carcere, attraverso le parole del Direttore, Carlo Mazzerbo, che puntualizza come: «L’attività teatrale all’interno di un istituto di pena sconta la difficoltà di spazi non idonei che non sono stati previsti dall’ordinamento carcerario. Il contrasto tra la legge e l’edilizia penitenziaria è evidente: un luogo chiuso come giustificazione della pena. L’investimento delle misure alternative non viene incentivato. La realtà è quella che le leggi esistenti possono essere anche perfette ma restano sulla carta».
Per fortuna alla Gorgona l’impegno per offrire possibilità ai detenuti di maturare anche a livello professionale, oltre che umano, è ormai consolidato. L’Autore ci informa, infatti, che una serie di progetti di agricoltura eco-compatibile e di cura degli animali da cortile, grazie anche al supporto della Lav e del veterinario Marco Verdone, si sono trasformati addirittura in una Carta dei diritti degli animali. Ma non solo, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Bicocca di Milano ha «avviato un progetto per studiare la relazione tra le persone detenute e gli animali presenti sull’isola. Obiettivo dell’attività di studio e ricerca è quello di riconsiderare i benefici portati da una condivisione non violenta di spazi, luoghi e tempi di chi, a tutti gli effetti, vive l’isola in armonia con l’ambiente che lo circonda, a prescindere dal proprio ruolo» (e, quindi, sia egli detenuto o agente di polizia carceraria).
Dalla pratica alla teoria
Dopo aver presentato due realtà del territorio toscano (molto ricco di esperienze di teatro in carcere), Rinaldi torna alle complessità di un simile impegno che è sia rieducativo e sia artistico. Si parte da alcune acute considerazioni di Gianfranco Pedullà che, nel 2012, avvertiva come, se non vi è capacità di ascolto e dialogo, se non si è pronti a prendersi cura dell’altro da sé e a considerare il teatro in carcere come un evento particolare, di crescita individuale e collettiva: «l’atteggiamento delle istituzioni tende a diventare formale se non strumentale, quello dei registi rischia l’autocompiacimento estetico, quello dei detenuti opportunistico, quello degli spettatori voyeuristico». Occorre, quindi, essere ben chiari su quali sono gli obiettivi che si vogliono raggiungere e, non a caso, Rinaldi cita il Protocollo d’intesa sull’attività di teatro in carcere del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, nel quale si punta sia sul «recupero e reinserimento sociale» e sia sulla «tutela del diritto alla salute intesa come benessere fisico, psichico e sociale» del detenuto; l’attività del teatro in carcere avrà, quindi, dignità artistica e trattamentale ma svolge altresì una «importante funzione di collegamento con la società» (tema sul quale si tornerà).
Molto pregnanti anche le parole di Cristina Valenti – professoressa associata in Discipline dello Spettacolo presso l’Università di Bologna – che Rinaldi riporta e che permettono di capire meglio il meccanismo che predispone al cambiamento, il perché si parli addirittura di dignità trattamentale: «Il teatro entra in competizione con la rappresentazione del carcere e la contraddice. Permette all’individuo di rappresentarsi come persona e non come carcerato, riappropriandosi delle sue capacità personali e quindi della sua storia passata, da rimettere in gioco nel rapporto arte-vita che è sempre alla base del teatro e che diventa deflagrante in carcere».
E ancora, non va sottaciuta l’importanza di garantire la dignità del detenuto. Come per il paziente in un ospedale o, in passato, in un ospedale psichiatrico, l’istituzione totalizzante non deve mai trasformare l’individuo in un numero, non deve mai soggiacere alle regole di un lager. Rinaldi cita Pietro Buffa, ex Provveditore regionale dell’amministrazione carceraria dell’Emilia Romagna, che scriveva nel 2014: «anche in carcere si [dovrebbe] garantire a ogni persona di mantenere le proprie diversità e caratteristiche, la propria volontà ed individualità».
Tempo di Covid
A questo punto l’Autore fa un inciso sull’esperienza della Compagnia Teatro dei Venti di Modena, diretta da Stefano Tè. La pandemia ha causato il rafforzamento delle misure restrittive in carcere, isolando di fatto i reclusi dal mondo. La tensione fisica e psicologica ingeneratasi ha condotto anche ad atti di violenza, come è accaduto nella Casa circondariale di Modena e a Castelfranco Emilia, e al decesso di alcuni detenuti. Rinaldi fa presente che quando il Teatro dei Venti è tornato a lavorare in carcere (sebbene, all’inizio, in remoto) vi sono state diverse polemiche e accuse di essere indifferente «riguardo ai fatti accaduti e senza la minima empatia verso le persone che lì hanno perso la vita». Tè ha però risposto che «entrare in Carcere adesso è ancora più difficile e ancora più importante» e Rinaldi spiega come: «Impedire la sua [del teatro in carcere, n.d.g.] funzione avrebbe solo lo scopo di privare i detenuti della possibilità di credere che il carcere non sia solo “repressione”».
Anche altre sono le esperienze che Rinaldi racconta nel suo studio, riportando sempre citazioni dirette che allargano ilpanoramaesperienziale offerto al lettore e, soprattutto, aprono continuamente a nuovi sguardi – da Mimmo Sorrentino nella Casa Circondariale di Vigevano a Valentina Esposito, sceneggiatrice del docu-film che racconta la nascita dello spettacolo Famiglia nel Carcere di Rebibbia, fino ai tentativi di proseguire l’attività del teatro in carcere in remoto. Prima delle conclusioni, Rinaldi fa perfino una breve incursione nella settima arte, grazie alle parole di Leonardo Costanzo, regista dell’ottimo Ariaferma – e afferma giustamente che il film, tra i molti meriti, ha anche quello «di raccontare la vita in carcere senza ricorrere ai facili espedienti narrativi a cui siamo abituati».
Le conclusioni sono un invito
Quando si arriva alle ultime pagine di questo studio si comprende che si vorrebbe che non finisse qui. Qualità rara, questa, che denota un testo ricco ma fruibile, che affronta molti temi senza mai diventare pedante ma tanto meno essere superficiale e che apre la mente del lettore a domande che, nella quotidianità, difficilmente può porsi un ‘uomo libero’.
Non si può che chiudere con due frasi dello stesso Autore che ci hanno particolarmente colpiti perché offrono nuovi scenari anche di indagine. Il teatro in carcere dovrebbe avere «una realistica ricaduta rispetto alla visione che il contesto società ha di chi si è momentaneamente alienato ma ha riscattato, attraverso la pena, il suo diritto alla vita libera». Questo primo punto è fondamentale, per non rischiare l’autoreferenzialità o, ancora peggio, il solipsismo. E a questo proposito sarebbe interessante se Rinaldi potesse proseguire questo studio in un libro, raccontando cosa è accaduto, magari, a carcerati da lui incontrati: se il teatro ha agito effettivamente e positivamente nella loro esistenza anche oltre le mura del carcere. Il secondo punto è l’incontro: Rinaldi ammette, umanamente, i propri limiti (ma anche i nostri) nei confronti dei detenuti, per i quali aveva un «atteggiamento diffidente e condizionato anche da notizie che riportano in modo negativo quanto accade all’interno degli istituti di pena, pensati come distanti e completamente avulsi dalla società». Entrare nel carcere di Volterra, però, gli ha permesso di «mettersi in discussione e tralasciare ogni forma di resistenza per rendersi disponibile a vivere un’esperienza collettiva». Ecco, proprio di questo incontro vorremmo ancora leggere per metterci anche noi nella condizione di superare quei cancelli, finalmente con un «desiderio di interazione e di solidarietà».
Tutte le «citazioni» sono tratte dallo studio, ancora inedito, di Roberto Rinaldi (per gentile concessione dell’Autore. Vietata la riproduzione anche parziale delle stesse senza il consenso dell’Autore).
venerdì, 22 aprile 2022
In copertina: Foto di Marko Lovric da Pixabay.